“Ripartire dalla medicina territoriale”, l’appello dei giovani professionisti: perché il welfare di comunità può fare la differenza

La pandemia, lo raccontiamo da giorni, ha messo a nudo il vero anello debole della nostra sanità: la medicina territoriale. Quella che in realtà deve costituire il primo punto di riferimento per il cittadino e il necessario filtro verso l’ospedale. Perché le malattie non si curano solo all’interno degli ospedali, destinati per i casi acuti. Tutti i pazienti cronici vanno assistiti e curati a domicilio o al massimo negli ambulatori di prossimità. Con l’invecchiamento della popolazione parliamo di numeri importanti, destinati a crescere sempre di più. Il sistema di sorveglianza Passi dell’Istituto superiore di sanità registra in Italia oltre 14 milioni di persone che convivono con almeno una patologia cronica (cardiopatia, diabete, tumore, ipertensione, malattie respiratorie o del fegato, insufficienza renale, ictus o ischemia cerebrale) e di questi 8,4 milioni sono ultra 65enni. Ebbene, in questo contesto due anni fa è nata la campagna “2018 Primary health care: now or never” per il rinnovamento delle cure primarie italiane, sottoscritta da un gruppo di giovani medici di famiglia, specialisti in salute pubblica, infermieri e antropologi. La proposta di riforma è contenuta in un “Libro azzurro” (il nome è lo stesso del documento redatto nel 1990 dall’Associazione portoghese di medicina generale e familiare contenente le linee di indirizzo su cui si è basata la riforma sanitaria portoghese del 2005), un documento di 12 elementi essenziali da cui ripartire per creare una cultura delle cure primarie. Che punti a un nuovo modello di sanità fortemente integrato con il sociale e che metta al centro il paziente-persona, con interventi non solo sul trattamento della malattia ma sulla gestione della persona nella sua interezza. Come prevede già dal 2016 lo stesso Piano nazionale delle cronicità del ministero della Salute, purtroppo per questi aspetti ancora sulla carta in molte aree del Paese.

Il cuore della proposta (sulla scorta del Piano nazionale) consiste nello sviluppo di un approccio proattivo e multidisciplinare “che non si limiti all’erogazione di servizi finalizzati solo alla presa in carico delle patologie”, si legge nel documento, ma operi in sinergia con la comunità e le risorse del territorio, in particolare i servizi sociali del Comune, Asl, farmacie ma anche associazioni, società sportive, parrocchia, scuola, volontari di condominio, per dare una risposta a tutti i bisogni di assistenza del paziente. Si pensi per esempio all’anziano fragile in condizione spesso di solitudine e di disagio economico. “Il medico di famiglia si avvale di un team di infermieri, segretari, psicologi e assistenti sociali” dice Giorgio Sessa, uno dei medici promotori della campagna. La figura dell’infermiere di comunità, introdotta con il Patto della salute 2019-2021 tra governo e Regioni, “dovrebbe essere assunta direttamente dalla Regione, non dal medico di medicina generale, per evitare il far west dei contratti e disuguaglianze di trattamento. Inoltre – specifica Sessa – il medico andrebbe retribuito sulla base non del numero di assistiti ma di obiettivi di salute, per esempio la riduzione della prescrizione di antibiotici o di farmaci per lo scompenso metabolico promuovendo corretti stili di vita”. Il libro azzurro insiste anche sul potenziamento dei distretti, ossia le articolazioni territoriali della aziende sanitarie. “Ogni distretto deve poter eseguire un’indagine epidemiologica del territorio per orientare l’offerta dei servizi” continua Sessa. Infine, il concetto di rete integrata: “È necessario costruire percorsi di cura condivisi con gli specialisti per erogare prestazioni più personalizzate e meno frammentate. Il medico di famiglia non può limitarsi a fare ricette” incalza il giovane dottore.

Alcune realtà stanno già sperimentando questo nuovo welfare di comunità. La casa della salute delle Piagge, situata nell’omonimo quartiere popolare della città di Firenze, ospita un gruppo di tre medici di medicina generale che da un anno hanno attivato tavoli di lavoro multidisciplinari con psichiatra, assistenti sociali e infermieri presenti nella struttura. Dove si trova anche un centro prelievi, un consultorio ostetrico-ginecologico, un consultorio pediatrico, specialisti ambulatoriali e medici di igiene pubblica. Cecilia Francini, 41 anni, uno dei medici di base, sottolinea l’utilità preziosa di agire in team. “Gli interventi sono più tempestivi e mirati. Abbiamo preso in carico una coppia di anziani, lui con demenza e violento nei confronti della moglie, li abbiamo separati, lui ha smesso di finire in pronto soccorso, lei è sotto protezione”. Un altro esempio: “L’altro giorno in due ore abbiamo inserito in un piano di assistenza sociale una donna straniera che aveva partorito da 20 giorni e durante un controllo dalla ginecologa è svenuta, non mangiava da qualche giorno perché non aveva soldi. Questo è un quartiere multietnico con un alto tasso di disoccupazione, ne vediamo di ogni” racconta la dottoressa. Anche la gestione dei pazienti Covid è più facile potendo contare su un gruppo di colleghi. “Li seguiamo a turno, due ore ciascuno al giorno – prosegue Francini -. Ci alterniamo con gli infermieri per i controlli domiciliari oppure usiamo le videochiamate, anche per controllare i pazienti cronici, dopo averli dotati di misuratore per la pressione e pulsossimetro”. Un’altra iniziativa è la “chiamata proattiva” per coinvolgere la comunità nella costruzione di benessere. “Nel corso delle telefonate per invitare i cittadini a vaccinarsi contro l’influenza abbiamo chiesto loro se avessero risorse o contatti per dare supporto ai bisognosi – spiega Francini -. La comunità della parrocchia ha organizzato la consegna a domicilio dei pacchi alimentari ai pazienti Covid o particolarmente fragili, un’associazione si occupa del trasporto in ospedale per le visite programmate, altri volontari chiamano le persone anziane e sole per sapere come stanno e se serve aiuto, c’è chi recapita a casa i farmaci e con due associazioni per la tutela dei diritti umani due volte la settimana monitoriamo lo stato di salute nel campo rom”. Gli infermieri si stanno convertendo in “infermieri di comunità”, chiude la dottoressa: “Non dovranno più lavorare su mansioni, né sulla singola patologia, dovranno piuttosto occuparsi del benessere della persona a trecentosessanta gradi, proponendole attività fisica o un corso di cucina o di orto solidale con l’associazione di quartiere se è in sovrappeso o mangia male”. La soluzione chiave anche stavolta è l’integrazione con le risorse sul territorio.

Andrea Posocco, 33 anni, fa il medico di base a Tarzo, un piccolo comune trevigiano di 4mila abitanti immerso nelle colline di Prosecco. “È difficile nelle zone di periferia fare medicina di gruppo perché la gente vive sparpagliata” dichiara. L’alternativa è lavorare in rete. “Siamo due medici di famiglia in tutto il paese, abbiamo deciso di condividere le cartelle cliniche dei pazienti così se uno si ammala o è troppo oberato l’altro lo sostituisce”. Per le urgenze Covid questa collaborazione è risultata vincente. Posocco ha deciso di sistemare il suo studio al centro del comune. “Settimanalmente mi incontro con i servizi sociali. All’inizio, quando ho proposto questa iniziativa, sembrava che non ci fossero casi di cui discutere insieme. E invece entrambi seguiamo alcoldipendenti, abusati o maltrattanti o chi soffre di disagio mentale. La cooperazione è fondamentale” commenta Posocco, che insieme all’amministrazione cittadina ha fatto anche una mappatura delle associazioni sportive locali per coinvolgerle nella promozione dell’attività fisica soprattutto per la terza età. “Potrei così indirizzare i miei pazienti più anziani ai gruppi di cammino o alla ginnastica dolce” spiega. Mentre indirizza allo sportello di ascolto psicologico attivato da una delle due rsa chi ne ha bisogno. “È gratuito, dedicato ai parenti di persone con demenza ma è aperto in generale a tutta la cittadinanza”. Da luglio il medico, con 1600 assistiti, ha assunto una segretaria e un infermiere: “Il Covid mi ha fatto capire che da soli non si può lavorare bene. L’infermiere non si limita alle mansioni di assistenza standard, si informa sullo stile di vita e sul sostegno familiare al paziente, se riesce a procurarsi i farmaci, se c’è qualcuno che gli ricordi di prendere la terapia, se ha bisogno di aiuto per essere lavato, per la spesa, eccetera. Dalla scorsa primavera – conclude Posocco – è partito anche un progetto di telemedicina con la diabetologia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso. Facciamo un videoconsulto con gli specialisti per condividere i piani terapeutici, rivedere insieme le terapie, e i pazienti non devono più recarsi per forza in ospedale per ritirarli”.

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