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Usa, la Casa Bianca annuncia il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi di Pechino 2022

È arrivata la comunicazione ufficiale, dopo ripetuti annunci e avvisi. La Casa Bianca ha annunciato che nessun rappresentante dell’amministrazione statunitense sarà presente ai Giochi Invernali di Pechino 2022: un boicottaggio diplomatico, che non coinvolgerà gli sportivi. Si punta a mandare alla Cina un messaggio in merito alla difesa dei diritti umani nel Tibet a Hong Kong e nello Xinjiang. Pechino è infatti accusata di soffocare la voce degli oppositori e di violare le libertà delle minoranze religiose come quella degli uiguri, perseguitata e oggetto di torture e violenze. Una situazione, quest’ultima, che la Casa Bianca ha definito senza giri di parole “genocidio”. La decisione di Joe Biden potrebbe indurne altre, simili, da parte di alcuni Paesi. Fra questi Australia e Regno Unito.

Poco prima dell’annuncio ufficiale il ministero degli Esteri cinese si era fatto sentire: “Se gli Stati Uniti insistono nell’andare sulla propria strada adotteremo sicuramente contromisure risolute. Le Olimpiadi Invernali non possono essere il palcoscenico per una provocazione politica”, queste le parole del portavoce Zaho Lijian. “Sarebbe una grave macchia per lo spirito della Carta Olimpica e una grave offesa per un miliardo e mezzo di cinesi”.

Una scelta forse simbolica che però rischia di mettere fine al tentativo di disgelo avviato settimane fa nel corso del summit virtuale fra Biden e Xi Jinping. Il no alle Olimpiadi di Pechino da parte degli Usa, pur salvaguardando la partecipazione degli atleti americani, si andrebbe infatti ad aggiungere alle tensioni legate alla questione Taiwan. Con quest’ultima, a differenza della Cina, invitata alla Conferenza per la democrazia convocata da Biden per i prossimi giorni. Decisiva verso il boicottaggio diplomatico di Pechino 2022 sarebbe stata la vicenda della star cinese del tennis Peng Shuai, per tre settimane sparita dalla scena pubblica dopo aver denunciato di aver subito violenze sessuali da parte di un ex alto responsabile del Partito Comunista.

La presa di posizione di Washington era nell’aria da tempo, viste le pressioni di molti ambienti fuori e dentro il Congresso. Per tornare a situazioni di boicottaggio olimpico bisogna risalire al 1980, quando l’amministrazione di Jimmy Carter guidò oltre 60 Paesi che non parteciparono ai Giochi di Mosca per protesta re contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Come rappresaglia quattro anni più tardi quindici Paesi insieme all’Unione Sovietica boicottarono i Giochi di Los Angeles.

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Sottomarino nucleare della marina americana ha un incidente nel Mar Cinese Meridionale: lo scontro con un “oggetto non identificato”

Un sottomarino nucleare della Marina militare americana ha fatto un incidente mentre era in fase di immersione nelle acque del Mar Cinese Meridionale. La collisione del Uss Connecticut sarebbe avvenuta sabato scorso, contro “un oggetto non identificato” e l’imbarcazione è rimasta danneggiata. Come riporta il Washington post i marinai rimasti lievemente feriti sono 15 e il sottomarino, secondo fonti ufficiali, è comunque rimasto operativo. Sono ancora in corso accertamenti su quanto accaduto e verifiche sull’imbarcazione per valutare “l’entità dei danni”.

Un portavoce della Marina americana ha reso noto che il sottomarino è adesso in navigazione verso il territorio americano di Guam, nel Pacifico, e ha assicurato: “L’impianto di propulsione nucleare dell’USS Connecticut e le strutture non sono stati coinvolti e restano pienamente operativi”.

Le autorità hanno precisato l’USS Connecticut non ha colpito un altro sommergibile, mentre un ufficiale ha ipotizzato possa trattarsi di una nave affondata, un container o altro oggetto non registrato.

Foto d’archivio

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Cina, nuova stretta contro le monete digitali, tutte le transazione definite illegali. Bitcoin in calo di oltre il 7%

Banca centrale cinese di nuovo con il pugno di ferro contro le valute digitali. Oggi la Pboc ha definito illegali tutte le transazioni e le attività in valuta digitale e promettendo una ferma repressione sui mercati. La Banca centrale, si legge in una nota postata sul suo sito web, ha chiarito che le criptovalute “non hanno lo stesso status giuridico della moneta in corso legale e non possono essere distribuite sul mercato come moneta”. Inoltre, prosegue la nota scambi e transazioni in valuta virtuale sono definite “attività finanziarie illegali e sono severamente vietate“. Dopo la notizia le quotazioni del bitcoin hanno cominciato a scendere velocemente perdendo oltre il 7% in un’ora. Attualmente un bitcoin viene scambiato a 41.200 dollari. Cali ancora più marcati per ethereum (- 11%) e litecoin (- 10,7%).

Negli ultimi anni, le transazioni di bitcoin e di altre criptovalute, scrive ancora la banca, “hanno prevalso, sconvolgendo l’ordine economico e finanziario, favorendo il riciclaggio di denaro sporco, la raccolta illegale di fondi, la frode, gli schemi piramidali e altre attività illegali e criminali” e mettendo “a serio rischio la sicurezza dei beni delle persone”. In conformità con la decisione del Comitato centrale del Partito comunista e del Consiglio di Stato (il governo centrale), la Banca centrale ha quindi emanato una serie di politiche e misure per chiarire che “le valute virtuali non hanno corso legale“, vietando “alle istituzioni finanziarie lo sviluppo e la partecipazione ad attività legate alla valuta virtuale, e le transazioni nazionali”, nonché “il finanziamento dell’emissione di token”.

L’ultima mossa giunge a chiusura di una progressiva campagna della Banca centrale contro le criptovalute che hanno visto nei mesi scorsi l’abbattimento delle attività di mining, di produzione delle valute virtuali, in tutte le province del Paese, al punto che molti player cinesi hanno trasferito le proprie attività negli Stati Uniti. El Salvador ha recentemente adottato il bitcoin come valuta legale da affiancare al peso per agevolare le rimesse dall’estero. Alcuni giorni orsono Jackson Palmer, uno dei creatori del dogecoin che si è poi ritirato dal settore, ha affermato “Dopo aver passato anni a studiarle ho capito che le criptovalute hanno una natura di destra ed iper capitalistica. Qualcosa costruito prima di tutto per accrescere la ricchezza dei loro creatori attraverso una combinazione di elusione fiscale, sfuggire alle regolamentazione e generare una artificiosa scarsità”

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Afghanistan, la guerra fredda tutta economica: l’alleanza tra califfati 2.0 e potenze anti-Usa in nome del denaro e della supremazia

A quasi mezzo secolo dalla caduta di Saigon, le scene terrificanti che arrivano nelle nostre case da Kabul sembrano déjà-vu della guerra fredda, quando il prezzo del benessere postbellico dell’Occidente era la guerra permanente, un conflitto che Washington e Mosca combattevano lungo i confini che loro avevano tracciato tra mondo libero e comunismo. Anche la guerra in Vietnam è durata vent’anni ed anche allora si cercò prima di distruggere il nemico, poi di contenerlo infine si cercò di dar vita ad una società funzionante che gli si potesse contrapporre. Nessuna di queste opzioni funzionò e così si decise di riportare le truppe a casa. Le similitudini finiscono qui.

La sconfitta americana in Afghanistan è immensamente più seria in termini simbolici ed anche in termini reali della caduta di Saigon e della capitolazione sovietica in Afghanistan. Saigon venne conquistata dalle truppe comuniste due anni dopo l’evacuazione di quelle americane, i mujaheddin impiegarono tre anni ad entrare a Kabul dopo il ritiro sovietico del 1989, Kabul, invece, è caduta in mano talebana tre settimane prima della data ufficiale del ritiro degli americani.

In termini reali, l’occupazione apparentemente pacifica di Kabul quando i soldati statunitensi sono ancora presenti, ci ricorda che se è vero che la storia si ripete il presente non è mai identico al passato. Nel 1975 la tensione “fredda” tra i due blocchi, quello filosovietico e comunista da una parte e quello coccolato dal sogno americano dall’altra, era ormai consolidata e si avviava a rimanere contenuta in aree specifiche del mondo, il Vietnam era una di queste. Nel 1989, invece, sulla scacchiera geopolitica della guerra fredda l’Unione Sovietica aveva subito scacco matto, la partita era finita. Oggi il nuovo conflitto geopolitico, che potrebbe anche non rimanere freddo, è agli albori, siamo, insomma all’inizio della partita a scacchi tra Cina e suoi alleati da una parte e Stati Uniti ed alleati dall’altra. L’Afghanistan è un fante che Washington ha appena perso mettendo a rischio altre pedine.

Secondo molti analisti la mossa di abbandonare Iraq, Siria e Afghanistan è strategica. Joe Biden, come Trump ed Obama, volevano porre fine alla guerra infinita iniziata da George W. Bush contro il fondamentalismo islamico perché è un nemico tanto, troppo elusivo. Il pericolo è che questo tipo di nemico assorba troppe risorse, troppa energia e finisca per far distrarre la leadership americana dal nemico concreto, la Cina. Analisi, questa, che non fa una grinza, peccato che ormai la sovrapposizione del nemico elusivo con quello concreto sia in moto da tempo. Come è possibile?

La nuova guerra fredda non è ideologica né religiosa, non ha bisogno di foglie di fico, è volutamente brutale, apertamente economica e di supremazia. La Cina ce lo ha detto ripetutamente ed anche i talebani, il regime siriano, quello turco e, naturalmente, anche Putin lo hanno ammesso. L’alleanza tra questi sistemi non avviene sotto la bandiera rossa né sotto quella di Allah, ma in nome del denaro e del potere. Ecco perché Pechino può sopprimere i musulmani in casa e fare affari con i Talebani all’estero. Ma non basta. A Pechino importa poco la condizione delle donne afghane o la corruzione siriana, il regime cinese non è ostaggio dell’opinione pubblica ed al popolo cinese non interessa cosa succede fuori dei confini nazionali, la politica estera non esiste se non minaccia la propria vita. Neppure in Russia si manifesta contro le atrocità commesse in Siria dalle forze speciali russe, chi ha il coraggio di scendere in piazza lo fa per ribellarsi contro gli abusi in casa loro.

Anche negli Stati Uniti, dove c’è democrazia, la gente è stufa di pensare alle tragedie in terra straniera, agli americani della politica estera importa solo quando tocca il loro portafoglio. La maggioranza di loro concorda con Joe Biden che l’obiettivo delle guerre in Medio Oriente era far fuori Bin Laden ed al Qaeda non di trapiantare in questa regione i germogli della democrazia. E quindi è bene riportare i soldati a casa e smettere di spendere i soldi del contribuente per una guerra già vinta. Solo gli europei sembrano voler rimanere aggrappati a principi encomiabili come la difesa dei diritti umani, ma anche loro si limitano a fare petizioni su facebook ed a raccogliere collette. I corridoi umanitari? Certo, se ne parla, ma per ora siamo ad agosto, i governi ed i parlamenti sono in vacanza, ci penseranno a settembre intanto i Talebani fanno “pulizia” in casa.

Gli europei, comunque, in Afghanistan erano in seconda linea. I dati del Watson institute for international public affairs della Brown university ci dicono che gli americani hanno perso 2.442 soldati regolari e 3.846 contractors, essenzialmente mercenari, gli alleati 1.144, ingenti sono invece state le perdite delle truppe afgane, 69mila. Il nemico, composto da jihadisti locali e stranieri ha perso 51.191 uomini, poco più delle perdite civili, 47.245. Il costo complessivo per il contribuente americano è stato di 2.261 miliardi di dollari. Tanto, troppo. E per i talebani? Basta guardare i dati della esportazione di eroina, è stata quella polvere bianca la loro manna dal cielo.

È dunque ora di riportare i ragazzi americani a casa come era ora di farlo nel 1975 dopo che 58mila ragazzi avevano fatto rientro nelle bare che volavano da Saigon in un surreale viaggio di ritorno sugli stessi aerei con i quali Washington aveva portato loro e tanti altri nel Vietnam, a combattere una guerra impopolare come quella in Afghanistan. Allora come oggi il ritiro delle truppe avvenne senza una vittoria ma con una sconfitta mai pubblicamente dichiarata che prolungò la guerra fredda per altri 15 anni. E forse è questa la similitudine più agghiacciante tra le due guerre ventennali americane.

È vero: il corpo di Bin Laden giace in fondo all’oceano, la vecchia al Qaeda non esiste più ma a Kabul sono tornati i Talebani, quelli del Califfato, tanto fondamentalisti quanto i loro amici dell’Isis, con i quali sono in contatto perché entrambi fanno parte della rete del jihadismo mondiale, una rete che anche se allentata è ancora ben avvinghiata al nostro collo. E presto tornerà a stringercelo. Ma non basta, oltre confine il califfato talebano 2.0 oggi ha nuovi alleati, si trovano a Mosca, a Pechino, a Istanbul ma anche nel Golfo Persico, in quegli Stati ricchi grazie al petrolio dove la futura leadership ha vissuto in esilio nell’agio e nel rispetto che quel mondo manifesta ai futuri califfi.

Nemico elusivo e nemico reale si sono alleati da tempo, quando ce ne accorgeremo?

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Cina, vaccini in quantità ma dubbi sull’efficacia. Contro il virus prevale il contenimento. Il futuro? In allerta e lontano dal pre-Covid

Zhang Wenhong è un epidemiologo, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Huashan di Shanghai e membro del Partito comunista. Nell’ultimo anno e mezzo è diventato popolare in Cina – ha 3,5 milioni di follower sul suo account Weibo – grazie a un parlare schietto. Mutuato dal linguaggio dei laobaixing, la gente comune, a cui si pregia di appartenere dato che si è definito – secondo quanto riporta il South China Morning Post – “un campagnolo”. Per promuovere il distanziamento sociale, ha detto: “A casa ti annoi a morte, quindi anche il virus si annoierà a morte” e “stai lontano dal fuoco, dai ladri e dai tuoi colleghi”. Tuttavia si è opposto ai lockdown eccessivi, coniando la formula “speriamo di prendere i topi senza rompere la porcellana e che la prevenzione non abbia un grande impatto sulla vita sociale”, per poi confessare che nel tempo libero si rilassa “guardando serie TV senza cervello”. Insomma, una pop-star di Partito che quando parla, molto probabilmente veicola concetti molto vicini al vero.

In un recente forum organizzato dalla rivista Caixin, Zhang ha detto: “Quello che stiamo cercando di fare non è sradicare la malattia, ma eliminarne la prevalenza”. Il concetto di prevalenza è la fotografia dell’epidemia in un dato momento, mentre l’incidenza è il trend espresso dai nuovi casi. Insomma, “eliminare la prevalenza” significa abbassare fino a un livello controllabile sia i casi di Covid effettivi, sia il numero di persone potenzialmente esposte al virus anche se non ce l’hanno. Far diventare il Covid “come un’influenza”, ha specificato Zhang Wenhong. All’atto pratico, le conclusioni che si possono trarre dalle affermazioni di Zhang appaiono scontate e sono in linea con quando i cinesi stanno facendo da mesi: contenimento e vaccinazione, vaccinazione e contenimento.

Alternanza aperture-lockdown – Da settimane, le autorità sanitarie del paese dichiarano che è necessario vaccinare quanto prima almeno l’80 per cento dei cinesi per raggiungere l’immunità di gregge – cioè, un miliardo e cento milioni – ma intanto, entro la fine di giugno, bisogna averne vaccinati almeno 560 milioni, cioè il 40 per cento. Per ridurre i “potenzialmente esposti” resta intanto in auge l’arte del contenimento, cioè la mobilitazione del personale sanitario e dei quadri di Partito per alternare in tempo reale aperture e lockdown a seconda del manifestarsi di nuovi focolai. È probabile che l’apri-chiudi diventi una “nuova normalità”, locuzione ormai in voga da anni nella Cina di Xi Jinping.

Che l’arte del contenimento sia una disciplina in continua evoluzione (come il virus), lo rivela il più recente focolaio cinese, quello del Guangdong. La Commissione Nazionale per la Salute ha annunciato che è stato finalmente messo sotto controllo, con nessun caso trasmesso localmente (gli ultimi risalgono al 21 giugno). La presenza della variante Delta nel focolaio della provincia più ricca e produttiva aveva preoccupato gli esperti, che tutt’ora la ritengono più difficile da contenere. Sul giornale di Shanghai, Pengpai Xinwen (The Paper), il guru dell’epidemiologia cinese, Zhong Nanshan, ha spiegato che senza misure di contenimento, a Guangzhou (il capoluogo) avrebbero potuto esserci 7,3 milioni di infezioni. “Invece – ha detto – ci sono stati solo 153 casi”.

Zhong ha raccontato che le autorità locali hanno sconfitto l’epidemia rivedendo la definizione di “contatti stretti”: prima, si mettevano sotto osservazione stretta familiari, colleghi e chiunque si fosse avvicinato a meno di un metro da un individuo infetto nei due giorni precedenti al manifestarsi dei sintomi. Con la variante Delta, la finestra è stata ampliata a quattro giorni. Sembra semplice, ma è la mobilitazione necessaria a mettere in pratica queste misure – che si accompagna al tracciamento elettronico – a non esserlo.

Le vaccinazioni – La stessa mobilitazione di quadri e personale medico spiega il fatto che la Cina ha raggiunto a oggi un miliardo e cento milioni di dosi somministrate. Attenzione, “dosi somministrate”, non immunizzazioni. È comunque un numero incredibile, basti dire che si viaggia ormai al ritmo di 20 milioni al giorno e che oltre un terzo delle vaccinazioni mondiali è stato fatto in Cina. Non solo, grazie alle economie di scala, la Cina potrebbe produrre 3 miliardi di vaccini nel 2021 e 5 miliardi nel 2022, vaccini che non solo vengono utilizzati all’interno del Paese, ma anche esportati.

Ma al di là dell’enfasi quantitativa restano molti dubbi. Innanzitutto, sei dei sette vaccini autorizzati in Cina richiedono più di una dose, uno addirittura tre invece che due, quindi quanti cinesi sono effettivamente immunizzati? Secondo elemento: qual è l’efficacia dei vaccini cinesi? Finora, solo due hanno ottenuto l’approvazione internazionale, mentre nessun vaccino straniero è al momento somministrato sul suolo cinese, anche se in dirittura d’arrivo ci sarebbero le pratiche per Pfizer-BioNtech.

Proprio in considerazione di queste incertezze e nel nome del melius est abundare quam deficere, il 21 giugno Shao Yiming, un epidemiologo del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie che fa parte del team di risposta al Covid-19 allestito dal governo, ha detto che per raggiungere l’immunità di gregge, la Cina dovrebbe somministrare in tutto 2,2 miliardi di dosi. Ne mancano quindi circa la metà, 1,1 miliardo. Calcolando il ritmo attuale delle vaccinazioni, significherebbe 55 giorni esatti, che a spanne possiamo estendere a 70-80 considerando le difficoltà logistiche di vaccinare la gente fuori dalle grandi città e di convincere quelli che finora non hanno voluto vaccinarsi. Sono sempre meno, a dire il vero, e non mancano gli incentivi. Se ha fatto il giro del mondo la notizia che negli Usa si promuove la vaccinazione regalando birra, marijuana e premi della lotteria, in alcuni hutong (vicoli) pechinesi si danno uova. Civiltà a confronto.

Il futuro? Lontano dal pre-Covid – Diciamo quindi che in due mesi e mezzo-tre, da oggi, la Cina potrebbe raggiungere la tanto agognata immunità di gregge: tra metà settembre e inizio ottobre. Si tornerà alla normalità pre-Covid? No, si resterà sempre in allerta dal punto di vista del contenimento, per abbassare sempre più la prevalenza – gli infetti e i potenzialmente esposti – di cui parla Zhang Wenhong. Ora chi entra in Cina deve farsi dalle tre settimane al mese di quarantena complessivi, il che ovviamente limita i contatti tra il paese e il mondo esterno. Pechino negli ultimi anni si è fatta vanto di essere la capofila della globalizzazione, specialmente dopo i dietrofront di Trump su questo piano, e ora la Cina non ha nessunissima intenzione di rimanere tagliata fuori dalla supply-chain globale, specialmente in epoca di “guerra ibrida” con gli Usa. Ma, per il momento, la sicurezza sanitaria viene prima di tutto.

Circola voce che un primo assaggio di normalità, dettata da ragioni politiche e d’immagine, ci sarà a febbraio 2022, con le Olimpiadi invernali di Pechino. L’evento potrebbe ripristinare una certa normalità nei voli internazionali. Sempre – si intende – che “quelli là fuori”, cioè i non cinesi, facciano bene il compitino. Come la Cina guidata dal Partito comunista, che sta per festeggiare i suoi primi cent’anni.

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Francia, 4 grandi marchi dell’abbigliamento accusati di sfruttare gli uiguri: “Occultamento di crimini contro l’umanità”

L’inchiesta è nata dalla denuncia dall’associazione anticorruzione Sherpa, insieme al collettivo Ethique sur l’ètiquette, l’Istituto Uiguro d’Europa e vede indagati quattro colossi dell’abbigliamento, accusati di trarre profitto dal lavoro forzato degli uiguri in Cina, minoranza musulmana dello Xinjang perseguitata da Pechino. La giustizia francese indaga per “occultamento di crimini contro l’umanità” nei confronti di quattro colossi dell’abbigliamento accusati di sfruttare il lavoro degli uiguri, in Cina. Uniqlo France, del gruppo giapponese Fast Retailing, ma anche le Inditex (proprietarie dei marchi Zara, Bershka, Massimo Dutti), SMCP (tra cui Sandro, Maje, de Fursac) e il produttore di scarpe sportive Skechers sono tra i marchi oggetto dell’inchiesta.

“È storico! La giustizia francese ha appena aperto un’inchiesta per ‘occultamento di crimini contro l’umanità’ nei confronti di Zara, Uniqlo, Smcp, perché i loro prodotti vengono fabbricati da schiavi uiguri”, scrive in un tweet l’europarlamentare francese che si batte contro le violazioni dei diritti umani in Cina, Raphael Glucksmann. “Le multinazionali – prosegue Glucksmann – sono state per lungo tempo al di sopra delle leggi. Mostreremo loro che il diritto si applica a tutti, anche ai più ricchi e potenti. Quest’inchiesta è un momento chiave di una lotta più vasta. Una nuova tappa arriverà quest’autunno, con il dovere di vigilanza europea“. “Oggi – conclude Glucksmann – è il centesimo anniversario del Partito comunista cinese. Facciamo di questo primo luglio una giornata di solidarietà con i deportati uiguri e tutte le vittime della dittatura di XI Jinping. Oggi più che mai: #FreeUyghurs !”.

Le politiche nella regione dello Xinjang, dove Pechino non ammette osservatori internazionali, sono da anni nel mirino dell’Occidente – capofila gli Stati Unitiper la qualità del lavoro offerto alla popolazione musulmana che passa per quelli che la Cina chiama “centri vocazionali”. Luoghi che per le associazioni per i diritti umani sono senza mezzi termini “campi di concentramento”, da cui chi esce viene poi destinato a lavoro sottopagato, se non addirittura schiavistico. E si tratta di una regione dove, ha dimostrato Associated Press, è in corso una sorta di “genocidio demografico”, con aborti, severi controlli delle nascite e sterilizzazione forzata delle donne musulmane.

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Hong Kong, chiude il giornale pro democrazia Apple Daily. L’accusa di Pechino: “Collusione con forze straniere”

Dopo 26 anni il quotidiano pro democrazia di Hong Kong, Apple Daily, ha annunciato per sabato la sua ultima pubblicazione. La decisione, sofferta, arriva in seguito al blitz della polizia che ha arrestato i vertici del giornale sotto la nuova legge sulla sicurezza nazionale di Pechino. Le cinque persone finite in manette durante l’incursione di 500 agenti presso la sede, tra cui il direttore Ryan Law insieme ad altri membri della redazione, sono stati accusati di collusione con forze straniere per mettere a rischio la sicurezza nazionale.

A sostegno della tesi, la polizia ha mostrato oltre 30 articoli pubblicati dal giornale come prova di una presunta cospirazione per imporre sanzioni straniere a Hong Kong e alla Cina. Gli agenti avevano anche disposto il congelamento dei beni dell’azienda per un valore di 2,3 milioni di dollari. Nella nota diffusa dal quotidiano che all’indomani degli arresti aveva venduto 500mila copie invece delle consuete 80mila, il consiglio di amministrazione del quotidiano precisa che sabato cesserà la pubblicazione sia cartacea sia online a causa delle “circostanze attuali prevalenti a Hong Kong”.

Il fondatore del quotidiano, Jimmy Lai, era stato già arrestato in seguito ad un altro blitz lo scorso anno. Uno dei suoi consiglieri, Mark Simon, ha riferito alla Bbc che la polizia ha interrotto anche la riunione del consiglio d’amministrazione che stava decidendo della chiusura del giornale, arrestando un giornalista. “Stiamo chiudendo, ma ancora si presentano a fare arresti – ha detto -. Volevano influenzare il corso della riunione, essere sicuri che chiudevamo in fretta”. Nel comunicato diffuso dalla testata si ringraziano per il “leale sostegno” i lettori che avevano manifestato la loro solidarietà in massa al quotidiano, i giornalisti, lo staff, i collaboratori e gli inserzionisti.

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Wall Street, cosa si prepara per l’élite dei padroni del mondo?

“Zeru tituli” si può dire anche a Wall Street. I grandi gestori di fondi globali minimizzano. Sono scettici. In realtà hanno paura. Puntano a non rovinare l’ipocrita festa dell’infinito rialzo a New York e su tutte le borse, asimmetrico e anzi inversamente proporzionale rispetto ai 3,25 milioni di morti di Covid. Ma cosa si prepara per l’élite di padroni del mondo che continua a vedere bianco un cigno nero, mille volte annunciato?

Per cominciare, e non è roba solo da ingegneri, c’è su scala globale una forte carenza di semiconduttori. Si usano in tutto ciò che è elettronico, sfida non eclatante per il grande pubblico ma vitale. I chip, o la mancanza degli stessi, pesano sull’azionario e sulle fabbriche, quindi anche sul lavoro. L’Amministratore delegato di Intel, numero uno del settore, spiega che il problema potrebbe durare non per qualche settimana ma “per qualche anno”. Le prime a farne le spese sono le aziende auto (la quantità di informazioni processate in un veicolo dai microchip è enorme) ma pensate all’elettronica di consumo, per esempio la nuova PlayStation 5 rimane molto difficile da trovare. Da questa parte dell’Atlantico, in Germania, le fabbriche Ford e della franco-italiana Psa-Fca, ora Stellantis, sono alle prese con licenziamenti (temporanei?) e lunghe interruzioni nella produzione: senza semiconduttori l’auto è morta. Anche nel resto d’Europa c’è un accumulo record di ordinativi non evasi e soprattutto – ecco il punto – prezzi in crescita.

Va considerata poi la grave valenza geopolitica. Uno dei consiglieri economici del presidente Joe Biden per risolvere il problema dei microchip ha cercato l’aiuto del governo di Taiwan che ha favorito la crescente dipendenza mondiale da due potenze asiatiche: Taiwan Semiconductor Manufacturing e Samsung Electronics. È tra i motivi per cui i legami tra Europa e Cina si sono deteriorati rapidamente, al punto che Bruxelles ha appena disdetto l’accordo tra Ue e Pechino sugli investimenti in Cina firmato pochi mesi fa. Purtroppo le capitali europee (Roma in testa e con l’esclusione di Berlino) si adeguano sempre più pedissequamente alla strategia da “guerra fredda” della Casa Bianca contro il Dragone. Il che non promette bene.

Allargando gli orizzonti, negli Stati Uniti si discute del gigantesco piano di spese keynesiane di 4 trilioni di dollari (quattromila miliardi, in aggiunta agli $1,9 trilioni pompati nell’economia a partire da marzo per combattere l’impatto della pandemia) proposti da Joe Biden, non “Sleepy Joe” ma invece aggressivo e determinato, appena doppiati i primi 100 giorni da Presidente. Tutto ora è nelle mani del Congresso, forse un compromesso con i repubblicani consentirà di approvare la maxi ciambella di salvataggio per un’America di nuovo targata Jmk.

“Sono investimenti di cui la nostra economia ha bisogno per essere competitiva, tornare ad essere produttiva e crescere velocemente”, ha detto Janet Yellen, la donna più potente del mondo, ministra del Tesoro Usa, ex presidente della Federal Reserve ed ex responsabile dei consiglieri economici della Casa Bianca. La signora ha però aggiunto: “In questo scenario i tassi d’interesse dovranno salire, per evitare che l’economia si surriscaldi”. E via alle fibrillazioni e sell in borsa. Big finanziari nervosi. Meglio ripetere: “I tassi dovranno salire”. Già. Poco più di un anno fa si parlava solo di “spirale deflazionistica”, dovuta al crollo verticale delle economie per il dilagare del Covid e alla perdita di milioni di posti di lavoro. Il quadro macro non solo è cambiato, si è ribaltato.

Adesso chi ha, o manovra, denaro si preoccupa che i prezzi e l’inflazione non sfuggano di mano. L’arrivo dei vaccini (rapidissimo in termini oggettivi) ha stimolato la riapertura delle economie, soprattutto in Uk e negli Usa ma adesso anche in Europa. Mario Draghi al G20 ha aperto l’Italia ai turisti di tutto il mondo. E ci voleva. Di conseguenza la domanda di consumi, compressa per vari trimestri come una molla, sarà liberata. Negli Usa con l’enorme potenza di un programma di stimoli inaudito (i 248 miliardi del Recovery Plan che dovrebbero non solo far riprendere vita all’Italia ma evitarci il fallimento e con esso la “rottura” dell’euro, sono briciole – appena il 4% – rispetto al mega piano a stelle e strisce da quasi $6 trilioni).

Allora diciamolo: se il fantasma che si aggira per il mondo è l’inflazione, i rialzisti doc che operano in borsa con livelli di leverage speculativo record, non ne vogliono sentir parlare. Ma come si fa a ignorare che anche i prezzi delle materie prime industriali tipo palladio, rame, argento e altre sono saliti fino ai massimi pluriennali, così come le aspettative di inflazione implicite? All’improvviso perfino il costo del legname sale e il mercato immobiliare dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda si surriscalda (per costruire case loro usano il legno).

Dal punto di vista macro gli “stagnazionisti”, chiamiamoli così, dicono che l’indebolimento dei prezzi è l’unica vera sfida a lungo termine per le economie. Colli di bottiglia dell’offerta nel settore manifatturiero? Avranno solo un impatto di breve periodo. Nel post-pandemia la capacità produttiva tornerà presto in regola. Così chi è investito massicciamente sui mercati sa che, se ulteriori timori inflazionistici daranno la stura a improvvisi sell-off sull’obbligazionario – quindi rialzo dei tassi e calo dei prezzi di bond e azioni –, sarà un’opportunità di acquisto e non un tracollo prossimo venturo. Ma è veramente così? Consigliabile considerare scenari alternativi.

Qui da noi, in Eurolandia, i tassi stanno aumentando da varie settimane (basta vedere i grafici del bund e del btp a 10 anni). Sebbene sia ancora bassa rispetto agli standard storici, l’aumento dell’inflazione nella fase post-Covid, e quindi del costo del debito, in poco tempo potrebbe diventare un problema maledettamente serio. Per l’Italia la soglia è stretta, visto che il governo Draghi ha annunciato un deficit rivisto per il 2021 all’11,8%, addirittura superiore al 10,8% dello scorso anno. Con un rapporto debito/Pil al 160% e i soldi del Next Generation Eu che si stima contribuiranno alla crescita solo per il 3,6% in quattro anni, è facile vedere come qualsiasi aumento dei tassi spingerà Roma sull’orlo del baratro.

Altro che le candidature di Draghi o Cartabia al Quirinale: ben più seri sono i problemi per noi italiani. Ulteriori stimoli fiscali europei, pallida imitazione del potente piano di spesa all’americana, saranno non pervenuti. E, dicono i rumor di mercato, l’unica opzione è che la Bce continui ad acquistare per intero il debito sovrano emesso dagli stati (Eurotower ha già comprato oltre 450 miliardi di titoli del Tesoro italiano). Poiché il bilancio della banca centrale è oggi già al 60% del Pil dell’Eurozona e le performance dei vari paesi iniziano a divergere, per Roma che è fanalino di coda in Ue, e di conseguenza per l’intera area dell’euro, il momento della verità si avvicina.

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Coronavirus, l’Unione Europea pronta a riaprire le frontiere ma solo a 15 Paesi: al momento esclusi gli Usa, ammessa la Cina

L’Europa è pronta a riaprire le sue frontiere esterne da mercoledì 1 luglio ma all’insegna della massima prudenza. Per il momento infatti, l’ingresso nel Vecchio Continente sarà consentito solo ai viaggiatori provenienti da una lista di 15 Paesi selezionati tra quelli che al momento hanno un ritmo di contagi e un’andamento della pandemia contenuti. Ancora non c’è il via libera ufficiale all’elenco vista la difficoltà a mettere d’accordo tutte le capitali sulla metodologia da adottare per redigerlo ma sembra proprio che tra le nazioni ammesse non vi siano gli Stati Uniti mentre potrebbero invece poter arrivare i cinesi, ma solo a certe condizioni. Ovvero a patto che Pechino adotti un criterio di reciprocità, lasciando entrare gli europei.

Le capitali, dopo le lunghe sessioni dei 27 ambasciatori, riuniti a livello del Coreper, dovranno quindi trovare una quadra entro martedì 30 giugno, con un voto a maggioranza qualificata. Un accordo che però dall’altra parte dell’oceano danno già per fatto. Come riportato dai principali media americani che, citando fonti diplomatiche europee, ritengono che difficilmente si torni indietro dall’esclusione, per ora, degli Usa. All’interno dell’Europa, alla ricerca di un difficile equilibrio tra la ripresa dell’attività turistiche e le esigenze sanitarie, nuovi segnali di allentamento arrivano intanto da Londra che ha deciso di eliminare, dal 6 luglio, la quarantena per gli inglesi di rientro dalla vacanze in vari Paesi, tra cui l’Italia. Nella lista in preparazione in Gb dovrebbero esserci anche Spagna, Francia, Grecia, Germania, Portogallo, Belgio Turchia, Olanda e Norvegia. Mentre resterebbero fuori Portogallo e Svezia.

Tornando a Bruxelles, secondo le prime indiscrezioni, l’elenco dei Paesi da riammettere dovrebbe essere rivisto ogni 14 giorni, consentendo un monitoraggio sull’andamento della pandemia. E, per ora, nella lista dovrebbero esserci Algeria, Australia, Canada, Georgia, Giappone, Montenegro, Marocco, Nuova Zelanda, Ruanda, Serbia, Corea del Sud, Thailandia, Tunisia e Uruguay. Nelle prime bozze c’è poi la Cina ma con un asterisco: dovrà valere cioè il criterio della reciprocità. L’Ue ha vietato i viaggi non essenziali verso il continente da metà marzo, a causa della pandemia. A tutt’oggi i casi di coronavirus in tutto il mondo sfiorano ormai i 10 milioni con un bilancio dei decessi vicinissimo a quota 500mila.

L’obiettivo è tutelare la salute degli europei tenendo fuori dalla lista quelli ad alto rischio e dunque dove i contagi sono alti, come gli Stati Uniti ed il Brasile. Solo nelle ultime 24 ore negli Usa ci sono stati 45.300 nuovi casi, mai così tanti dall’inizio della pandemia con le situazioni più critiche in Texas e Florida. E in Brasile, in un solo giorno, si sono registrati 46.860 nuovi contagi e quasi mille decessi.

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Coronavirus, a Pechino altri 10 quartieri in lockdown: allerta massima. La paura in Borsa: apertura in rosso per i listini europei

Torna l’incubo coronavirus in Cina dopo il nuovo focolaio di coronavirus emerso nel mercato di Xinfadi a Pechino, il più grande della capitale per i generi alimentari. La metropoli ha registrato 36 contagi in 24 ore, per un totale di 79 persone attualmente positive, cifre che non si vedevano da oltre due mesi, a dimostrazione del fatto che il Covid-19 può riprendere vigore quando vengono allentate le misure restrittive. Per questo altri dieci quartieri residenziali della capitale cinese – che conta oltre 20 milioni di abitanti – sono stati messi in isolamento: a Pechino sono così in totale 21 le aree tornate in lockdown. La paura di una ripresa dei contagi, dopo il nuovo aumento dei casi anche negli Stati Uniti, arriva anche in Borsa, con un avvio di settimana fortemente negativo per tutta Europa: Piazza Affari, così come Parigi, Francoforte e Madrid, perde in apertura oltre il 2 per cento.

A Pechino gli ultimi casi di contaminazione sono stati scoperti in un mercato all’ingrosso nel distretto di Haidian. L’origine viene fatta risalire sempre al gigantesco mercato agroalimentare di Xinfadi, nel sud della metropoli cinese, nel distretto di Fengtai: due giorni fa 11 aree residenziali erano già state messe in quarantena in quella zona. Diverse città del paese ora consigliano ai loro residenti di evitare viaggi a Pechino. Tre dei nuovi casi sono stati registrati nella vicina provincia dello Hebei. Gli altri dieci sono persone provenienti da paesi stranieri.

Le contromisure sono scattate già da sabato, con la chiusura del mercato per sanificarlo, il dispiegamento di polizia paramilitare per i controlli e i primi lockdown. Tutti i lavoratori di Xinfadi, e tutti quelli che ci sono andati a partire dal 30 maggio saranno sottoposti al tampone, come pure gli abitanti delle zone circostanti. Almeno 10mila persone sono state già testate.

Ma a preoccupare anche il fatto che il virus è stato rilevato in ben 40 campioni prelevati dalle aree alimentari e di trasformazione del mercato che si trova nel quartiere sudovest di Fengtai e copre un’area di 112 ettari. L’allarme ha dato il via anche a una serie di ispezioni nei grandi supermercati e vari punti vendita di carne e prodotti ittici. Sono 5.424 i campioni raccolti tra carne, frutti di mare e ambiente esterno. Il virus è stato ritrovato sui taglieri usati per la lavorazione del salmone, mentre le grandi catene come Carrefour e Wumart hanno rimosso gli articoli incriminati dagli scaffali.

La Borsa – L’effetto del lockdown nella capitale cinesi si è riflesso immediatamente sui listini asiatici: a soffrire è soprattutto Tokyo (-3,47%), preceduta solo da Seul (-4,75%) e seguita da Hong Kong (-2,2%) oltre che da Sydney (-2,1%). Fanno meno peggio le borse cinesi malgrado i dati sotto le stime della produzione dell’industria e delle vendite dal dettaglio. La conseguenza è un avvio di seduta in forte calo per Piazza Affari, nonostante già la scorsa settimana sia stata caratterizzata da un forte ribasso. In profondo rosso anche le altre borse europee.

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