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Seid Visin, il razzismo c’entrava. Il padre: “Sì, ha contato nella vita e nella morte di nostro figlio. Porteremo avanti la sua battaglia”

Il razzismo c’entrava. Oltre due mesi dopo il suicidio del giovane Seid Visin, il ragazzo di origini etiopi che lo scorso 3 giugno si è tolto la vita a Nocera Inferiore, torna a parlare il padre adottivo del ventenne, Walter Visin. Lui stesso nei giorni immediatamente successivi all’episodio aveva escluso qualsiasi motivo che avesse a che fare con le discriminazioni. Ora invece, intervistato dal Corriere della Sera, racconta che “il razzismo ha contato nella vita e nella morte di Seid”. “Adesso è tutto più chiaro“.

Seid in passato si era sfogato contro l’intolleranza che sentiva intorno a sé. Lo aveva fatto con un post su Facebook: “Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici“, aveva scritto. Poi, anni più tardi, il gesto estremo: intorno alla tragedia si era scatenato un dibattito politico fino all’intervento del padre Walter: “Mio figlio era benvoluto, quello contro il razzismo era uno sfogo superato”, aveva detto. A quasi due mesi di distanza, Walter dice di averci riflettuto insieme alla moglie, prendendosi tempo e spazio per pensare e capire, lontano dall’assalto mediatico e dalle polemiche inaspettate: “Non era tempo per ragionare, ora invece lo sappiamo”. Nascosti in quel gesto c’erano i disagi di un ragazzo segnato dai dispiaceri e dagli abusi subiti in Etiopia quando era piccolo e le fragilità di una persona davanti al “razzismo che ha vissuto come ragazzo nero qui in Italia”, dice adesso il padre.

I genitori hanno così contattato “Mamme per la pelle”, l’associazione per genitori i cui figli hanno subito discriminazioni fondata da Gabriella Nobile. La morte del figlio non cadrà nel silenzio con il passare del tempo: la lettera aperta che Seid lasciò sulla sua bacheca di Facebook diventerà parte della lotta della famiglia Visin contro ogni tipo di discriminazione. “La leggeremo e la discuteremo nelle scuole, nelle conferenze, nei campi di calcio”. In quegli stessi campi che il figlio ha calpestato prima giocando a 14 anni per le giovanili del Milan insieme a Gianluigi Donnarumma e poi in quelle del Benevento, e dove, troppo spesso, sono state dette le frasi che lo hanno ferito: “Facciamo giocare questo sporco negro”. Papà Walter ora sa che “ogni parola può aprire una ferita”.

E più Walter ci pensa, più gli episodi affiorano: i commenti razzisti dagli spalti mentre Said giocava, le frasi di intolleranza di qualche parente disoccupato (“Vengono qui e ci rubano il lavoro”). E quella volta che nel bar di Nocera in cui Said lavorava un cliente aveva rifiutato di farsi servire da lui. La morte di Seid, ora, ha avuto riconosciuto il significato che merita: “Seid ci nascondeva la sua sofferenza per il razzismo per proteggerci”, conclude il padre Walter, che ha deciso di cominciare a dare voce al dolore del figlio proprio nel campo da calcio di Nocera Inferiore, in una cerimonia per ricordare Seid prevista per settembre.

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Civitanova Marche, il Comune condannato per lo sgombero forzato di una donna rom: viveva in camper vicino alla scuola di una delle figlie

Appartenere all’etnia rom in Italia significa, per molti, meritarsi una sorta di marchiatura, dunque di esclusione a priori. Per Ines (il nome è di fantasia), origini spagnole, e le sue due figlie, all’epoca dei fatti di 12 e 20 anni, c’è in più l’aggravante di essere donne e soprattutto di privilegiare alcuni beni primari: l’educazione per la più piccola e la salute per la maggiorenne.

Le tre donne tra il 2012 e il 2013 vivevano dentro un camper piazzato su un terreno pubblico di Civitanova Marche in provincia di Macerata. Una scelta temporanea voluta da Ines proprio in quel punto, in quanto di fronte alla scuola frequentata dalla figlia minore. Nonostante l’intero nucleo fosse incensurato, apprezzato dai residenti e nell’ambito scolastico durante il periodo trascorso in quella zona della cittadina marchigiana, è partita una campagna discriminatoria che ha finito col costringere Ines e le due figlie ad andarsene da Civitanova.

L’amministrazione comunale ha rigettato la richiesta di Ines di una residenza anagrafica e respinto l’istanza di assegnazione di un’area pubblica, per poi vietare il campeggio in area comunale. E le interessate hanno risposto. “Hanno fatto terra bruciata attorno alle mie clienti, da qui la decisione di fare causa all’amministrazione comunale per discriminazione amministrativa. Dopo tanti anni, a colpi di carte bollate, alla fine abbiamo vinto noi e credo si tratti della prima sentenza del genere in Italia. In questa storia, tuttavia, nessuno può dire di aver vinto”, spiega l’avvocato Daniele Valeri del Foro di Ancona che ha portato avanti il ricorso contro il provvedimento del Comune.

La sentenza che la Corte di Cassazione ha emesso nei giorni scorsi fisserà un precedente. I giudici della Prima Sezione Civile si sono espressi contro il Comune di Civitanova Marche, confermando il parere della Corte d’Appello di Ancona dell’agosto 2015, considerando illegittimo lo sgombero forzato della famiglia rom messo in atto dal Comune di Civitanova. L’ostinazione delle giunte di destra come di sinistra (il vento ostile per la famiglia rom ha iniziato a soffiare con la giunta di centrodestra guidata da Massimo Mobili, ma l’ordine di sgombero è stato promosso e firmato da Tommaso Corvatta, centrosinistra, nel 2013) ha finito con il provocare solo danni.

A distanza di circa otto anni hanno perso tutti: Ines e le due figlie, oggi entrambe maggiorenni; l’amministrazione comunale civitanovese, oggi di nuovo nelle mani del centrodestra con Fabrizio Ciarapica, condannata a sborsare complessivamente svariate decine di migliaia di euro per le spese legali e 3mila euro di risarcimento nei confronti di Ines e delle figlie.

“Ines e le due figlie non disturbavano nessuno – aggiunge l’avvocato Valeri – hanno vissuto in quello spazio per anni ed erano state iscritte nelle liste dei residenti in Comune. Nel febbraio 2013 Ines ha fatto richiesta di iscrizione all’anagrafe residenti che l’amministrazione comunale ha respinto, tanto da provocare la risentita reazione dell’ombudsman delle Marche“.

Secondo il Garante per i Diritti della Persona bisognava “evitare discriminazioni etniche e favorire la tutela del diritto allo studio per la figlia più piccola. Pareri inascoltati da parte della giunta comunale che successivamente ha spostato il camper e la famiglia nella zona industriale di Civitanova, in mezzo al nulla e lontana dalla scuola della bambina. L’amministrazione del tempo affermò che la presenza di ‘un’area camper per persone di vita girovaga è fonte di polemiche e discussioni’”, continua l’avvocato. Per il quale “il nocciolo della questione sta tutto lì. Il caso è detonato quando è stato dato rilievo a quella che a tutti gli effetti era una ‘Ordinanza anti-rom’ enfatizzando l’avvio degli sgomberi”.

Così alla vigilia di Natale del 2013, trasformando un ‘camper’ in un ‘campo rom’ i vigili urbani di Civitanova si sono recati nell’area di sosta ed hanno invitato la signora Ines e le due figlie ad andarsene. Il giudice di primo grado del tribunale di Macerata aveva dato ragione al Comune, poi i due gradi successivi hanno prima ribaltato e poi confermato la condanna nei confronti dell’amministrazione di Civitanova Marche.

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Il razzismo è tipico di una certa politica, ma non dovrebbe entrare in caserma

Il 2019 si è concluso a dicembre con la cronaca giudiziaria che ci racconta di due casi di razzismo in caserma. Il Tribunale militare di Verona condanna per diffamazione militare aggravata dalla discriminazione etnica un sergente che avrebbe insultato un ufficiale di origini marocchine. Il Tribunale di Torino condanna invece un maresciallo per insulti razzisti a un giovane soldato di origini maghrebina, chiamandolo con epiteti come “negro”, “spaccino”, “beduino”, ecc.

“Perché canti l’inno nazionale? – pare gli chiedesse – Credi di essere italiano?”. Ora attendiamo le sentenze definitive, ma certo non è accettabile che chi ha solennemente giurato fedeltà alla Costituzione calpesti il fondamentale principio di uguaglianza ed eserciti forme di discriminazione persino di tipo razziale.

Il razzismo fu una delle aberrazioni del regime fascista. Mi torna in mente quel libretto dal titolo Il primo e il secondo libro del fascista (Mondadori, 1941) su cui mio padre fu costretto a studiare alle scuole medie “perché ogni italiano deve vivere consapevolmente nel tempo fascista e l’ignoranza di tali basi della nostra esistenza è inammissibile”.

Su quel manuale si possono leggere sciocchezze come: “L’evidente inferiorità di alcune razze, e specialmente di quella che si è convenuto chiamare negroide, viene attribuita a una decadenza progressiva nel corso di lunghissimi periodi di tempo; altri scienziati attribuiscono tale inferiorità a un arresto di sviluppo”. O come: “Il meticcio, ossia il figlio di due individui dei quali uno di colore, è un essere moralmente e fisicamente inferiore, facile vittima di gravi malattie e inclinato ai vizi più riprovevoli”. E anche: “La vasta e subdola opera di corruzione svolta tenacemente dagli ebrei, con tutti i mezzi, nella vita politica, sociale, economica, nei campi dell’arte, della letteratura, della scienza, rappresenta un pericolo per il domani dell’Italia”.

Immaginiamo quanto sia stato dannoso quel catechismo fascista per tutti quei ragazzini e per le generazioni successive. È un fatto che oggi, dopo oltre settant’anni di democrazia, le cronache quotidiane ci mostrano che nel Belpaese il razzismo è ancora vivo e vegeto, alimentato da una “demagogia nazionale” (“Prima gli italiani!”) che come la “difesa della razza” del ventennio non si concilia affatto con le nostre radici cristiane.

Ebbene l’aizzamento di massa contro gli immigrati-cattivoni ha il malcelato scopo di raccogliere consenso a mani basse, facendo leva sui nostri peggiori istinti per poi praticare politiche di compressione dei diritti civili e sociali di tutti. Non certo per affrontare i problemi collegati ai flussi migratori, che sono problemi reali da affrontare seriamente, e non “alzando il ponte levatoio” o aprendo il fuoco contro le navi della disperazione.

In più la furba demagogia anti-migranti ottiene il risultato di distrarre l’opinione pubblica da questioni altrettanto importanti: mafia, corruzione, inquinamento, morti per inquinamento, morti sul lavoro, disoccupazione, sfruttamento dei lavoratori, precariato, evasione fiscale, debito pubblico, ecc.

Raccontare ai più deboli (e ingenui) che i colpevoli dei loro disagi sono gli stranieri che “ci tolgono il lavoro” – per poi magari approvare normative contro i più deboli – è eticamente deplorevole. Combattere la xenofobia, spezzare la “guerra tra poveri” e svelare l’inganno dei seminatori di odio sarebbe invece una nobile battaglia di organizzazioni sindacali che abbiano davvero a cuore gli interessi dei lavoratori e il bene della società.

Nel mondo militare arginare quei sentimenti antidemocratici, magari coltivati anche a causa di una perdurante condizione di “separatezza” dal resto della società, dovrebbe essere tra le priorità delle nascenti organizzazioni sindacali. Alle frescacce del nazionalismo vanno contrapposti i valori del “patriottismo costituzionale”. Mi auguro che le anime progressiste che rivendicano a gran voce i diritti sindacali anche in caserma non siano affette da “strabismo costituzionale”, che è meno affascinante di quello di Venere, e ricordino ai colleghi che bisogna rispettare anche l’art. 2 Cost. (principio di solidarietà), l’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza) e l’art. 10 Cost. (diritto di asilo).

Al sergente, al maresciallo o all’ufficiale che non ricordi di aver giurato di difendere la Costituzione potremmo regalare un biglietto per Tolo Tolo: un bel film, che ci suggerisce che persino dal razzismo possiamo guarire: con l’amore.

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