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Turismo, ‘l’esperienza Italia’ sarà la prima a riprendersi. Ma serve modernizzare l’offerta

Lo Unwto (United Nation World Tourism Organization) parla di un crollo mondiale del turismo del 70%. La domanda principale è come affrontare questa crisi. Lo Iata (International Aviation) stima che si tornerà, in termini di voli e turismo ad esso legati, all’epoca pre-Covid entro il 2024. Una stima rivedibile ma che, se aggiungiamo il tema sanitario a quello economico scatenato dalla crisi (per dirla semplice niente soldi poche vacanze, ricordate il 2009) definire una data precisa è ancora un atto quasi di fede.

Come Italia abbiamo un patrimonio che ci invidia il mondo e, cosa importante, un patrimonio che attira clienti/turisti che spendono. Bene inteso il turista mordi e fuggi che ti atterra nell’aeroporto lontanuccio così risparmia quei 5 euro fa sempre bene, ma il turista che arriva qui e spende una settimana per immergersi nell’Italian way, decisamente piace di più.

È su questo che dovremmo puntare, soprattutto come crescita di tutte quelle realtà che, pur se geograficamente e tecnologicamente più lontane dai grandi centri urbani, sempre più negli ultimi anni (2020 escluso ovvio) sono divenuti un’esperienza che all’estero è molto richiesta. Resta da capire come molte piccole realtà di qualità possono promuoversi presso gli operatori esteri (agenzie di viaggio, pr, butler di famiglie nobili).

“La domanda di italianità è cresciuta molto, come piattaforma online di turismo abbiamo rilevato una crescente domanda di esperienze, soprattutto da grandi network, clienti ricchi per semplificare” mi spiega Alessandro Mancini Ceo di Connect2Italy. La sfida adesso è accrescere la proiezione turistica.

Le fiere del turismo B2b, come il Itb di Berlino o il Bit di Milano, nel 2020 non hanno avuto luogo (il che impatta il turismo 2021). Non è sicuro che le fiere avranno luogo nel 2021. Tuttavia il sistema turistico non può limitarsi a dipendere dalle fiere di settore. È plausibile utilizzare questi mesi di ferma obbligata per investire nelle proprie risorse: aggiornando l’offerta, ristrutturando, investendo su e-commerce digitali etc. Lo conferma un Four Season di Milano che ha di recente annunciato una temporanea chiusura per aggiornare i suoi servizi e offerta.

L’opportunità digitale è un fenomeno che molti retailer hanno valorizzato in questi mesi. Per quanto di solito si faccia riferimento ai siti b2c (per utenti/consumatori) molte sono le soluzioni digitali con cui le aziende di servizi come il turismo, possono trovare clienti on line.

“Molte strutture stanno approfittando di questa pausa per partecipare con nuovi stili di promozione. Con le fiere cancellate i siti di e-commerce b2b (per soli operatori del settore nda) sono un’ottima soluzione per trovare clienti risparmiando le costose fiere di settore, che al momento sono bloccate”, mi spiega il co-founder di Connect2Italy.

Lo scenario turistico italiano nel 2021 è stimato in crescita, seppur con numeri in lenta evoluzione. Se consideriamo sia l’incoming straniero che la domanda interna “l’esperienza Italia” come confermato da Mancini, sarà la prima a riprendersi.

Alessandro Mancini ed i suoi hanno creato una sorta di Club che raccoglie il mondo in una piattaforma online, all’interno vi sono i buyers interessati a comprare esperienze e luoghi made in Italy, senza muoversi dalla propria scrivania.

Ovviamente molto sta alla scelta dei singoli albergatori, ristoratori e altre realtà legate al mondo esperienziale turistico italiano, di affrontare una scelta di modernizzazione sia digitale che in termini di proposizione commerciale, mirando ad una sempre maggior autenticità e qualità dell’offerta turistica.

Se consideriamo che l’Enit aveva pianificato una crescita superiore ai 18 miliardi, generate dal turismo estero verso l’Italia, per il 2020, si comprende come le premesse economiche e di interesse siano presenti. Ovviamente non sarà facile, ma siamo in Italia: qui di facile non c’è mai nulla. Ma come italiani ci siamo abituati nel tempo ad affrontare ogni sfida.

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Vaccino Covid, l’imposizione non è improbabile: la ragione riguarda gli indennizzi

Ormai abbiamo capito da anni che il sistema finanziario mondiale si regge sul principio della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite. Finché i mercati tirano, i grandi investitori fanno affari d’oro con interessi in doppia cifra; quando le borse crollano, e le banche “too big to fail” scricchiolano, non di rado interviene “Pantalone” con vari meccanismi di salvataggio pubblico o di nazionalizzazione.

Ora, la domanda da porsi è: rischiamo di replicare un simile schema anche rispetto ai danni collaterali che il prossimo vaccino potrebbe portare con sé? In Canada, il ministro della Sanità Patty Hajdu ha appena annunciato che chi accuserà reazioni gravi per effetto della somministrazione del vaccino anti-Covid potrà chiedere e ottenere un pubblico risarcimento. Nel Regno Unito già si parla di un piano “nazionale” di indennizzi.

In generale, le aziende di Big Pharma sono state molto attente nell’inserire clausole di salvaguardia da qualsiasi azioni risarcitoria dovesse essere promossa per danni vaccinali. L’agenzia Reuters, il 31 luglio scorso, ha diffuso la notizia che AstraZeneca non sarà tenuta a risarcire danni vaccinali perché “la pharma britannica ha raggiunto questo accordo con la maggior parte dei Paesi con i quali ha stipulato un contratto di fornitura”.

Questa è la vera ragione per cui l’imposizione di un obbligo vaccinale in Italia è tutt’altro che improbabile. Infatti, nel nostro paese l’unica legge sugli indennizzi per danni da vaccino (la 210/92) prevede – affinché lo Stato se ne faccia carico – che quel vaccino sia obbligatorio, sia pure con i distinguo di cui ci apprestiamo a dire.

A questo punto, però – e preliminarmente – la domanda ineludibile diventa: è lecito ordinare a tutti, per legge, un vaccino? O è, piuttosto, preferibile ricorrere a un modo più “gentile”, come direbbe il premier Giuseppe Conte, per proporlo, anziché imporlo? I vaccini fanno davvero (sempre) bene? E se, invece, fanno (talvolta) male, è giusto che il cittadino danneggiato sia risarcito? Ed è giusto che di questo risarcimento debba farsi carico lo Stato e non invece le aziende che godono di tutti i miliardari ritorni economici del relativo business? Tutte queste domande erano già scottanti prima dello tsunami Covid-19. Oggi, alla luce di quanto accaduto, sono quesiti addirittura incendiari.

Perciò, è di grande interesse una recente sentenza della Corte Costituzionale, la numero 118 del 23 giugno scorso, con la quale la Consulta ha dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo 1, comma 1 della succitata legge 25 febbraio del 1992, numero 210. Ma perché la norma in oggetto è finita all’attenzione della Corte Costituzionale?

Tutto nasce da una eccezione di incostituzionalità sollevata dalla Cassazione. Secondo la Suprema Corte, infatti, quell’articolo sarebbe contrario alla nostra Carta fondamentale, perlomeno laddove prevede il diritto all’indennizzo solo a beneficio di coloro i quali riportano pregiudizi a causa di un vaccino obbligatorio; e non anche a favore di chi a quel vaccino si è sottoposto spontaneamente. Magari sulla base di una mera “raccomandazione” della pubblica autorità.

Ebbene, la Corte Costituzionale ha dato ragione ai giudici del Palazzaccio. In buona sostanza, i magistrati della Consulta hanno rilevato come, nel caso di specie, la cosiddetta “raccomandazione” si fosse in realtà tradotta in una “ampia e insistita campagna di informazione” da parte delle autorità sanitarie. Per effetto della quale una giovane pugliese era stata convocata presso gli ambulatori dell’Asl mediante una missiva che presentava la vaccinazione contro l’epatite A “non tanto come prestazione raccomandata, ma quasi come se fosse stata obbligatoria”. La pronuncia fa seguito a due analoghe sentenze del Giudice delle Leggi: la numero 107 del 2012 (in materia di morbillo) e la numero 268 del 2017 (in materia di vaccino antinfluenzale).

In effetti, e a ben vedere, la differenza tra “obbligo” e “raccomandazione”, nella pratica medico-sanitaria, è assai meno marcata di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. Tradotto: le chiamano raccomandazioni, ma in realtà qualsiasi cittadino le percepisce, recepisce e interpreta come coercizioni. Soprattutto perché l’uomo della strada è portato, di regola, a riporre “affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie” (parole della citata sentenza). Tutto ciò ha condotto la Corte Costituzionale alla declaratoria di illegittimità.

Ora, è evidente come questa pronuncia apra scenari da monitorare, atteso che il governo sta per intraprendere la strada, da molti auspicata, di una vaccinazione di massa contro il nuovo Coronavirus. Un’attenzione doverosa non solo nel caso in cui si dovesse optare per un imperativo esplicito, ma anche in quello in cui si dovesse propendere per una sorta di “moral suasion” concepita per indurre “spontaneamente” il maggior numero di persone a vaccinarsi. Alla fine, in entrambi i casi, pagherebbe lo Stato.

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Il senso dei talent show: uomini e donne bramosi di sottomettersi al capriccio di alcuni ‘giudici’

Quello che mi colpì più di tutti fu un signore di mezza età, padre di famiglia, estrazione borghese, tremolante con le mani intrecciate quasi in posa da preghiera, speranzoso che uno dei cuochi seduti sul trespolo gli dicesse “si”.

Sudava, ansimava , con la famiglia che dal loggione lo rincuorava come la Pina sosteneva Fantozzi mentre veniva insultato dal mega direttore conte Diego Catellani nell’epica sfida a biliardo incurante, anzi quasi fiero, di mostrarsi in questo atteggiamento servile e trepidante, degno dei protagonisti di Furore di John Steinbeck quando i caporali li sceglievano per il lavoro nei campi di cotone.

E’ questa la cifra dei tanti talent show, ambitissimi da uomini e donne bramosi di sottomettersi al capriccio di alcuni “giudici” i quali, appollaiati su di un trespolo, con la scusa di valutare un soufflé, godono nel mantenerli in una posizione di subalternità che sconfina con la sottomissione, permettendosi pure imbarazzanti domande sulla loro vita privata.

E questi non solo rispondono davanti a milioni di persone che assistono alla messa in piazza delle loro pudenda, ma in un pianto liberatore confessano al padrone travestito da cuoco le loro peripezie, i loro fallimenti amorosi, il dolore per separazioni patite, i tristi tribolamenti vissuti quando vivevano in umili regioni di provenienza.

Paradosso dell’italiano: chiuso, isolato, sempre più blindato fisicamente e virtualmente, sospettoso, geloso della propria privacy, ma al contempo pronto a frignare in diretta le sue disgrazie mandando al macero generazioni di pudicizia. Alla base di tutto ciò c’è un grande fraintendimento: non è il “maestro” la figura che molti cercano, ma il padrone.

Lo stesso padrone che in Fontamara decideva le sorti dei cafoni, dispensando con un cenno del capo la speranza di sopravvivere e di sfamarsi. Queste competizioni sdoganano ed amplificano un mai sopito desiderio padronale, atavica tara e vanto dell’italiano. Un padrone nelle mani del quale riporre le proprie debolezze, al quale offrire i propri talenti barattati per un affaccio privo di censure sulla propria intimità, al prezzo di uno svillaneggiamento per un sugo condito male, un involtino scotto, un risotto mal impiattato.

La vera pietanza preparata per gli occhi di milioni di spettatori è un inconfessabile desiderio di servitù di chi cuoco non lo sarebbe in realtà mai diventato, confidando però in un assenso benevolo del padrone che frutti un briciolo di attenzione, di considerazione, per sentire il caldo di quella stima che, evidentemente, in queste storie manca da tempo.

I “giudici” godono intrespolati della loro posizione di dominio assoluto, arcigni, melliflui, con pose da Humphrey Bogart de noartri, socchiudono l’occhio, inarcano con sufficienza il sopracciglio, sostengono il mento tra indice e pollice quasi a nobilitare un giudizio su di una zuppa.

La cinepresa ormai è lì più per loro che per i manicaretti cucinati, pietanze pretestuose che vivono di un tempo effimero e ben raramente vengono replicati nelle case. Fenomeno similare, con qualche differenza sostanziale, è costituito da quel ricco e variegato mondo di talent ove l’oggetto del giudizio sono le doti canore, musicali o ginniche di aspiranti artisti.

Se nel primo caso la differenza di sapere è indubbia e spesso abissale, qua la posizione del “maestro” non si sostiene quasi mai. Sì, perché a fronte di tanti saltimbanchi e improbabili attori di periferia privi di qualsiasi dote che vada oltre la recita di Natale, qua è possibile veder sfilare ragazzi a volte realmente dotati di voci possenti, virtuosi della chitarra o del pianoforte, giudicati con altezzosità da “docenti” dei quali quasi nessuno ricorda un brano che sia uno.

Creatori di canzoni leggere che non sopravvivono quasi mai all’estate, divulgatori di testi banali, litanie omologate ed indistinguibili, puntano il loro plettro verso gli esaminandi convinti di essere Pat Metheny o dei novelli Mark Knopfler.

E’ dunque sul grande malinteso maestro-padrone che si gioca il proliferare di queste forme di intrattenimento, a causa del quale tanti scambiano la durezza per saggezza, l’altezzosità per sapienza, l’arroganza per desiderio di sapere.

Il maestro non si intrespola, raramente giudica in modo sprezzante. Il vero maestro è riservato e inappartenente. Il guru poco dotato invece strombazza le proprie virtù, sforna giudizi, ci affligge con i suoi consigli, le sue ricette, le sue inutili massime.

C’è sempre qualcuno che da qualche parte punta a un qualche micragnoso tornaconto personale, un qualche lasciapassare sociale, un avanzamento. Ed è in nome di ciò che accetta un “merdaccia”, mentre tutt’intorno soggetti a lui affini ridono, mordendo il freno dell’attesa di quando varrà il loro turno dell’umiliazione.

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Il mio Natale a Waterloo

A Natale siamo tutti più buoni, io sono una persona buona e a Natale divento buonissimo. A Natale divento così buono che potrei invitare a cena un negazionista e un complottista, potrei chiedere a mamma di cucinare la migliore pasta al forno della sua vita in loro onore, e poi tra un calice di Amarone e l’altro potrei accogliere la loro tesi: Conte fa parte di un complotto mondiale teso a buttare sul lastrico tutti i piccoli commercianti, si tratta in realtà di un esperimento di controllo sociale, esperimento riuscitissimo, con la complicità dei giornalisti di tutto il mondo, chi è al Potere sta dimostrando che il cittadino è creatura passiva, manipolabile a tutti i livelli, puoi addirittura svuotare gli stadi e sequestrare una festa come il Natale, blindarla, condannare tutti a un Natale intimista, e non avrai alcuna rivoluzione, nemmeno una ribellione, solo un vago mugugnare sui social, niente di più, scie chimiche di rabbia che presto si disperdono nell’ebetudine celeste della rassegnazione.

A fine cena il famoso tiramisù alle fragole di mamma e un Tokaji aszù con 6 puttonyos, mica si scherza in casa Farina, noi i nemici li trattiamo bene, e non riusciamo a concepire spargimenti di sangue, ma solo allegria, dolcezza e bontà. Siamo persone semplici noi Farina, il Natale
intimista non ci dispiace, fraternizzare è la parola d’ordine, anche se detestiamo gli ordini di qualsiasi tipo. Un Natale senza parenti non è poi una tragedia, a noi piace frequentare i parenti senza l’ingombro del Natale, senza quella farsa spumeggiante dei regali sotto l’albero e dei brindisi dove ci si guarda negli occhi, noi Farina ci guardiamo negli occhi sempre, senza bisogno delle feste.

Non è stato Conte a condannarci a fare un Natale in tre, ma un fenomeno più radicale di Conte: la morte. La morte ci ha privati del papà e di tanti parenti simpatici (zio Gino, zio Vezio, zia Mirella, zio Joe, zia Leda, zio Roberto…), si sa, la vita è un processo in costante sottrazione, e per fortuna io non sono molto bravo in matematica, quindi ogni tanto sbaglio qualche sottrazione, e parlo con mio padre come se fosse ancora vivo. Sognare è la cosa che amo di più, soprattutto per due fattori: nei sogni le persone cieche tornano a vedere e i morti ci abbracciano.

Ma dove eravamo rimasti? Avevo invitato a cena quelli del “Coronavirus è tutta una messa in scena del Potere”, eravamo al tiramisù e al Tockaji, e dopo avere sorseggiato e scolato tutto quello che si poteva scolare, mi sa che prenderei la parola per questo discorso di congedo: carissimi complottisti e negazionisti, per la famiglia Farina e per me in particolare è stato un onore accogliervi al nostro desco natalizio, ci avete illuminato con la potenza scettica del vostro cogitare, ci avete insinuato il rovello divino del dubbio, avete fatto a pezzi le nostre certezze dogmatiche, pensavamo che ci fosse in atto una terribile pandemia, invece, grazie alla vostra scaltra
percezione delle cose, abbiamo capito che si tratta di altro: giochi di potere, scenari mentali, suggestioni cognitive, prove tecniche di repressione globalizzata.

Di tutto questo vi ringraziamo, di averci aperto gli occhi; ora ascoltate, fuori dal portone troverete quattro persone vestite con un camice bianco, cercheranno di farvi indossare una cosa chiamata “camicia di forza”, voi restate calmi, non dovete preoccuparvi, si tratta semplicemente di una candid camera, vi porteranno in un ospedale psichiatrico, ma voi fate finta di nulla, state al gioco, se vi capita di scorgere qualche persona intubata, non impressionatevi, sono tutti figuranti di un immenso Truman Show, cari amici negazionisti, la morte non esiste, il Coronavirus non esiste, io non sono Ricky Farina, non lo sono mai stato, sono Dio, sono Conte, sono una lucertola e un’aspirina, sono tutto, sono l’amore che tiene insieme l’universo, e ovviamente sono Napoleone. A Waterloo. Il mondo non esiste, esiste solo il Belgio, il Belgio e Waterloo. Non lo sapevate? Beh, adesso lo sapete. Buon Natale.

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Caro hater, ora che il Natale è come l’hai sempre voluto ti lamenti? Che rompicoglioni!

Ciao hater, come va? Come butta lì nella tua stanzetta puzzolente da hater, illuminato a giorno da quello schermo dove ogni giorno vomiti tutte le tue frustrazioni e raramente qualcuno osa mettere “mi piace” alle tue frasi acide sugli orrori del mondo che puntualmente fai notare con la tua competenza da indivanados, il risultato della tua formazione dopo anni e anni di studi su Report, Piazza Pulita, Ballarò, la trasmissione di Giletti, quella di quell’altro con la vocina, quella di Del Debbio… insomma quelle robe lì, compresi i giornali e i tg che guardi critichi e pensi: “Queste notizie io le saprei dire meglio”?

E invece no, non le dici meglio, anche perché sei lì nella tua stanzetta col tuo carico d’odio di ricino a rompere i coglioni a tutti, soprattutto in questo periodo che precede le vacanze di Natale, dove qualcuno osa essere contento e tu arrivi lì a rompere i coglioni con le tua frasi da nerd: “Speriamo che questo Natale passi presto”, “Odio il Natale e tutta la sua ipocrisia“, “Che schifo il Natale”, “Chi va a messa è stupido!”.

Ecco, è arrivato il tuo momento. Vai! Collegati a Facebook, Twitter, Linkedin, va bene anche Instagram e spara una frase ad effetto delle tue sul Natale, poi goditi ore ed ore di risposte piccate al tuo post da parte degli amanti di questi giorni di festa che tu odi, come del resto odi tutti quelli che a differenza di te sono felici e che consideri degli stupidi, perché sappiamo tutti che l’unico intelligente sei tu, ci mancherebbe e i tuoi successi esistenziali (ricordiamo: “perché io lavorooooooooooo”) ce lo stanno a ricordare ogni giorno.

Che bello dire: “Che palle il Natale coi parenti” che certo, se sono come te, saranno addirittura peggio di te, ovvio, ma a te piace tirartela di essere la pecora nera della famiglia e al grido di “Ma chi ti caga?”, goditi questo piccolo trionfo personale nella tua cameretta.

E dei regali di Natale, non vogliamo parlarne? Ok, parliamone. Farli? Cheppalle. Riceverli? Ah…. io non desidero niente. E allora niente sia, goditi ‘sto niente, chiuditi in casa, non vedere nessuno e aspetta che passi tutto ‘sto schifo, ma attenzione, quest’anno c’è una novità, ovvero: quest’anno, più o meno tutti trascorreranno il Natale che hai sempre desiderato.

Sei contento? Pensa che figata: una nazione, il mondo intero che trascorrono un Natale di merda identico al tuo, identico a quello che trascorri tu. Sarà bellissimo stare tappati in casa fino al 6 gennaio, non trovi? No? Come, no? Ah, adesso non ti va bene? Come sarebbe “Voglio festeggiare il Natale come lo festeggiavo prima”? In che senso rivuoi il Natale di una volta? Ma, come…..?????

Certo che sei un bel rompicoglioni.

Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo, che tanto lo sai anche tu che prima o poi tutto tornerà come prima, ma un po’ peggio.

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Conoscevo uno di quei numeri. Per questo so cosa significa vaccinarsi

Conoscevo uno di quei numeri.
Purtroppo più di uno.
Un parente, il genitore di un amico, un vicino.
Uno di quelli la cui somma, a fine giornata, viene comunicata con la dicitura “in diminuzione rispetto a ieri”.
Come se 522, 417, 318 morti, tutto sommato, fossero un dato a cui guardare con soddisfazione.

Se conosci uno di quei numeri, se conosci le loro storia, il dolore che si lasciano dietro, come se ne sono andati, beh, credimi, la prospettiva cambia.
Quel numero è tua mamma che viene portata via da due infermieri bardati come astronauti e di cui tu non ricorderai il volto. Quello che non dimenticherai mai, è lei, che prima che l’ambulanza parta ti dice: “Mi porti un pigiama buono?”, perché la sua dignità e il senso del pudore non può essere indebolito neanche da un virus bastardo.
E, tu quel pigiama, non glielo darai mai.
Perché non la vedrai più.

La sentirai al telefono, poco prima che ti chiamino per dirti che non ce l’ha fatta, capendo faticosamente poche parole filtrate da un casco: “Voglio tornare a casa per Natale”.
Vedrai solo una bara, sapendo che non le hai potuto mettere neanche un vestito.
Ti domanderai, per il resto della tua vita, se non avrà freddo, sepolta sotto un metro di terra.

Quel numero è una casa da vuotare con il suo insopportabile carico di ricordi. Tutte quelle foto, ciascuna una fitta al cuore. I suoi vestiti. Le sue cose in bagno. Le ricevute sul mobile vicino alla porta. Le chiavi nella ciotola di ceramica che le hai fatto in quinta elementare. Il libro che stava leggendo. La lista della spesa sul frigo. I ricordi dei suoi viaggi nella vetrinetta.

Ti chiederai se avresti potuto fare qualcosa. Proteggerla meglio. Evitarle una fine così triste. Che tutte le fine sono tristi, per carità. Ma non così. Così è troppo.

E se sei tra quelli che, non dico non ha vissuto in prima persona un’esperienza del genere, ma non l’ha neanche sentita raccontare da qualcuno vicino, sentiti fortunato, davvero fortunato.
Quello che non puoi fare è girarti di spalle pensando che la cosa non ti riguardi.

Vaccinarsi non significa solo fare un passo per ritrovare la libertà di abbracciarsi, viaggiare, andare a un concerto, respirare.
Vuol dire impegnarsi per non essere anche involontariamente motivo di così tanto dolore. Perché nessuno dovrebbe sentire quello che si prova se uno di quei numeri non è soltanto un numero.
Ma un nome. Una storia. Una vita.

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Trenord, arrivano i treni a idrogeno ma restano molti dubbi. Greenwashing incluso

Non è ancora chiaro quale strategia di sviluppo di nuove tecnologie e di trasporti sostenibili stia dietro all’annuncio del progetto di Ferrovie Nord (Fnm) e Trenord sulla linea Brescia-Iseo-Edolo, per una mobilità ferroviaria a idrogeno il cui primo step costerà 160 milioni di euro per l’acquisto di sei treni.

L’annuncio non sembra essere in sintonia con la consultazione pubblica sulle Linee guida per la Strategia nazionale sull’idrogeno, lanciata il mese scorso dal ministero dello Sviluppo Economico. Esse mirano a individuare i settori in cui si ritiene che questo vettore energetico possa diventare competitivo in tempi brevi, ma anche a verificare le aree d’intervento più conformi a sviluppare e implementare l’utilizzo dell’idrogeno. Durante un rapido periodo di consultazione pubblica, dal 24 novembre al 21 dicembre 2020, i soggetti interessati e gli stakeholders (quindi anche Fnm o il gruppo Fs) potranno inviare osservazioni o presentare proposte in merito alle Linee guida preliminari della Strategia, scrivendo al Mise.

Il ministero ha precisato che l’Italia è “tra i primi Paesi che credono nell’idrogeno come vettore energetico pulito del futuro, in grado di accelerare il processo di decarbonizzazione verso un modello di sviluppo ecosostenibile”. Ciò ha permesso ai ricercatori e alle aziende italiane di acquisire un vantaggio in termini di capacità e conoscenze sull’idrogeno, che oggi consente al nostro Paese di avere un ruolo centrale nella definizione dei piani europei di investimento previsti per lo sviluppo e l’implementazione della produzione e utilizzo dell’idrogeno.

La decisione di Fnm di acquistare treni all’idrogeno, già pronti, dai francesi di Alstom lascia in verità pochi spazi alla ricerca e alla tecnologia italiana, anche se il progetto dell’azienda di trasporto lombarda è solo alla fattibilità preliminare degli impianti di produzione dell’idrogeno necessari per attivare il servizio ferroviario. Il primo impianto di produzione, stoccaggio e distribuzione di idrogeno sarà realizzato da Fnm a Iseo tra il 2021 e il 2023.

Il piano di fattibilità è ancora in corso e prevede l’utilizzo iniziale di metano/biometano, trattenendo e stoccando la CO2 prodotta, per la produzione di “idrogeno blu”. Ci si aspettava una presentazione del progetto che valutasse anche tecnologie alternative, come l’elettrificazione, che invece non è arrivata. Con 50 milioni di euro si sarebbe potuto elettrificare la linea e, con altri 60 milioni, comprare dieci treni elettrici anch’essi non inquinanti, meno pesanti, più versatili e con consumi di energia nettamente inferiori.

Almeno per le manutenzioni e i costi energetici, un confronto su un periodo esteso di tempo sembrava davvero indispensabile. I costi ambientali di questi nuovi impianti devono essere quantificati in base ai più recenti parametri europei di monetizzazione. Eventuali differenze nell’esercizio, che dessero luogo a numeri diversi di treni scorta necessari (a causa della frequenza delle manutenzioni), dovrebbero essere tenute in conto. A mancare, infine, è un piano d’esercizio (che indichi orari e frequenze) capace, con i nuovi treni, di togliere la linea dall’ultima posizione tra le linee ferroviarie lombarde per numero di passeggeri trasportati.

L’obiettivo di Fnm è sostituire i 14 treni diesel, che attualmente operano sulla tratta, con altrettanti a idrogeno, e poi di realizzare degli impianti di produzione del gas in modo da avvicinare la produzione e l’utilizzo. Al momento è in corso la procedura di acquisto di sei elettrotreni alimentati a idrogeno, con l’opzione per la fornitura di altri otto. I primi convogli saranno consegnati entro il 2023. Nessuna tecnologia ferroviaria italiana verrà utilizzata: si spera che almeno la produzione avvenga nello stabilimento italiano di Alstom a Savigliano.

Si tratta di una vecchia commessa per la fornitura di treni elettrici che in corso d’opera (quindi senza gara e con il rischio di ricorsi da parte di altre aziende) è stata modificata ed estesa anche a treni ad idrogeno. Tre anni fa 16 treni iLint, gli stessi ordinati da Fnm, sono stati venduti alle ferrovie tedesche per 81 milioni di euro (5 milioni a treno). Una bella differenza con i 160 milioni (11,4 a treno) pagati dall’azienda lombarda. Questo è un aspetto che dovrà essere chiarito.

Dovrà anche essere chiarito perché Fnm sostiene che la flotta dei treni diesel da sostituire sulla Brescia-Iseo-Edolo risale agli anni ’90. In realtà la flotta è composta da 7 Stadler del 2011 e 4 treni Aln-668 degli anni ’80, pertanto è stata quasi completamente rinnovata da meno di dieci anni. Non solo: nel 2014 furono acquistati da Regione Lombardia e Provincia di Brescia (sempre senza gara) due convogli Pesa, al prezzo di 4 milioni ciascuno, che l’Ad di Ferrovie Nord, Giuseppe Biesuz, defini “un vero e proprio ‘miracolo’ per lo sveltimento delle procedure di acquisto”. Peccato che solo due anni dopo finissero rottamati per i troppi guasti e gli alti costi manutentivi.

Dopo aver speso circa 40 milioni per rinnovare quasi completamente la flotta diesel della Brescia-Iseo-Edolo, ora si passa all’acquisto dei treni ad idrogeno, su una linea dove l’energia idroelettrica (e quindi rinnovabile) abbonda e potrebbe essere utilizzata al posto di mettere in funzione una dispendiosa reazione corrente elettrica-idrogeno-corrente elettrica. Cosa serve, poi, un treno che raggiunge i 140 km/h su una linea dove per metà percorso si viaggia a 50 km/h, per un terzo a 70 km/h e per un altro terzo a 90 km/h? Un treno che porta fino a 300 viaggiatori quando sono solo 6 su 52 le corse giornaliere quelle che viaggiano a pieno riempimento? Inoltre, i treni Stadler usati attualmente possono portare sei biciclette, poche per un territorio con forti ambizioni turistiche. Quelli Alstom ad idrogeno ne possono alloggiare ancor meno, solo quattro.

Il progetto, nato all’inizio del 2020, che prevedeva anche altre ipotesi tecniche (ad esempio i treni a batteria), in pochi mesi ha subito una accelerazione più ‘politica’ che tecnica. I 21 comitati pendolari lombardi si sono chiesti se i treni all’idrogeno possono davvero diventare la soluzione dei loro gravi problemi. Si sono chiesti se questo strappo dal sapore propagandistico ed elettorale non serva invece a far uscire dall’angolo la regione Lombardia con un colpo d’immagine.

Lo stato di abbandono del trasporto ferroviario che provoca quotidiani e pesanti disagi ai pendolari avrebbe bisogno di una nuova gestione organizzativa (trasporti e sanità fanno a gara per inefficienza) e di investimenti mirati. A mancare, soprattutto, è però un piano d’esercizio (che indichi orari, frequenze e preveda una velocizzazione della linea) capace, con i nuovi treni, di togliere la linea dall’ultima posizione tra le linee ferroviarie lombarde per numero di passeggeri trasportati.

La corsa al treno pulito va bene, ma la strada non deve essere la più costosa e la meno efficiente. Diversamente l’impressione e quella di una mera operazione di greenwashing, cioè di un ecologismo di facciata, come la strategia di comunicazione di certe imprese, amministrazioni pubbliche o istituzioni politiche, per costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale.

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La sostenibilità passa per la consapevolezza. E per ottenerla bisogna saper osservare

Sto per finire il mio corso da remoto di Zoologia e devo “erogare” le esercitazioni pratiche. Non possiamo chiuderci in un laboratorio per analizzare la biodiversità animale, così lancio una sfida. Fatemi un rapporto sulle specie animali con cui entrate in contatto quotidianamente. Elencatele, cercate notizie su di loro, e documentate le vostre osservazioni con filmati.

Hanno lavorato da soli o in gruppi coordinati in remoto e hanno filmato e fotografato, documentandosi in rete. Nell’esercitazione formale tutti hanno presentato le loro osservazioni, ma prima mi hanno mandato i loro rapporti e ho suggerito modifiche. Non ho mai lavorato così tanto per fare le esercitazioni, e neppure loro.

Con quanti animali entrate in contatto? Ma prof… c’è il Covid, dobbiamo stare a casa. Ma potete andare nel supermercato a fare la spesa, no? Lo sapete cosa mangiate? Sapete da dove viene? Se è stato allevato, e come, o come è stato catturato? Una studentessa mi ha mandato la dissezione di una cozza, e ha documentato il movimento ciliare sulle branchie, spiegando come facciano ad alimentarsi questi molluschi così popolari.

Un’altra ha fatto una dissezione da manuale di un calamaro. Hanno esplorato i supermercati, guardando le etichette delle scatolette di tonno o dei bastoncini di pesce, e hanno scoperto che quello che mangiano non è quello che credevano. Una mi ha fatto una relazione sui parassiti del suo gatto. Con tanto di fotografie, ovviamente anche dell’amato felino, ma non solo.

I riti di accoppiamento dei millepiedi sono stati molto popolari. Ma anche i modi di muoversi di lombrichi e chiocciole, riprese mentre scorrono su un vetro, e si vedono la reptazione peristaltica e le contrazioni del piede. Le mucche allevate all’aperto d’inverno mettono il pelo. Sembrano yak!

Si sono guardati attorno, hanno osservato, descritto, notando tutto quello che hanno visto e che di solito passava inosservato. Io dico sempre che i bambini tornano a casa da scuola e non conoscono i nomi degli alberi che incontrano nel loro cammino. L’insegnamento astratto, che quantifica tutto e qualifica poco, domina nei percorsi di formazione e non educa a guardare. E invece i bambini amano tutte le forme di vita: Edward Wilson la chiama “biofilia”.

Una mamma mi manda un video di suo figlio Andrea. Quattro anni. Elenca gli animali che conosce: molluschi, poriferi, vermi; alcuni animali fanno i piccoli nella pancia della mamma e altri li fanno deponendo le uova. Sono ovipari! Ci sono animali a sangue caldo e animali a sangue freddo. Questo dicono gli scienziati, e io devo imparare tutti gli animali se voglio diventare un vero scienziato. Sai quali sono gli animali a sangue freddo? I rettili! Termina con una sfida: adesso ripeti.

Tutti i bambini in età prescolare sono come Andrea. Poi vanno a scuola. I miei studenti mi hanno confessato di aver sempre cercato di sapere queste cose, ma non le hanno mai trovate nel loro percorso di formazione. Molti avevano dimenticato la curiosità infantile. L’hanno ritrovata, e sono entusiasti di quello che hanno fatto, proprio come Andrea.

I documentari in televisione mostrano forme esotiche, curiosità, ma non insegnano a guardare. La finalità è di far fare “ohhh” agli spettatori, intrattenendoli. Mentre è raro che si arrivi a far esclamare “ahhh!” In quanti sanno come fanno a mangiare le cozze, e cosa mangiano? Non sto parlando di gastrotrichi e chinorinchi, sto parlando di cozze! Quanti sanno quali siano, da dove vengano e come siano pescati i pesci che chiamiamo genericamente tonno?

Senza il resto della biodiversità non possiamo vivere, ma ci siamo così allontanati dalla natura da non realizzare neppure che cosa sia quello che mangiamo. Come gli umili e apparentemente sottomessi di Fight Club si prendono la loro rivincita su chi li sfrutta (esemplare Brad Pitt che inquina con prodotti personali i piatti dei ricconi a cui fa da cameriere) così fa la natura.

Come si fa a rispettare quello che non si conosce? La sostenibilità passa per la consapevolezza e questa si acquisisce se si rimane come Andrea, imparando anche tutte le altre cose, mantenendo le capacità di osservazione. Gli attuali percorsi di formazione, invece, privilegiano l’astratto e ci allontanano dalla natura. Senza la quale non possiamo vivere.

I giovani, da sempre, chiedono cose concrete. I vecchi invece si rifugiano in astrazioni che li allontanano dalle loro responsabilità. La sfida è di invecchiare restando giovani. Senza cadere nelle illusioni di vite extraterrestri. O, comunque, coltivandole ma restando con i piedi saldamente sul pianeta Terra. Per ora l’unico pianeta vivente dell’universo conosciuto: intanto impariamo bene come è fatto e come funziona. Perché non lo sappiamo mica tanto bene…

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Idrogeno verde, l’unico rimedio alla crisi idrica e climatica. Checché ne dicano le lobby e Michael Moore

Il dibattito aperto sull’introduzione accelerata e massiccia del vettore idrogeno in un futuro sistema energetico più sostenibile è incentrato in gran parte su aspetti rilevanti, ma che non tengono per ora in conto una risorsa vitale come l’acqua. Gli esperti si misurano sui costi, sulle evoluzioni tecnologiche dei sistemi di produzione e di distribuzione, sui miglioramenti di efficienza di un ciclo ad oggi ai primi passi. Gli economisti e i governi si mostrano più o meno sensibili all’interesse dei maggiori gruppi multinazionali a mantenere centralizzato e dipendente da grandi impianti l’introduzione di un sistema di accumulo innovativo su larga scala. Tutti concordano sui vantaggi che deriverebbero dal conservare e immettere in rete l’energia prodotta, aumentando l’efficienza del sistema e, soprattutto, decarbonizzando significativamente il ciclo di produzione e consumo.

L’idrogeno sembrerebbe una soluzione ideale, ma occorre tener conto che, pur essendo diffuso nell’atmosfera, lo si trova per lo più legato saldamente in molte molecole, come gli idrocarburi o l’acqua, in cui il legame chimico con l’ossigeno è talmente forte che, fino agli ultimi decenni del ‘700, il liquido più diffuso sul pianeta era considerato inscindibile nei suoi componenti.

Quasi mai si riflette sul fatto che l’idrogeno può essere prodotto in quantità importanti solo scindendo molecole molto stabili, come ad esempio il metano (CH4) o, soprattutto, l’acqua (H2O), rilasciando nel primo caso gas climalteranti e nel secondo – almeno a prima vista – soltanto ossigeno dopo aver consumato corrente elettrica.

L’acqua da sola copre il 71% della superficie terrestre e il suo volume è di circa 1,5 miliardi di chilometri cubi. Quindi il ricorso all’acqua, così drammaticamente preziosa e carente in gran parte del pianeta abitato, dati i grandi numeri di sopra e l’urgenza di trovare soluzioni al cambiamento climatico, viene persa di vista nella ridefinizione del nuovo modello energetico.

Se andate su Google per sapere quanta acqua si consuma per produrre un kg di idrogeno farete fatica a raccapezzarvi. Semplificando qui al massimo, potreste, dopo molti sforzi, arrivare a cogliere la pericolosità di produrre idrogeno direttamente da metano e vapore acqueo (idrogeno grigio), come vorrebbero i più imprudenti, dando luogo ad emissioni assai dannose oltre che a massicci consumi di acqua.

Sareste poi incuriositi dai processi di elettrolisi, per cui l’idrogeno viene ottenuto al catodo di una cella contenente acqua con il passaggio di corrente elettrica. In sé il consumo di acqua nel solo processo di idrolisi non appare eccessivo (circa 10 litri di acqua per 1 kg di idrogeno). Ma come si può trascurare quanta acqua viene consumata per produrre la corrente necessaria a scinderne la stupefacente struttura molecolare?

A questo punto, ecco comparire due altri colori dell’idrogeno: il blu, quando l’elettricità proviene da centrali a metano con sequestro di CO2, il verde, quando la corrente proviene da eolico o fotovoltaico, che funzionano senza consumo d’acqua. A parte i problemi di costi – che non trattiamo qui – come non stupirci che non ci si faccia mai carico del fatto che l’idrogeno blu, in quanto prodotto da centrali a carbone o gas fossili, richiede enormi quantità d’acqua consumate in particolare nei cicli di raffreddamento?

Ad esempio, uno dei vantaggi propagandati della futuristica economia dell’idrogeno negli Stati Uniti è che l’approvvigionamento di idrogeno, sotto forma di acqua, è virtualmente illimitato. Questa ipotesi è talmente scontata che nessuno studio importante ha considerato appieno quanta acqua avrebbe bisogno un’economia dell’idrogeno sostenibile se non si alimentasse solo con fonti rinnovabili.

Michael Webber, direttore associato presso il Center for International Energy and Environmental Policy presso l’Università del Texas ad Austin, ha recentemente colmato questa lacuna fornendo una prima analisi del fabbisogno idrico totale con dati recenti per un’economia dell’idrogeno “di transizione” negli Stati Uniti a trazione fossile. L’analisi di Webber stima che per la quantità di idrogeno prevista dal piano al 2030 si utilizzerebbero circa dai 72 ai 260 trilioni di litri di acqua all’anno come materia prima per la produzione elettrolitica e come soprattutto refrigerante per l’energia termoelettrica. Si tratta di 196-714 miliardi di litri al giorno, un aumento del 27-97% dai 737 miliardi di litri al giorno (272 trilioni di litri all’anno) utilizzati oggi dal settore termoelettrico per generare circa il 90% dell’elettricità negli Stati Uniti.

Il significato più grande di questo lavoro di ricerca di Webber, unico al mondo, è che, utilizzando l’idrogeno come vettore ma lasciando inalterato il ricorso a centrali fossili (idrogeno blu) al posto di impostare un radicale decentramento sostenuto dall’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, potremmo avere un impatto molto drammatico sulle risorse idriche. C’è solo l’idrogeno verde come possibile soluzione sia all’emergenza climatica che a quella idrica.

In un recentissimo articolo Nicholas Kusnetz, reso famoso come consulente e protagonista del film di Michael Moore Planet of the Humans, suggerisce a Joe Biden il terreno su cui potrebbe nascere una intesa bipartisan sul clima: la produzione di idrogeno blu con il metodo di cattura e stoccaggio della CO2! Quindi, a suo dire, un sostegno sia dei democratici che dei repubblicani alla lotta climatica troverebbe un compromesso nel destinare incentivi alla cattura di anidride carbonica da sparare nei pozzi o da iniettare nelle caverne sotterranee, cioè un sostegno alle lobby dei fossili, ovvero al mantenimento del sistema energetico responsabile primo della crisi climatica.

Questo spiega le critiche che erano venute dal mondo ambientalista all’impostazione del film di Moore, il peggiore e più ambiguo nella carriera del famoso e spesso riconosciuto regista.

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Sciopero dei dipendenti pubblici, perché Simona e Paolo saranno in piazza il 9 dicembre

Simona lavora in Regione Sardegna, è stata assunta tramite una selezione riservata alle categorie protette. E’ in categoria A, la più bassa, contribuisce al meglio alle attività del suo assessorato. Ha problemi di salute, spende molto in medicine, ha uno stipendio che si aggira attorno ai 1.000 euro netti (è entrata da poco), ma almeno rispetto ai colleghi comunali ha una mensilità in più.

Naviga nell’oro, insomma.

Vive in un quartiere di Cagliari bellissimo e malfamato, col mare di fronte e solamente case popolari intorno. Prima erano affittuari, col marito e i figli, ed ora mettono insieme i soldi per riscattare quella piccola sicurezza. 60 metri quadri di sicurezza.

Il marito sta peggio: ha problemi di salute più gravi, ma deve continuare a lavorare. Sanità, ospedale cagliaritano, fa il lavoro dell’OSS, sta in corsia da quando era ragazzino. Ma ora, a più di 60 anni, tutto è diverso. Quello che prima si faceva prima in tre ora lo fa da solo. Con la schiena rotta alzare le persone è più difficile.

Il sindacato l’altro giorno ha detto loro che bisogna scioperare, per le assunzioni, la sicurezza ed il salario. Era ora!

Non arrivano a fine mese. Come diceva la canzone, “anche gli operai vogliono i figli dottori”, e loro ci hanno provato. Un figlio studia a Torino Scienze Infermieristiche, un altro per fortuna è rimasto a Cagliari, è un po’ indietro con gli studi e fa Ingegneria.

Non è stato semplice. Non lo è stato mai, e non lo è neanche adesso.

Durante le assemblee (le video-assemblee, perché anche il sindacato ormai usa Zoom), hanno sentito delle polemiche di quelli che hanno stipendi a molti zeri, e che magari vivono negli attici del centro, per cui “non è opportuno che gli statali scioperino” e che “con tutti quelli che stanno peggio, con la pandemia in corso, perché scioperano i garantiti?”. Non hanno capito perché queste polemiche.

Ma non lo sanno questi signori, che poi signori non sono, che chi sciopera perde un giorno di lavoro, retribuzione lorda? Chi sta peggio cosa ci perde? Sì, è vero, c’è chi sta peggio, ma chi lavora a nero (e nel loro quartiere ce ne sono) neanche sa cosa è lo sciopero, e neanche lo può usare. Se loro lo possono usare, dove sta il problema? Ci saranno dei disservizi, dei problemi, ma se serve a creare disservizi e problemi per un giorno, per poi non averli più, perché non farlo?

Alzi la mano, o alzi il mouse, chi pensa che oggi non sia necessario un piano straordinario delle assunzioni nella sanità e nella pubblica amministrazione? E sulla sicurezza, ancora c’è qualcuno che pensi non sia giusto protestare? Con quello che abbiamo vissuto?

Sul rinnovo del contratto, poi, Simona e Paolo non sono neanche contenti della richiesta dei sindacati: se c’è stato il mancato rinnovo per 10 anni, ed il costo della vita è invece aumentato, quei soldi quando li recuperano? Ma sanno che bisogna stare uniti, e non si lamentano. È vero, c’è la crisi, ma è dal 1990 che sentono parlare di crisi, e poi però i ricchi sono sempre più ricchi, ed i poveri sempre più poveri. Insomma, la crisi esiste per i poveri e basta.

Che poi loro, in quartiere, non sono i poveri. Ma sanno bene cosa vuol dire stringere la cinghia.

Ci vediamo distanziati, in piazza, il 9.

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