Coronavirus, la richiesta di Medici senza frontiere: no a brevetti su test e vaccini. E a me viene in mente Bennato

Sul vaccino la lezione più grande me l’ha ricordata Edoardo Bennato. Il perché, però, ve lo dico dopo.

Qualche giorno fa, nel corso della trasmissione Agorà, il presidente dell’Istituto ricerche farmacologiche ‘Mario Negri’ di Milano, Silvio Garattini ha parlato di cosa dovrebbe accadere nel momento in cui ci sarà un vaccino contro il Covid-19.

“Se verrà realizzato negli Usa, ci si occuperà di darlo prima negli Usa” ha spiegato, sottolineando la necessità che arrivi ovunque. “Se necessario – ha detto – si potrebbe anche pensare ad abolire il brevetto per permettere a tutti di realizzarlo”. Che poi è una proposta avanzata nei giorni scorsi da diversi scienziati.

Qualche settimana fa l’organizzazione umanitaria Premio Nobel per la Pace, Medici senza Frontiere ha chiesto ai governi che non vengano depositati brevetti su farmaci, test diagnostici e vaccini utili per la risposta alla pandemia di Covid-19, ma che si adottino invece “misure alternative quali il controllo dei prezzi, al fine di garantire la disponibilità e la riduzione del costo dei prodotti, oltre che il salvataggio del maggior numero di vite umane”.

Di fatto, sarebbe un suicidio dal punto di vista della reputazione per un’azienda brevettare un vaccino e imporlo a prezzi alti. Gli Stati, poi, concorderanno l’eventuale prezzo con le aziende in grado di garantire la fornitura. Ma è interessante osservare cosa sta già accadendo intorno a noi.

Medici senza Frontiere segnalava i casi di Canada, Cile, Ecuador e Germania, dove sono stati presi provvedimenti “emettendo una licenza obbligatoria per farmaci, vaccini e altri strumenti medici destinati al trattamento del Covid-19” e ricordava che la casa farmaceutica Gilead aveva rinunciato alla designazione speciale di ‘farmaco orfano’ (anche se non si era ancora impegnata a non applicare i brevetti a livello globale) per il suo antivirale remdesivir, farmaco potenziale per il Covid-19, che le avrebbe consentito in via esclusiva di ricavare esorbitanti profitti dalla vendita.

Sempre se fosse stato efficace contro la pandemia, ma sappiamo come è finita, almeno per il momento. Il Financial Times ha, infatti, anticipato che la prima sperimentazione dell’antivirale in Cina si è rilevata un flop perché il farmaco “non ha migliorato le condizioni dei pazienti o ridotto la presenza del patogeno nel sangue”. Medici senza Frontiere ricordava anche il caso del produttore americano di test diagnostici Cepheid, definendolo “un altro esempio di come si può fare profitto speculando durante una pandemia”.

Appena ricevuta l’autorizzazione rilasciata dalla Fda per l’uso di un test rapido Covid-19 che fornisce risultati in 45 minuti, l’azienda ha annunciato che avrebbe fatto pagare 19,80 dollari per ogni singolo test nei paesi in via di sviluppo, compresi i paesi più poveri al mondo, dove le persone vivono con meno di due dollari al giorno. “Prezzi elevati e monopoli comporteranno il razionamento di medicinali, test e vaccini, e che ciò contribuirà solo a prolungare questa pandemia” la denuncia di Medici senza Frontiere.

E allora mi vengono in mente due storie italiane, una recentissima e una vecchia, come quelle che piacciono a me. La prima riguarda l’azienda farmaceutica statunitense Abbott, che ha vinto la gara bandita dal governo per la fornitura di test sierologici in Italia, offrendo gratuitamente 150mila kit e portando a casa la vittoria, contro ogni pronostico (in molti erano convinti che il bando fosse stato cucito su misura per la piemontese Diasorin).

Ma la vera sorpresa l’ha fatta la Abbott: appena il giorno dopo l’annuncio della vittoria della gara (su 72 partecipanti) che ha procurato all’azienda americana una notevole pubblicità, la multinazionale ha pensato bene di comunicare che entro maggio saranno pronti altri 4 milioni di test sierologici. Ma a pagamento. Una tempistica che pare abbia lasciato con l’amaro in bocca Palazzo Chigi.

E poi c’è l’altra storia, quella vecchia. Me l’ha ricordata Edoardo Bennato perché, in una trasmissione Rai la cui replica è andata in onda in questi giorni, ha dedicato una sua canzone meravigliosa, ‘L’isola che non c’è’ al virologo polacco Albert Bruce Sabin, naturalizzato statunitense. Fu lui a sviluppare il vaccino più diffuso al mondo contro la poliomielite, una malattia virale acuta molto contagiosa responsabile di migliaia di morti, soprattutto tra i bambini. Ne furono vaccinati milioni tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

In Italia divenne obbligatorio nel 1966 e debellò la malattia. Sabin non brevettò mai il vaccino e rinunciò allo sfruttamento commerciale da parte dei colossi farmaceutici affinché il prezzo rimanesse basso. “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino – raccontò – ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”.

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