Big Tech, dopo 20 anni l’Antitrust europeo aggiorna le sue regole. Multe più severe e possibili scorpori, ma ormai è tardi

Meglio tardi che mai. Dopo 20 anni l’Unione europea aggiorna la sua normativa antitrust per i colossi del web. Presto per brindare, il “digital act” è stato illustrato oggi dai commissari Ue alla concorrenza Margharete Vestager e per il mercato interno Paul Barnier, ma dovrà ora essere votato dal parlamento. Al momento non è stata definita una tempistica per l’approvazione. Ci sono insomma praterie per l’intervento delle lobbies. Giusto per avere un’idea, tra il 2014 e il 2016 la sola Google ha avuto ad esempio 120 incontri con esponenti dell’unione europea per patrocinare le sue ragioni. Per ora il nuovo regolamento prevede maggiori poteri di indagine e soprattutto un inasprimento delle sanzioni. Le società che non rispettano le regole sulla concorrenza potranno subire multe fino al 10% del loro fatturato globale. Per un gruppo come Amazon significherebbe ad esempio dover pagare multe fino a circa 28 miliardi di euro.

Ci saranno poi multe fino al 6% per le società che non adempiono agli obblighi di vigilanza. Spunta anche la possibilità di scorporare “con la forza” alcune unità di business. La “tagliola” scatta in caso di ripetute violazioni delle regole nel giro di 5 anni. Ricordiamo comunque che in base alle leggi attuali i monopoli non vengono perseguiti in quanto tali, ma solamente se vengono raggiunti attraverso comportamenti concorrenziali scorretti. Lo ha ribadito oggi il commissario Barnier: “noi non diremo mai che una società è troppo grossa, ma più aumentano le dimensioni più aumentano le regole”. Dopo aver autorizzato di tutto e di più, le autorità Antitrust di Stati Uniti ed Unione Europea si sono forse accorte che la situazione rischia ormai di finire fuori da ogni possibile controllo. “Too big to regolate”, vengono ormai etichettate società come Facebook, Google etc, proprio per l’immensa concentrazione di potere che ormai costituiscono.

I buoi sono già fuggiti da un pezzo – Nell’ultimo decennio i big della tecnologia hanno concluso qualcosa come 400 acquisizioni. Google, tra le altre cose, ha comprato i suoi due principali concorrenti di pubblicità on line, vale a dire AdMob e Doubleclick, ha acquisito YouTube, e la concorrente nel settore delle mappe on line Waze. Facebook ha comprato Instagram (le autorità antiturst diedero via libera perché, a loro dire, non si trattava di un social media e le raccolte di foto sono scarsamente monetizzabili) e poi Whatsapp. Oggi Google e Facebook insieme controllano l’84% della pubblicità on line. Nessun rilievo neanche per le acquisizioni di Amazon: Zappos, Whole Foodd, Soap.com. I colossi presidiano costantemente quella che viene definita la “kill zone”. Appena un concorrente potenzialmente minaccioso si affaccia all’orizzonte viene acquisito o, in qualche modo, spinto fuori dal mercato.

Si muovono anche Usa e Cina – In generale non è un buon momento per i colossi del web. O forse è vero il contrario. Il momento è così buono che anche le autorità più sonnacchiose si sono svegliate. La pandemia, con il boom del ricorso a servizi e acquisti on line, come ormai è noto, è stato un balsamo per i conti e il potere dei protagonisti del web. Sta di fatto che qualcosa si è messo in moto. Negli Stati Uniti, in Europa e anche in Cina. Oggi la Federal Trade Commission (Ftc), agenzia Usa a tutela dei consumatori e della concorrenza, ha chiesto a nove colossi tecnologici di fornire informazioni su come raccolgono e usano i dati degli utenti. La richiesta, fa sapere l’autorità in una nota, è stata inviata ad Amazon, Facebook, WhatsApp, Twitter e YouTube, e ancora a Snapchat, TikTok, Reddit e Discord. Le società hanno 45 giorni di tempo per rispondere. Nel dettaglio la Ftc vuole sapere come queste realtà raccolgono, utilizzano, tracciano e ricavano informazioni personali e demografiche; come determinano quali pubblicità mostrare agli utenti; se applicano algoritmi o analisi dei dati alle informazioni personali; in che modo misurano, promuovono e ricercano il coinvolgimento degli utenti; e come le loro pratiche influenzano bambini e adolescenti. Un recente rapporto del Congresso Usa aveva evidenziato, oltre a numerosi abusi concorrenziali, un uso piuttosto spregiudicato dei dati degli utenti. In particolare un ex dipendente di Amazon aveva affermato: “è come un negozio di caramelle, ognuno prende quello che vuole”.

Cinque giorni fa la stessa Federal Trade Commission (Ftc) e una coalizione di 48 Stati Usa hanno deciso di fare causa a Facebook, accusando il social network di pratiche anticoncorrenziali. Nel mirino dell’offensiva legale guidata dalla procuratrice generale di New York, Letitia James, che ha lanciato due cause, ci sono anche l’acquisizione di Instagram e di WhatsApp, per cui si arriva a ipotizzare lo scorporo. La risposta della società non sembra effettivamente del tutto campata in aria. “Revisionisti, anni fa furono loro ad autorizzare queste acquisizioni”, ha affermato il gruppo guidato da Mark Zukerberg.

Intanto le autorità cinesi sono alle prese con un vero e proprio cambio di paradigma. Da un sostanziale laissez faire applicato all’internet domestico ad una vigilanza puntuale. Le prime avvisaglie le hanno già sperimentati grandi nomi del web cinese come Alibaba e Tencent (entrambe con sede fiscale alle isole Cayman), multate e bloccate nella loro campagna di espansione. Anche Pechino adduce tra le motivazioni della sua discesa in campo l’eccessiva concentrazione e potere di pochi nomi e dubbi sull’utilizzo dei dati degli utenti. Le autorità hanno chiarito che la legislazione anti monopolio si applica anche alle società internet, cosa che sinora non era sinora mai stata esplicitata. Naturalmente per un governo come quello cinese è particolarmente indigesta l’idea di avere a che fare con soggetti che sfuggono a direttive e controlli.

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