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La transizione ecologica non è una supercazzola: siete voi che non ci arrivate

Continuo a sentire e leggere, nei dibattiti televisivi e sui giornali, seri dubbi sulla transizione ecologica, che diversi commentatori definiscono una supercazzola. La supercazzola, per chi non lo sapesse, è un espediente retorico utilizzato da Ugo Tognazzi in Amici Miei per intimidire interlocutori ingenui con una sequela di parole senza senso pronunciate con fare assertivo. Gli sprovveduti non osano dire di non capirle, per non apparire ignoranti, e cadono nella trappola dialettica di Tognazzi. Dire che la transizione ecologica sia una supercazzola, quindi, significa ritenere che non abbia senso.

In effetti, è priva di senso per chi non ha la cultura per capirla e che, invece di ammettere la propria inadeguatezza, etichetta come corbelleria quel che non riesce a comprendere. Temo che siano in pochi, tra i non fisici, ad aver capito davvero l’importanza del bosone di Higgs. Ma nessuno si permette di dire che si tratti di una supercazzola. Si accetta l’autorità di chi, in certi campi, è più preparato di noi. Dato che tutti si sentono esperti di ambiente, magari per aver visto qualche documentario in televisione, questa inadeguatezza culturale non viene percepita.

Le parole chiave per la transizione ecologica sono biodiversità ed ecosistemi. Sono i pilastri concettuali dell’Enciclica Laudato Si’. Quando Francesco la pubblicò, i frati francescani del Salento mi invitarono a Jaddico, un santuario vicino a Brindisi, perché la spiegassi. I frati sono persone profonde, e si resero conto di non avere sufficiente conoscenza per comprendere il messaggio di Francesco. Non dissero che era una supercazzola perché non lo capivano, e cercarono di mettersi in condizione di comprenderlo. Pur non avendo grandi inclinazioni religiose, avevo un carissimo amico che, di mestiere, faceva il frate. Fu lui a suggerire il mio nome.

Francesco, con Laudato Si’, chiede la conversione ecologica, un concetto non molto differente dalla transizione ecologica. Un post non può ovviamente fornire tutte le spiegazioni necessarie per capire cosa sia la transizione ecologica. Per sopperire alla bisogna, in questi giorni è uscito Affrontare la Complessità. Per governare la transizione ecologica, di Federico M. Butera. Lo raccomando. Leggendolo ho trovato molto di quello che secondo me è necessario per capire, citando il libro, “perché siamo arrivati a questo punto?”.

Butera spiega che il pianeta ha i suoi limiti, e analizza i nostri errori nel rapportarci con esso, indicando nuove strade verso la sostenibilità, per realizzare un compromesso tra il nostro benessere e quello degli ecosistemi che ci sostengono. Racconta la storia di Homo sapiens e del suo (nostro) impatto sulle caratteristiche fisiche, chimiche e bio-ecologiche del pianeta. Bisogna saperne di fisica, chimica, geologia, biologia, evoluzione, ecologia, socio-economia e storia per capire l’intrico di domini concettuali necessari a capire la complessità che il titolo si prefigge di affrontare, mettendoli assieme.

In generale, però, le cose trattate nel libro dovrebbero essere talmente ovvie da apparire scontate. E invece non lo sono, evidentemente, visto che siamo arrivati a questo punto. Il motivo principe di questa inadeguatezza culturale si riconduce al fatto che i percorsi di formazione sono molto avari di conoscenze su biodiversità, ecosistemi e ambiente in generale ma, ancora di più, sono molto avari di connessioni tra i saperi: le materie sono divise da alti steccati concettuali e non sono contestualizzate in un ambito ecologico, anche se tutto quello che facciamo avviene nel teatro degli ecosistemi, inspiegabilmente tralasciati o relegati in terzo o quarto piano dai programmi scolastici.

Il libro di Butera dà tantissimo al lettore attento, ma chiede tantissimo per la profondità delle connessioni tra gli argomenti. Tanto da risultare ostico in assenza di una preparazione di base che, nella maggior parte degli italiani, manca. L’assunto è semplice: ci siamo rapportati con la natura come un supermercato da cui attingere e un immondezzaio in cui scaricare i nostri rifiuti. Non ci siamo adeguati ai suoi ritmi e ai suoi meccanismi, ma abbiamo preteso che lei si adeguasse alle nostre richieste. Per un po’ ci ha assecondato, ma evidentemente abbiamo esagerato e, dato che non possiamo vivere senza la natura, è venuto il momento di capire che contrapporsi ad essa è contro i nostri interessi, perché se mai dovessimo vincere annulleremmo i presupposti per la nostra stessa esistenza. E, comunque, la vittoria sarebbe solo temporanea visto che, prima di distruggere la natura, avremo distrutto noi stessi.

La soluzione è vivere in armonia con la natura, adattando le nostre esigenze alle sue. Questo richiede innovazione tecnologica e, prima di tutto, grande competenza nella struttura e funzione della natura, perché non possiamo rispettare quel che non conosciamo. Consiglio di leggere e studiare il libro di Butera e, se non lo capite, rendetevi conto che è la vostra cultura a non permettervi di capirlo: non è una supercazzola, siete voi che non ci arrivate. La democrazia si compie con la consapevolezza della maggior parte della popolazione: questo libro promuove la democrazia.

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La sostenibilità passa per la consapevolezza. E per ottenerla bisogna saper osservare

Sto per finire il mio corso da remoto di Zoologia e devo “erogare” le esercitazioni pratiche. Non possiamo chiuderci in un laboratorio per analizzare la biodiversità animale, così lancio una sfida. Fatemi un rapporto sulle specie animali con cui entrate in contatto quotidianamente. Elencatele, cercate notizie su di loro, e documentate le vostre osservazioni con filmati.

Hanno lavorato da soli o in gruppi coordinati in remoto e hanno filmato e fotografato, documentandosi in rete. Nell’esercitazione formale tutti hanno presentato le loro osservazioni, ma prima mi hanno mandato i loro rapporti e ho suggerito modifiche. Non ho mai lavorato così tanto per fare le esercitazioni, e neppure loro.

Con quanti animali entrate in contatto? Ma prof… c’è il Covid, dobbiamo stare a casa. Ma potete andare nel supermercato a fare la spesa, no? Lo sapete cosa mangiate? Sapete da dove viene? Se è stato allevato, e come, o come è stato catturato? Una studentessa mi ha mandato la dissezione di una cozza, e ha documentato il movimento ciliare sulle branchie, spiegando come facciano ad alimentarsi questi molluschi così popolari.

Un’altra ha fatto una dissezione da manuale di un calamaro. Hanno esplorato i supermercati, guardando le etichette delle scatolette di tonno o dei bastoncini di pesce, e hanno scoperto che quello che mangiano non è quello che credevano. Una mi ha fatto una relazione sui parassiti del suo gatto. Con tanto di fotografie, ovviamente anche dell’amato felino, ma non solo.

I riti di accoppiamento dei millepiedi sono stati molto popolari. Ma anche i modi di muoversi di lombrichi e chiocciole, riprese mentre scorrono su un vetro, e si vedono la reptazione peristaltica e le contrazioni del piede. Le mucche allevate all’aperto d’inverno mettono il pelo. Sembrano yak!

Si sono guardati attorno, hanno osservato, descritto, notando tutto quello che hanno visto e che di solito passava inosservato. Io dico sempre che i bambini tornano a casa da scuola e non conoscono i nomi degli alberi che incontrano nel loro cammino. L’insegnamento astratto, che quantifica tutto e qualifica poco, domina nei percorsi di formazione e non educa a guardare. E invece i bambini amano tutte le forme di vita: Edward Wilson la chiama “biofilia”.

Una mamma mi manda un video di suo figlio Andrea. Quattro anni. Elenca gli animali che conosce: molluschi, poriferi, vermi; alcuni animali fanno i piccoli nella pancia della mamma e altri li fanno deponendo le uova. Sono ovipari! Ci sono animali a sangue caldo e animali a sangue freddo. Questo dicono gli scienziati, e io devo imparare tutti gli animali se voglio diventare un vero scienziato. Sai quali sono gli animali a sangue freddo? I rettili! Termina con una sfida: adesso ripeti.

Tutti i bambini in età prescolare sono come Andrea. Poi vanno a scuola. I miei studenti mi hanno confessato di aver sempre cercato di sapere queste cose, ma non le hanno mai trovate nel loro percorso di formazione. Molti avevano dimenticato la curiosità infantile. L’hanno ritrovata, e sono entusiasti di quello che hanno fatto, proprio come Andrea.

I documentari in televisione mostrano forme esotiche, curiosità, ma non insegnano a guardare. La finalità è di far fare “ohhh” agli spettatori, intrattenendoli. Mentre è raro che si arrivi a far esclamare “ahhh!” In quanti sanno come fanno a mangiare le cozze, e cosa mangiano? Non sto parlando di gastrotrichi e chinorinchi, sto parlando di cozze! Quanti sanno quali siano, da dove vengano e come siano pescati i pesci che chiamiamo genericamente tonno?

Senza il resto della biodiversità non possiamo vivere, ma ci siamo così allontanati dalla natura da non realizzare neppure che cosa sia quello che mangiamo. Come gli umili e apparentemente sottomessi di Fight Club si prendono la loro rivincita su chi li sfrutta (esemplare Brad Pitt che inquina con prodotti personali i piatti dei ricconi a cui fa da cameriere) così fa la natura.

Come si fa a rispettare quello che non si conosce? La sostenibilità passa per la consapevolezza e questa si acquisisce se si rimane come Andrea, imparando anche tutte le altre cose, mantenendo le capacità di osservazione. Gli attuali percorsi di formazione, invece, privilegiano l’astratto e ci allontanano dalla natura. Senza la quale non possiamo vivere.

I giovani, da sempre, chiedono cose concrete. I vecchi invece si rifugiano in astrazioni che li allontanano dalle loro responsabilità. La sfida è di invecchiare restando giovani. Senza cadere nelle illusioni di vite extraterrestri. O, comunque, coltivandole ma restando con i piedi saldamente sul pianeta Terra. Per ora l’unico pianeta vivente dell’universo conosciuto: intanto impariamo bene come è fatto e come funziona. Perché non lo sappiamo mica tanto bene…

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Coronavirus, da questa pandemia c’è una lezione che va imparata in fretta

Un dato è certo. Da un giorno all’altro, nel ventunesimo secolo, nell’era dei computer e di internet, della tecnologia spinta, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, ci scopriamo del tutto indifesi di fronte ad una mortale pandemia imprevista e sconosciuta che ci ricorda il Medioevo e fa vacillare le nostre certezze di uomini moderni, i nostri valori, il nostro modo di vivere quotidiano, la nostra economia, il nostro futuro.

Ci siamo ritrovati all’improvviso confinati in casa, con divieto di avvicinamento, senza poterci riunire e senza poterci allontanare, salvo che per soddisfare le necessità più elementari – salute e cibo – in un mondo dove le città sono deserte, le fabbriche e i negozi sono chiusi, e dove il solo lavoro ammesso fuori casa è quello di preminente interesse collettivo.

Oggi viviamo aggrappandoci ansiosamente alla speranza che presto questo incubo finirà e tornerà tutto come prima.
Ma è proprio questo il punto. Siamo certi che si tratta solo di una tragedia isolata e che tutto può tornare “normale”? E siamo certi che è auspicabile la “normalità” di prima?

“Ci siamo illusi di poter essere sani in un mondo malato” ha detto Papa Francesco, un grande uomo del nostro tempo. Ha ragione: questa pandemia non è un incidente ma è la migliore dimostrazione che la nostra salute dipende direttamente dalla salute degli altri e dalla salute del mondo in cui viviamo. La deforestazione, i danni di un inquinamento sempre crescente, l’uso sconsiderato della chimica e della tecnologia stanno rapidamente distruggendo migliaia di specie animali e vegetali e con loro la biodiversità.

La nostra specie diviene, quindi, sempre più quella dominante e sempre più, quindi, sarà l’obiettivo privilegiato dei vari virus che sono in grado di replicarsi e modificarsi per superare le nostre difese. Proprio mentre, come da anni ci ripete l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il crescente riscaldamento del globo ci porterà nuove pandemie tropicali. E non basterà lavarsi le mani, mettersi le mascherine e allontanarsi di un metro. Ma non basterà neppure un vaccino sempre più difficile da creare. Se c’è una lezione che dobbiamo imparare in fretta da questa pandemia è che dobbiamo iniziare a combatterne le cause, non le conseguenze.

E dobbiamo farlo subito, nel momento in cui destiniamo centinaia di miliardi per ricostituire la nostra economia e possiamo propiziare, quindi, una riconversione del tipo di sviluppo oggi dominante. Ma questo potremo farlo solo se lo capirà, e in fretta, la politica. Come ci ricorda l’Enciclica “Laudato si”, “non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale”.

Tanto più che ”una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida”, rifuggendo da una “concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese e degli individui”; così come finora è avvenuto.

In sostanza, per evitare nuove, insostenibili “emergenze”, occorre un ritorno alla politica vera che inizi a ripensare il senso dello sviluppo vero e sostituisca le scelte oggi operate e imposte dall’economia di mercato con quelle mirate al soddisfacimento dei bisogni veri degli individui in un quadro di pacifica convivenza tra l’uomo e l’ambiente e tra uomo ed uomo. Occorre, cioè, ripartire da beni e bisogni veri e fondamentali come la salute, l’ambiente, la biodiversità, la cultura, l’eguaglianza.

Nella consapevolezza che un “bene” non deve essere necessariamente “utile” o monetizzabile: un parco, una barriera corallina o un ghiacciaio, per l’uomo hanno un valore unico e immensurabile di per sé, a prescindere dalla circostanza se creano occupazione, fanno “fare soldi” o accrescono il Pil. E così è per un tramonto, per un paesaggio, per una emozione, per lo “stare insieme” che oggi ci è negato. Insomma occorre passare dalla quantità alla qualità, dall’avere all’essere. E su questi valori riprogrammare la nostra società e la nostra economia.

Del resto, proprio l’esperienza di questi giorni dimostra che, se necessario, molte produzioni industriali possono essere agevolmente riconvertite a obiettivi di tutela della salute. L’importante è, dunque, frenare le scelte aziendali troppo spesso oggi finalizzate solo al massimo profitto attraverso la creazione di consumatori in batteria, sostituendole con scelte più rispettose del bene comune e dei bisogni fondamentali dell’individuo.

Si porrà così un freno anche ai pericoli per la democrazia connessi con un aumento intollerabile delle diseguaglianze, prodotto inevitabilmente a carico dei più deboli da una pandemia come quella che stiamo vivendo e da quelle prossime future.

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