La lezione che Confindustria sembra aver imparato dai birmani

Il noto antropologo britannico Edmund Leach, in un suo celebre studio sui Kachin dell’allora Birmania (oggi Myanmar), mise in luce come uno stesso gruppo potesse avere creato e adottato due sistemi politici differenti. I Kachin studiati da Leach alternavano modelli diversi in genere dopo che uno dei due entrava in crisi. Dopo aver praticato per un certo tempo il sistema aristocratico gumsa, costituito dai capi, passava a un sistema più democratico, detto gumlao, basato sulle comunità di villaggio. Il tutto continuava in una continua alternanza a seconda del momento contingente.

Mi è tornato in mente questo curioso pendolarismo politico, assistendo al penoso balletto dei rimpalli tra Regioni e governo e tra (certi) imprenditori e governo in questi tempi di pandemia. Infatti, i cosiddetti “governatori” hanno fatto spesso a gara a chi è più autonomista dell’altro, sperticandosi a richiedere “libertà” di azione, ansiosi di liberarsi dal giogo oppressivo dello Stato centralizzato. Quando poi si è trattato di prendersi delle responsabilità, di fare delle scelte, ecco che di colpo, con una rapidità da fare invidia ai Kachin, si sono subito affrettati a delegare il governo centrale ad assumersi quelle responsabilità che sarebbero spettate a loro. In sintesi: quando va bene, adottiamo il sistema federale, quando va male, che ci pensi pure lo Stato.

Quelle piccole tribù dell’altopiano birmano sembrano anche avere ispirato certi rappresentanti della Confindustria, in particolare quei corifei del libero mercato, che hanno sempre mal tollerato ogni ingerenza dello Stato nei loro affari. Con un’equazione (sbagliata) in cui liberismo equivale a libertà totale, rincorrono il profitto in ogni modo, tanto poi ci pensa la mano invisibile a riparare i danni. Poi arriva il virus e il mitico mercato onnipresente e onnipotente, si sbriciola in pochi mesi ed ecco allora che toccherebbe allo Stato rimettere le cose a posto. Allora si può anche fare finta di dimenticarsi di essere liberisti e capitalisti, lo Stato ci deve garantire i guadagni persi, deve aiutare le imprese…

Non so perché, ma mi sono sentito per qualche istante più giovane, quando la parola “socialismo” non era ancora stata bandita, nemmeno dalla sinistra. Quando si proponeva una società che riducesse le diseguaglianze, che ridistribuisse le risorse. Che ipotesi simili oggi vengano dagli industriali è curioso, ma forse tra i consulenti della Confindustria c’è qualche Kachin, che suggerisce ai suoi committenti, che è bene alternare i modelli di organizzazione: quando c’è da guadagnare facciamo i capitalisti, quando va male, meglio un sano socialismo.

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