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Turchia: banche a rischio default, ma Erdogan si rifugia nel suo palazzo da 70 milioni di euro. E grida al complotto

Le banche turche sono a rischio default, ma Recep Tayyip Erdogan si rifugia in una magione super lusso, gridando al complotto occidentale e chiedendo sacrifici alla sua popolazione. Da un lato scatta l’ennesimo allarme rosso per gli istituti di credito di Ankara, che necessitano di una ricapitalizzazione per evitare la bancarotta. Dall’altro sta facendo notizia nel paese il palazzo presidenziale estivo di Erdogan, costato più di 70 milioni di euro, mentre la moglie del presidente esorta i turchi ed evitare gli sprechi. Un corto circuito che impatta anche sull’agenda euromediterranea della Turchia, pronta a nuove trivellazioni a caccia di gas e in trattativa con gli Usa per il dossier afghano, visto che Ankara ha annunciato di inviare truppe per proteggere l’aeroporto di Kabul quando le forze straniere partiranno il mese prossimo.

Erdogan e il “complotto” contro l’economia turca – L’indiscrezione di Reuters sullo stato di salute degli istituti finanziari turchi altro non fa che confermare in blocco tutte le analisi realizzate dell’ultimo biennio. Ankara sta riflettendo sull’esigenza di nuova iniezione di capitale nelle banche statali, ma ufficialmente il messaggio che arriva dall’inner circle governativo è che il sistema turco è sano. Secondo quanto dichiarato pochi giorni fa da Erdogan l’economia turca è sotto attacco e i motivi sono gli stessi del tentativo di colpo di stato fallito del 15 luglio 2016 e delle proteste di Gezi Park, finite nel sangue. Ha parlato di “un gioco” contro la Turchia, costruito sul “triangolo dei tassi di cambio, dei tassi di interesse e dell’inflazione, ma il governo si tutela da questi attacchi col trasferimento di tutto il suo oro all’estero e rafforzando le sue riserve valutarie”, ha aggiunto.

Nel frattempo peggiorano anche le aspettative per l’inflazione annuale, che potrebbe rallentare al 15,6 per cento entro la fine dell’anno, mentre la stima era del 14,4% a giugno e dell‘11,2% a gennaio. Il governatore della banca centrale turca Saha Kavcioglu ha mantenuto i tassi di interesse fermi al 19% dalla sua nomina ad oggi, anche se l’inflazione ha accelerato. Il tasso è salito al 17,5% il mese scorso dal 16,6% di maggio. Inoltre le vendite al dettaglio sono diminuite da dicembre ad oggi del 6,1% mensile, secondo i dati diffusi dall’Istituto statistico turco. La Turchia ha chiuso i negozi non essenziali durante la prima metà di maggio dopo che i casi di coronavirus sono saliti a una cifra record di oltre 63mila al giorno.

Una situazione di stallo, monitorata con interesse anche dai grandi alleati del Bosforo, ovvero Cina e Qatar. Ma forse a Erdogan non bastano più, visto che è impegnato costantemente a riallacciare le relazioni con Tel Aviv: il presidente turco ha parlato con il suo nuovo omologo israeliano Isaac Herzog, nel segno di un possibile disgelo tra i due ex alleati dopo anni di relazioni inesistenti. In precedenza Erdogan aveva avuto una conversazione telefonica con il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas.

La residenza estiva del Sultano – Ma nel paese a fare notizia più che la politica estera è quella interna legata alla faraonica residenza estiva del sultano, costruita due anni fa. Le immagini della magione costata 74 milioni di euro cozzano con questa fase di incertezza finanziaria, proprio mentre la moglie del presidente ha esortato la popolazione a ridurre gli sprechi alimentari per sostenere la povertà galoppante. Si tratta di una tenuta situata a Marmaris, che si somma ad altre spese pazze come l’Air Force One turco, acquistato di seconda mano dal Golfo, o la Casa Bianca sul Bosforo da mille stanze costata più di 600 milioni di euro, e soprattutto il progetto per il nuovo canale di Istanbul da 15 miliardi di dollari destinato ad alleviare la pressione sullo stretto ma che ha innescato una serie di proteste, non solo per via dei costi spropositati. Molti infatti sono anche i dubbi di fattibilità, visto che la mastodontica opera infrastrutturale attraverserebbe per 45 chilometri paludi e fattorie sul confine occidentale di Istanbul, con un rilevante danno ambientale.

Non manca la consueta azione governativa di controllo sui social: pare sia in dirittura di arrivo una nuova stretta tramite un organo come il Consiglio supremo della radio e della televisione della Turchia (RTÜK). Vigilerà, secondo le intenzioni del partito di governo, sui post di matrice politica pubblicati sui social. E ovviamente prenderà provvedimenti.

twitter: @FDepalo

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Sofa-gate, sventurata la terra che ha bisogno di dittatori

Sono rimasto davvero di stucco nel leggere le reazioni entusiastiche della comunità celoduristica italiana (la maggioranza della popolazione, a quanto pare) alle parole indirizzate da Draghi contro il premier turco Erdogan. Sembra di essere tornati alla vittoria dei mondiali di Germania, quando suonavamo il clacson per strada celebrando quanto gli italiani siano cazzuti e facciano il mazzo a tutto il mondo. I nuovi cavalieri dell’Apocalisse, da Bolzano a Modica.

Eh sì, ci voleva davvero uno con le palle come Draghi per dirgliene quattro a Erdogan. Finalmente qualcuno che ha avuto il coraggio di chiamarlo come merita: “dittatore”. Orgoglio nazionale a mille. Peccato per la postilla, mannaggia, su cui pochi si sono soffermati: “Di questi dittatori si ha bisogno e con loro bisogna cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese”.

Ma davvero? Quindi i valori democratici e costituzionali, di cui noi italiani andiamo così fieri quando parliamo dei nostri padri fondatori, in realtà possono essere sospesi altrove, e noi giriamo la testa dall’altra parte per far finta di non vedere per poi sederci al tavolo e firmare ricchi contratti commerciali, o ancora peggio accordi di cooperazione per fermare i migranti prima che arrivino sulle nostre coste? E’ questo l’Occidente di cui andiamo immensamente fieri, tanto da arrogarci il diritto di andare in giro per il mondo ad insegnare libertà e democrazia a Paesi che ancora lottano per vedere garantiti i diritti elementari delle persone?

Fossi stato un parlamentare della Repubblica, avrei scatenato il finimondo di fronte ad un premier che dice che il nostro Paese – e l’Europa in generale – ha bisogno di dittatori. Non scherziamo, i valori fondanti del vivere civile e i diritti umani non sono negoziabili con null’altro. E tengo a precisare che non ho nessun preconcetto contro Draghi, e anzi fui felice per la sua nomina a Presidente del Consiglio. Ma ora mi fischiano le orecchie, pensando a tutti i suoi oppositori che lo dipingono come un uomo pronto a tutto pur di raggiungere l’obiettivo, e che in passato è stato complice di alcune azioni riprovevoli pur di garantire l’interesse superiore dell’establishment. La frase che ha pronunciato su Erdogan sembra la sintesi perfetta di questa fotografia.

Purtroppo non si è trattato di uno scivolone isolato. Draghi è riuscito anche a lodare la Libia e la sua guardia costiera per la sua opera di salvataggio dei migranti. Me la sono dovuta rileggere tre volte, ed ammetto di essere ancora incredulo. Fa il paio con l’argomento, molto di moda anni fa, che Gheddafi fosse un bastardo, ma era il nostro bastardo. E il cerchio si chiude, tornando alla linea di partenza dei dittatori di cui si ha bisogno.

Ora, io capisco che tutti i Paesi debbano mandare avanti l’economia, fare affari con chiunque – compresa la Cina, altra nazione con un palmares rivedibile per quanto concerne il rispetto dei diritti umani – e usare tutti gli strumenti per evitare che i terribili migranti vengano a distruggere il nostro splendido stile di vita europeo. Tutto sacrosanto e legittimo. Ma almeno risparmiamo a tutti, compresi i paesi in via di sviluppo, la stucchevole filippica dei paesi occidentali esportatori di democrazia e protettori dei diritti fondamentali dell’umanità. Dichiariamo che è un “tutti contro tutti” per salvarsi il proprio didietro, così almeno le regole del gioco sono chiare e si combatte a mani nude.

Io per esempio, quando ho visto la famosa scena del Sofa-gate, non mi sono soffermato per un momento su Erdogan, che ho dato per perso e irrecuperabile molti anni fa. I miei occhi erano tutti per Charles Michel e quel suo sguardo perso nel vuoto. E pensavo, al di là di protocolli politici e diplomatici, quanto un uomo normale proveniente da un certo tipo di ambiente avrebbe dovuto avere il riflesso di alzarsi e offrire il proprio posto alla von der Leyen, come semplice atto di cortesia e galanteria. Se non l’ha fatto in quanto non ci ha pensato, ci dice molto sulla sua statura come persona. Se ci ha pensato ma ha avuto paura di infastidire Erdogan, ci dice molto sulla sua statura come politico.

In entrambi i casi, sarebbe bello che la tanto civilizzata Europa decidesse di accompagnare il Presidente del Consiglio europeo fuori dal suo ufficio a Bruxelles e offrirgli una bella sedia comoda – tutta per lui – nella sua bella casetta di campagna a Namur, a leggere libri, ascoltare musica e mettere a posto le foto di un passato glorioso che fu.

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Attentato Nizza, dalle minacce di al-Qaeda agli attacchi di Erdogan a Macron e Charlie Hebdo: la Francia è di nuovo nel mirino dei jihadisti

Il fondamentalismo islamico mondiale ha scelto l’obiettivo da colpire: la Francia. E se si deve cercare una data d’inizio della nuova campagna jihadista in territorio francese, il primo settembre rappresenta inevitabilmente uno spartiacque. È quello il giorno in cui ha avuto inizio il processo nei confronti dei 14 imputati per la strage nella redazione del settimanale parigino Charlie Hebdo e anche la data scelta dalla rivista per ripubblicare le vignette sul Profeta Maometto che causarono l’ira dei gruppi jihadisti internazionali e dei loro adepti. A nemmeno due mesi da quel giorno, con il Paese di nuovo scosso dall’attentato alla cattedrale di Notre-Dame di Nizza, dove un uomo armato di coltello ha sgozzato tre persone al grido di “Allah Akbar”, la Francia non ha conosciuto tregua: le promesse di vendetta da parte di al-Qaeda, un attentato sotto la vecchia sede del settimanale, la feroce decapitazione del professore Samuel Paty per mano di un estremista ceceno, la nuova campagna di attentati all’estero lanciata dallo Stato Islamico. E poi lo scontro a distanza tra il presidente Emmanuel Macron, che ha parlato in difesa della libertà di espressione nel Paese, e i presidenti di Turchia ed Egitto, Recep Tayyip Erdoğan e Abdel Fattah al-Sisi, che invece parlano di “offesa” al mondo musulmano, con il Sultano che ha querelato Charlie Hebdo per l’ultima vignetta che lo vede protagonista e paragonato la condizione dei musulmani in Europa a quella degli ebrei durante il nazismo.

Erdogan contro Charlie Hebdo: fomenta l’islamismo per nascondere le difficoltà interne
Il presidente turco ha un problema enorme in patria che non sa come risolvere: una terribile crisi della valuta che ha portato la Lira ai minimi storici. Una situazione economica che, aggravata dalla pandemia di coronavirus, ha fatto perdere sostegno interno al leader dell’AkParti. E lui, come già successo in passato, ha tentato di esternalizzare il problema. Lo ha fatto prima con le provocazioni riguardo alle esplorazioni nel Mediterraneo orientale, ha poi replicato la strategia fomentando di nuovo il conflitto in Nagorno-Karabakh al fiano dell’Azerbaigian che, in Turchia, presenta anche risvolti nazionalisti in funzione anti-armena. Adesso stimola il nazionalismo islamico turco ergendosi a difensore dei diritti della Umma, la comunità islamica mondiale, dopo la pubblicazione delle vignette e i primi attentati jihadisti in Francia.

Dopo Nizza, il governo di Ankara ha raddrizzato il tiro dicendosi “solidale con il popolo francese contro il terrorismo e la violenza”, ma le dichiarazioni dei giorni scorsi hanno contribuito a far crescere la tensione. Le parole che hanno dato origine allo scontro risalgono al 24 ottobre, quando l’uomo forte di Ankara, dopo che il presidente francese aveva promesso una stretta sull’Islam radicale e una riforma per rendere compatibile la religione ai “valori della Repubblica”: “Qual è il problema di Macron con l’Islam ed i musulmani? – aveva dichiarato – Deve fare delle cure per la sua salute mentale. Cosa si può dire a un capo di Stato che tratta in questo modo milioni di membri di una minoranza religiosa nel suo Paese? Prima di tutto, che ha bisogno di un controllo mentale”.

Da lì è nato un botta e risposta tra il leader turco, sostenuto anche dal suo omologo egiziano (“la libertà di espressione si ferma quando offende i sentimenti di oltre 1,5 miliardi di persone”), dal premier pakistano Imran Khan e da alcuni Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, e le cancellerie europee che hanno condannato le frasi di Erdoğan, tutto a pochi giorni dall’uccisione di Samuel Paty. E l’offensiva del presidente non si è fermata: il 26 ottobre ha fatto un “appello alla Nazione, non comprate più prodotti francesi“. E ancora, dopo aver chiesto all’Ue di fermare Macron e “l’islamofobia”, ha dichiarato che “in Europa contro i musulmani si sta compiendo una campagna di linciaggio simile a quella contro gli ebrei prima della Seconda Guerra Mondiale”. Fino al 28 ottobre, quando è uscita la nuova copertina del settimanale satirico parigino che raffigura il leader sul Bosforo intento ad alzare la gonna di una donna in abito islamico. La risposta di Erdoğan non si è fatta attendere: “Sono convinto che annegheranno nell’odio dell’Islam e della Turchia che hanno alimentato. È la dimostrazione che l’Europa sta ritornando alla barbarie. Sono delle canaglie“, ha dichiarato prima di querelare la testata e dichiarare che “Macron vuole di nuovo le Crociate”.

La chiamata alla armi dello Stato islamico e le promesse di vendetta di al-Qaeda
I messaggi dei due principali gruppi fondamentalisti islamici a livello mondiale non avranno certo la stessa cassa di risonanza delle dichiarazioni di fuoco del presidente turco, ma sanno come arrivare al cuore dei soggetti più radicalizzati sparsi per l’Europa. I primi a promettere vendetta sono stati gli uomini del gruppo fondato da Osama bin Laden. Dopo la ripubblicazione delle vignette su Maometto, la formazione guidata da Ayman al-Zawahiri ha atteso la data simbolica dell’11 settembre per tornare a minacciare la Francia: nel numero 3 del magazine qaedista One Ummah, oltre alle celebrazioni per i 19 anni dagli attentati che colpirono gli Stati Uniti, era contenuta “una nuova introduzione su Charlie Hebdo” che “pagherà il prezzo” per la pubblicazione delle vignette, di nuovo.

A questa promessa di vendetta si è poi unita, nei giorni scorsi, la nuova chiamata alle armi da parte dello Stato Islamico che, come già successo in passato, ha lanciato una campagna ribattezzata Answer the call che invita tutti i combattenti all’estero a sferrare attacchi, in special modo contro le prigioni al fine di liberare i detenuti islamisti, come successo già nella Repubblica Democratica del Congo. L’ennesimo invito al martirio, al sacrificio in nome dell’Islam, che ha portato la Francia al centro del mirino dei fondamentalisti islamici.

Twitter: @GianniRosini

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Arda Turan, Mesut Ozil e Cegiz Under: da eroi a reietti, la gloria e la repentina dannazione della ‘generazione Erdogan’

Il problema di diventare un idolo è che prima o poi si finisce sempre nella polvere. L’esito è certo, si può solo lottare per provare a spingere quel giorno il più avanti possibile. Per Arda Turan la data di scadenza è arrivata lo scorso 31 gennaio. È stato allora che il giocatore più forte della Turchia è passato da figliol prodigo a reietto. Una volta per tutte. Senza possibilità di appello. Perché in quel giorno il fantasista ha deciso di rescindere il suo contratto con il Basaksehir. Pur sapendo che il Barcellona, titolare del suo cartellino fino al prossimo giugno, non aveva nessuna intenzione di riaccoglierlo a braccia aperte.

Nel giro di un pomeriggio Arda Turan è rimasto senza squadra, senza stipendio, senza calcio. A 33 anni è diventato un giocatore che si aggira per l’Europa nel tentativo disperato di dimostrare di non essere un “ex”. O almeno non ancora. Perché la sua ultima rete in campionato risale ormai a più di due anni fa. È il 20 aprile del 2018, un venerdì. Il Basaksehir batte 3-1 il Kayserispor, ottavo in classifica. Arda Turan segna il secondo gol, quello che riporta in vantaggio la squadra di Istanbul. Poi più niente. Solo squalifiche, infortuni, sprazzi di talento. E tanti problemi. Soprattutto fuori dal campo. La parte più oscura del suo carattere prende il sopravvento e fa partire l’autocombustione. L’11 settembre 2019 il fantasista turco viene condannato a 2 anni, 8 mesi e 15 giorni di carcere. Il motivo? Poco meno di un anno prima si trovava in un locale di Istanbul e aveva rivolto delle frasi piuttosto esplicite alla moglie del cantante turco Berkay Sahin. Davanti al cantante turco Berkay Sahin.

“Se non fossi sposato – aveva detto – una come te non mi mancherebbe”. Apriti cielo. Nel locale era scoppiata una rissa da saloon. Berkay aveva avuto la peggio e si era ritrovato con il naso rotto e con una pistola puntata contro. Ma non era ancora finita. Perché Arda Turan aveva seguito il cantante al pronto soccorso e, per intimorirlo, aveva sparato anche un paio di colpi (che l’accusa aveva definito accidentali). Un episodio che diventa solo l’ultima riga nel curriculum di follie. Neanche 12 mesi prima Arda Turan era stato squalificato per 16 giornate, poi ridotte a 10, per aver spinto un guardalinee (e per averlo coperto di insulti). L’addio alla Nazionale, invece, era arrivato nel 2017. La Turchia stava rientrando in aereo dalla trasferta in Macedonia. E il fantasista si era scagliato contro un giornalista che volava con la squadra.

Un finale di carriera incomprensibile, una picchiata inarrestabile che stride con il personaggio che Arda Turan aveva costruito all’inizio della sua avventura europea. Nel 2011 l’Atletico lo acquista per 12 milioni dal Galatasaray. Appena atterrato in Spagna, Arda Turan scende le scalette dell’aereo e dice: “Sono qui per giocare nell’Atletico, se mi avesse chiamato in Real non avrei firmato”. Uno slogan capace di infiammare qualsiasi cuore. Con la maglia dei materassi compie il salto. Da talento a icona nazionale. Arda Turan decide di non imparare lo spagnolo, gira con il traduttore, mette su quello che passa alla storia come il Frente Kebab, un gruppo di persone comuni che si riunisce in un ristorante e ascolta la musica tradizionale turca fino a tardi. Gli inizi con Gregorio Manzano non sono dei migliori. Ma con Simeone, a poco a poco, la storia cambia. Non poteva essere altrimenti visto che “Cholo”, letteralmente, significa incrocio di razze.

Arda Turan diventa una parte essenziale del gruppo pur restando un elemento esterno al gruppo. Si mescola ma non si miscela agli altri. In campo diventa centrale. Dribbling, passaggi, cambi di ritmo. E anche qualche gol. El Turco è un elemento di classe in una squadra brutta, sporca e cattiva, in un collettivo che deve cercare una propria filosofia per arrivare lì dove sono Barcellona e Real. Nel 2015 Arda Turan si trasferisce al Barça. Ma lì è solo un ottimo giocatore in una squadra infarcita di fenomeni. In due anni e mezzo gioca 36 partite. Una miseria. Così nel gennaio del 2018 torna in patria. Non in una squadra qualsiasi, ma nell’Istanbul Basaksehir, un club che ha ritirato la maglia numero 12 come gesto di rispetto nei confronti di Erdogan, una società che il New York Times ha definito, senza giri di parole, “del governo”. E non è una coincidenza. Perché Arda Turan è forse il giocatore turco che più ha appoggiato pubblicamente la politica di Erdogan.

E se nel 2017 si è schierato a favore dell’introduzione del “super-presidenzialismo”, nel 2018 ha addirittura scelto Erdogan come testimone di nozze. Con tanto di cambio di programma: niente alcol nel menù, perché il presidente è un musulmano praticante e potrebbe risentirsi. D’altra parte il legame fra i due è più che saldo. Agli Europei del 2016 la Turchia viene superata da Croazia e Spagna. I sogni di qualificazione agli ottavi non durano neanche 180’. Il pubblico non gradisce e inizia a fischiare Arda Turan, uno che fino a quel momento era diventato il simbolo di una Nazione che poteva competere con chiunque, un sogno nazionalista in carne e ossa, viene travolto dalle critiche. Ed Erdogan corre in suo aiuto: “Fischiare il capitano della nazionale non è un atto spiegabile”.

Questo, però, è un momento difficile anche per altri due giocatori che hanno ostentato pubblicamente il loro appoggio a Erdogan. Il primo è Mesut Ozil, altro talento minato da un carattere difficile. Nei giorni scorsi il turco (insieme a due compagni) ha inizialmente rifiutato di tagliarsi del 12,5% il suo stipendio da 350mila sterline a settimana, così come stabilito da tecnico e giocatori per aiutare l’Arsenal a gestire le perdite legate all’emergenza Covid-19. Un altro tassello in un mosaico di polemiche internazionali che il centrocampista tedesco di origini turche sta costruendo da anni. Nel maggio 2018, insieme al compagno Gundogan, si fa fotografare con Erdogan. Sorrisi, strette di mano, maglie con dedica. Le critiche sono così aspre che Ozil, dopo i Mondiali, decide lasciare la Nazionale dicendo di essere vittima di razzismo.

“Mesut ha fatto bene a dire addio alla nazionale tedesca – gongola Erdogan – Il razzismo va condannato, è una cosa inaccettabile”. Ozil dice che lui, quello scatto, lo rifarebbe. Così nel 2019 ecco che lui e la sua fidanzata si fanno fotografare ai lati del presidente durante una cena. Il passo è breve, il 7 giugno Ozil si sposa ed Erdogan gli fa da testimone. Le foto fanno il giro del mondo, fatalità proprio prima delle elezioni per il nuovo sindaco di Istanbul. Non va meglio a Cengiz Under, che lo scorso ottobre aveva postato una foto che lo ritraeva mentre festeggiava un gol mimando un saluto militare. Tutto corredato da tre bandierine turche, chiaro gesto di appoggio alle operazioni militari contro i curdi in Siria dei giorni precedenti. Alla sua terza stagione a Roma, l’esterno è ancora un rebus. I primi sei mesi del 2018, quando il turco ha trascinato i giallorossi di Di Francesco con 6 gol in 7 partite fra campionato e Champions, sono rimasti un’eccezione. Under non ha più trovato la continuità, fra infortuni, prestazioni opache e scarso contributo alla fase difensiva, e l’esplosione di Zaniolo lo ha relegato in secondo piano. Almeno per il momento.

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