Archivio Tag: Governo Draghi

Crisi di governo, le reazioni all’estero. In Usa garantiscono: ‘Italia rimane stretto partner’. La presidente dei Socialisti in Ue: ‘Preoccupati’

La crisi di governo e la prospettiva sempre più concreta di un voto anticipato vengono seguite con attenzione anche al di fuori dei confini italiani. Tra i Paesi più attenti all’evolversi della situazione a Roma ci sono certamente gli Stati Uniti, tra i più stretti alleati di Mario Draghi in campo internazionale. Un portavoce della Casa Bianca, poco dopo il voto di fiducia al Senato, ha voluto sottolineare che “la partnership con l’Italia è forte e continueremo a collaborare a stretto contatto su una serie di questioni prioritarie, tra le quali il sostegno all’Ucraina contro l’aggressione della Russia”, pur precisando di non voler commentare su questioni di politica interna ma di “sostenere e rispettare” le decisioni del Paese.

Toni ben più preoccupati arrivano da Bruxelles, sponda socialista, dove la presidente del Gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, la spagnola Iratxe Garcia Perez, ha manifestato “preoccupazione per l’evolversi della crisi di governo in Italia”. Per poi passare all’attacco nei confronti degli altri gruppi dell’Eurocamera: “I populisti assieme al Ppe sono i responsabili di questa situazione”.

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Quando saranno le elezioni? Date possibili 25 settembre o 2 ottobre. Nuovo governo forse a novembre. Ecco cosa prevede la Costituzione

I tempi di indizione delle elezioni, di insediamento delle nuove Camere e quindi della nascita di un nuovo governo sono piuttosto lunghi ed anche rigidi, perché scanditi dalla Costituzione. Questo è il motivo per il quale, in attesa delle decisioni di Draghi e quindi di fine anticipata della legislatura, il nuovo esecutivo si insedierebbe in autunno inoltrato, tra fine ottobre e primi novembre nella migliore delle ipotesi, cioè in piena sessione di bilancio. Circostanza che pone il problema della presentazione della Legge di Bilancio alle Camere entro il 15 ottobre. L’articolo 61 della nostra Carta stabilisce che “le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti”. In passato tra il decreto di scioglimento delle Camere da parte del Quirinale e le successive urne sono trascorsi sempre tra i 60 e i 70 giorni. I tempi potrebbero sembrare eccessivamente lunghi, ma gli adempimenti per i partiti sono molteplici, non solo per la campagna elettorale ma anche per la presentazione delle liste che devono essere accompagnate da un notevole numero di firme (tra 1.500 e 2mila firme in ogni circoscrizione proporzionale per i partiti che non hanno gruppi parlamentari).

Se dunque, per ipotesi, le Camere venissero sciolte entro i prossimi giorni, i cittadini potrebbero recarsi ai seggi domenica 25 settembre. E’ anche possibile che per evitare una campagna elettorale totalmente sotto gli ombrelloni, lo scioglimento delle Camere possa avvenire oltre questa settimana, per votare magari domenica 2 ottobre. Sempre l’articolo 61 della Costituzione stabilisce che “la prima riunione delle Camere ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni”, quindi si arriverebbe a una data tra il 15 e il 22 ottobre.

Una volta eletti i presidenti di Camera e Senato e formati i gruppi parlamentari, Mattarella aprirebbe le consultazioni, il cui esito dipende dalla chiarezza del risultato elettorale. Nel 2018 si votò il 4 marzo e il governo Conte I giurò l’1 giugno, cioè 90 giorni dopo; nel 2013 dopo le urne del 24 febbraio il governo Letta giurò il 28 aprile, vale a dire 63 giorni dopo; nel 2008, dopo il chiaro successo del centrodestra il 13 aprile, il giuramento del Berlusconi IV arrivò l’8 maggio, quindi dopo 25 giorni dal voto.

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Superbonus, vicino un accordo tra governo e maggioranza per eliminare i limiti di reddito. Ieri il plauso di Bruxelles alla misura

Secondo quanto filtra da fonti parlamentari maggioranza e governo sarebbero vicine ad un accorso sul superbonus 110% per le ristrutturazioni edilizie. L’ipotesi di lavoro è il superamento del limite Isee al tetto dei 25mila euro per quel che concerne le abitazioni accatastate come villette, con soglia minima di lavori (entro la fine del mese di giugno 2022) del 30%. La misura ha ricevuto ieri il plauso di Bruxelles e in particolare del vicepresidente Frans Timmermans e della commissaria Ue Kadri Simson. La Commissione Ue ha invitato gli stati membri a “mettere a punto strumenti abilitanti e finanziari per rendere più attraenti gli investimenti privati ​​e indirizzarli alle esigenze di ristrutturazione”. “Investire nelle ristrutturazioni edilizie”, come fa lo Stato italiano con il Superbonus, è un “affare” molto “conveniente” ha affermato il vicepresidente esecutivo della Commissione Europea Frans Timmermans, rispondendo ad una domanda sul Superbonus”.

Timmermas ha poi osservato come oggi il governo in Italia debba dare grandi aiuti per contrastare la povertà energetica, ma questa situazione è causata anche dalle condizioni di edifici molto inefficienti dal punto di vista energetico. Quindi investire in ristrutturazioni, ha aggiunto, significa anche abbassare le bollette che le famiglie devono pagare. C’è bisogno di ingenti investimenti per raggiungere gli obiettivi indicati dall’Ue: per questo “le misure nazionali sono benvenute e sosteniamo gli Stati membri a proporre schemi a salvaguardia dei più vulnerabili”, ha detto la commissaria all’energia Simson rispondendo a una domanda sul superbonus del 110% introdotto dall’Italia.

“Se qualcuno fosse ancora dubbioso, i vertici della Commissione europea, fugano definitivamente ogni dubbio sulla grande efficacia del Superbonus 110%. Risultati alla mano, la nostra misura ha mostrato la sua efficacia al punto da ispirare le politiche di efficientamento in tutta l’Unione europea, anche in termini di lotta alla povertà energetica e di riduzione delle bollette, oltre che di benefici ai cittadini e riduzione delle emissioni di gas serra. Ora ci aspettiamo dal Governo un emendamento che dia pieno vigore alla proroga per le monofamiliari, senza alcuna soglia Isee, e reintroduca la maxi-agevolazione per gli interventi trainati sugli edifici condominiali. Non è immaginabile alcuna opzione al ribasso: sarebbe assurdo ridimensionare il Superbonus mentre l’Europa pensa di estenderlo come buona pratica per sollecitare l’efficientamento degli edifici”, avevano dichiarato ieri i deputati del MoVimento 5 Stelle Luca Sut, Patrizia Terzoni e Riccardo Fraccaro.

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Referendum Renzi, la Costituzione è la nostra forza: va fatta valere anche con gli altri governi

Il 4 dicembre 2016 il popolo italiano respinse con referendum la modifica della Costituzione, proposta da Matteo Renzi, al fine di attrarre maggiori poteri nell’Esecutivo, riducendo, nello stesso tempo, la “rappresentanza popolare” e i poteri referendari del popolo sovrano. In estrema sintesi, il disegno di modifica della Costituzione prevedeva: che il Parlamento fosse praticamente ridotto alla sola Camera dei Deputati, tranne alcune eccezioni (art. 10); che le firme richieste per proporre una legge di iniziativa popolare fossero elevate da 50mila a 150mila (art. 11); che, infine, il governo potesse chiedere alla Camera dei Deputati di “deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, fosse iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei Deputati entro il termine di 70 giorni dalla deliberazione” (art. 12).

Con queste e altre numerose modifiche, veniva in pratica cambiata gran parte della Costituzione vigente e si veniva incontro a coloro che, in virtù delle numerosissime leggi costituzionali fino ad allora emanate, affermavano la venuta in essere di una “Costituzione materiale” che avrebbe cancellato quella “formale”. L’esito referendario, tuttavia, ha confermato quest’ultima e ha tolto ogni dubbio in proposito.

Si trattava di una riforma che voleva dar forza all’azione, già da tempo intrapresa dai nostri governi, per cancellare il doveroso “obiettivo” di dare piena attuazione alla Costituzione, costituente l’ultimo “ostacolo” all’avanzata inarrestabile del neoliberismo. Quel pensiero unico dominante che, attraverso numerose leggi incostituzionali, aveva in pratica sostituito al “sistema economico produttivo di stampo keynesiano” (secondo il quale, e coerentemente con i principi fondamentali della Costituzione, si ritiene che la ricchezza deve essere distribuita alla base della piramide sociale, e lo Stato deve intervenire come imprenditore nell’economia), con il “sistema economico predatorio, illecito, cinico e incostituzionale del neoliberismo” (secondo il quale: la ricchezza deve essere nelle mani di pochi, tra questi ci deve essere una forte concorrenza e lo Stato non deve intervenire nell’economia).

Una molto esecranda operazione, che esaltava l’egoismo individuale (estraneo alla Costituzione) e abbatteva il principio fondamentale della “solidarietà politica, economica e sociale” del Paese.

Limitandosi alla cronaca dei fatti, si può dire che, nell’immediato secondo dopoguerra, il sistema economico italiano, grazie all’intervento dello Stato nell’economia, marciava a pieno ritmo. Il reddito nazionale cresceva e tutti erano rinfrancati dall’incremento dell’occupazione e dei consumi: l’Italia era stata addirittura fregiata di importanti riconoscimenti in campo finanziario.

Protagonista di questo successo era stato l’intervento dello Stato nell’economia, e primariamente l’attività imprenditoriale dell’Iri, il quale, nel 1980, possedeva circa mille società, con 500mila dipendenti, e ancora nel 1993 (quando era già stata decisa la sua liquidazione) era il settimo conglomerato al mondo per dimensioni, con un fatturato di circa 67 milioni di dollari.

Ed è da sottolineare che questo successo conquistato dall’Italia doveva aver suscitato, molto probabilmente, le preoccupazioni di altri Paesi occidentali.

È comunque un fatto indiscutibile che la “decadenza economica” dell’Italia sia stata realizzata dai nostri governi seguendo le idee neoliberiste propalate in tutto il mondo dal famoso libro di Milton Friedman, della Scuola economica di Chicago, dal titolo La storia della moneta degli Stati Uniti dal 1867 al 1960. L’obiettivo del neoliberismo, com’è noto, è di porre tutto sul mercato, prescindendo dal valore dell’uomo, da considerarsi solo come homo oeconomicus e talvolta come semplice merce; di abolire la solidarietà che è a fondamento dell’esistenza dei popoli; e, con questa, il “demanio costituzionale”, e cioè quel complesso di beni e servizi sui quali si fonda la “costituzione” e la “identità” dello Stato comunità. Trattandosi di beni e servizi, come precisa l’art. 42 Cost., “in proprietà pubblica” del popolo – o meglio, come affermò nel secolo scorso l’illustre amministrativista Massimo Severo Giannini – in “proprietà collettiva demaniale” del popolo stesso, e per questo un tipo di proprietà inalienabile, inusucapibile e inespropriabile.

Si tratta, principalmente; “del paesaggio, del patrimonio artistico e storico (art. 9 Cost.), dei servizi pubblici essenziali, delle fonti di energia e delle situazioni di monopolio (art. 43 Cost.).

Il primo colpo contro il sistema economico keynesiano, e, naturalmente, contro l’intervento dello Stato nell’economia, fu dato (molto probabilmente al solo fine di contrastare l’inflazione, ma fu una mossa estremamente ingenua e dannosa, come subito dopo è visto), dal Ministro Beniamino Andreatta, il quale, con una semplice lettera a Carlo Azeglio Ciampi, Governatore della banca d’Italia, in data 12 febbraio 1981 dispensò detta banca dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti. In tal modo venne meno la possibilità di pagare i nostri debiti stampando moneta e si attribuì alla Banca d’Italia piena indipendenza.

Insomma, da quel momento le necessità del popolo venivano messe in secondo piano rispetto alle richieste provenienti dal mondo economico finanziario, che miravano a ottenere leggi che favorissero la finanza senza tener conto dei bisogni della povera gente.

Il colpo mancino più duro all’intervento dello Stato nell’economia fu dato, tuttavia, dal Governo Andreotti, il quale, dopo essersi consultato con alcuni Governi Europei, con dl 5 dicembre 1991, n. 386, convertito nella legge 29 gennaio 1992, n.35, stabilì che gli enti di gestione delle partecipazioni statali e gli altri enti pubblici economici, nonché le aziende pubbliche statali, potevano essere trasformati in società per azioni.

La prima applicazione di questo principio si deve al governo Amato, il quale, dopo un mese e nove giorni dal discorso che fece Draghi il 2 giugno 1992 sul panfilo Britannia, invocando un forte impulso della politica per attuare la “privatizzazione” dei beni del popolo, emise il dl 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, trasformando in Spa le aziende di Stato Iri, Eni, Ina e Enel, che poi furono vendute, dai governi successivi e specialmente dal governo Prodi, a prezzi estremamente bassi.

Dopodiché c’è stata la privatizzazione di numerosissimi enti e aziende di Stato, che è impossibile enumerare.

Sulla convenienza di dette “privatizzazioni” si pronunciò poi la Corte dei conti il 10 febbraio 2010, rilevando “una serie di importanti criticità che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors e organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito”.

E’ inoltre da precisare che dette privatizzazioni sono avvenute secondo l’ispirazione di un preciso teorema che pone come primo elemento “l’indebitamento” di un Paese, per poi passare alla commercializzazione di questi debiti con le “cartolarizzazioni”, istituzionalizzate dal governo D’Alema, e con l’istituto dei “derivati”, definiti durante il Governo Prodi.

In tal modo si è messo a punto un obiettivo molto caro al pensiero neoliberista: quello della “finanziarizzazione dei mercati”, in modo che essi non servano più per “creare” ricchezza, ma per “trasferire” questa dagli speculatori meno accorti agli speculatori più scaltri.

Altro punto del teorema è quello, non finanziario ma economico, delle accennate “privatizzazioni”, cioè della trasformazione dell’ente o dell’azienda pubblica in Spa, con l’incredibile conseguenza che il “patrimonio pubblico” di tutti i cittadini, gestito per l’appunto da enti o aziende pubbliche, diventasse “patrimonio privato” dei singoli soci della Spa. A dette privatizzazioni sono poi da aggiungere le “liberalizzazioni”, e, quindi, le “delocalizzazioni” e le “svendite”. In tal modo il popolo è spogliato completamente del suo “demanio costituzionale” e si avvia, inconsapevolmente e nella indifferenza di tutti, verso il traguardo finale del default.

E si può dire, purtroppo, che da cinque anni a questa parte nulla è cambiato. Infatti il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato il cosiddetto Trattato del Quirinale, che a mio parere in pratica istituzionalizza la superiorità economica della Francia rispetto all’Italia, senza che neppure una Commissione parlamentare abbia potuto valutarlo;, e peraltro in pompa magna, dimostrando con i fatti la superiorità dell’Esecutivo rispetto al potere legislativo.

Ciononostante egli è osannato dai partiti e ha ora l’ardire di proporre al Parlamento un disegno di legge che esalta la “concorrenza” fino al punto di imporre ai Comuni l’onere di specificare i motivi per i quali esso abbia preferito una gestione in proprio, anziché ricorrere alle concessioni di carattere privatistico, imponendo inoltre di porre a gara sul mercato europeo e internazionale persino il servizio dei taxi e quello delle spiagge, sempre ignorando, e mai nominando, la nostra Costituzione.

Ma è proprio la Costituzione la nostra forza. E dobbiamo farla valere, non solo contro Matteo Renzi, com’è stato con il referendum del 2016, ma anche nei confronti di altri governi, come l’attuale, che insistono a ritenere il sistema economico neoliberista un dato di natura, mentre i fatti dimostrerebbero che si tratta semplicemente di un cinico disegno studiato a tavolino per togliere ricchezza al popolo, proprietario del “demanio costituzionale”, e donarla alla finanza e alle multinazionali. Cancellando così millenni di civiltà e riconducendo tutti a uno stato di soggezione, se non di schiavitù.

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Infrastrutture, Salini vince la partita Astaldi e si prepara a fare il pieno dei fondi in arrivo grazie al Pnrr

Pietro Salini chiude la partita Astaldi e si prepara a fare la parte del leone nella conquista dei fondi per le infrastrutture del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Forte anche del supporto di Cassa depositi e prestiti, ormai socio della sua Webuild, nonché alleato fondamentale nell’acquisizione della rivale Astaldi. Il gigante delle grandi opere infrastrutturali Webuild è infatti riuscito a spuntarla nel braccio di ferro con gli obbligazionisti Astaldi, società che aveva integrato ad agosto. Anche a dispetto del ricorso all’epoca ancora pendente. Solo ora infatti la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili le ragioni dei quattro ricorsi straordinari contro il provvedimento di omologa del concordato.

Sono state così respinte le istanze di un gruppo di circa 279 obbligazionisti Astaldi che si sono visti stralciare più del 60% del loro credito. In questo modo si è completata l’operazione che ha “permesso la nascita di un grande player delle infrastrutture italiano, sintesi di Progetto Italia, il progetto industriale che ha garantito il consolidamento dell’intero settore delle costruzioni domestico. Un consolidamento che può così oggi contribuire alla crescita economica del Paese e alla realizzazione delle opere previste dal Pnrr e dai piani di ripresa collegati” , come ha spiegato Webuild in una nota.

L’occasione di crescita per il gruppo di Salini è venuta del resto proprio dalla crisi che ha messo in difficoltà cinque fra le prime società di costruzioni italiane (Astaldi, Condotte, CMC, Grandi Lavori Fincosit e Trevi). Di qui l’idea di Progetto Italia come polo aggregatore nel settore della realizzazione delle grandi opere pubbliche. Un piano che ha portato Cassa Depositi e Prestiti a diventare socio di Webuild con il 18,68%, attestandosi come secondo azionista, dopo Pietro Salini che ha in mano più del 45% del capitale. Il tutto con il sostegno delle banche creditrici: Unicredit, Bpm e Intesa Sanpaolo, oggi anche soci di Webuild. Ma andiamo per gradi.

Sin dall’inizio la proposta di concordato ha incontrato l’opposizione di un gruppo di obbligazionisti. La ragione? Secondo le loro stime, i creditori ci avrebbero rimesso 2,9 miliardi di cui 907 solo i bondholder. Salini, invece, avrebbe guadagnato un miliardo e persino la famiglia Astaldi avrebbe ottenuto una plusvalenza da 130 milioni. Di qui la battaglia legale che si è appena conclusa a favore di Salini. Non solo: nel pieno dello scontro è anche emerso come nella procedura di concordato di Astaldi ci fossero quasi 68 milioni di euro di spese in circa un anno di lavoro. Con compensi record per i tre commissari (Stefano Ambrosini, Vincenzo Ioffredi e Francesco Rocchi). E’ scattata poi anche un’ indagine della Procura di Roma per corruzione in atti giudiziari per i due commissari di Astaldi, Ambrosini e Rocchi, oltre che per il consigliere Corrado Gatti, che era firmatario dell’attestazione del piano concordatario di Astaldi, in conflitto di interessi e in contrasto con la legge fallimentare.

Nonostante il clima ostile, Salini è riuscito a chiudere la partita a suo vantaggio. E ora è pronto a cavalcare nuove opportunità: nel Piano nazionale di ripresa e resilienza è previsto un investimento da 25,4 miliardi per infrastrutture destinate ad una mobilità sostenibile. Il fiume di denaro pubblico che si riverserà sulle infrastrutture è però decisamente più importante: secondo le stime dell’Ance, complessivamente “queste risorse, unite ai fondi ordinari stanziati nel bilancio dello Stato, ammontano a circa 420 miliardi di euro, nei prossimi 15 anni, di cui 180 miliardi (43%) destinati alla realizzazione di interventi di interesse per il settore delle costruzioni – precisa una nota dell’Associazione nazionale costruttori edili dello scorso 30 settembre.

Una grande opportunità per realizzare finalmente un grande piano di investimenti su tutto il territorio nazionale e, in particolare, nel Mezzogiorno dove è concentrata una quota significativa delle risorse di interesse per il settore che andranno a finanziare gli investimenti pubblici necessari al recupero”. Manna dal cielo per il comparto e per Webuild che ha chiuso il 2020 con una perdita da 351 milioni su 6,4 miliardi di fatturato. La Borsa ne ha preso atto: in un anno il titolo ha quasi raddoppiato il suo valore (+86 per cento). Una buona notizia anche per Cassa depositi e prestiti che ha visto migliorare le quotazioni del suo investimento azionario. Gli unici a non farsene una ragione restano gli obbligazionisti di Astaldi ancora perplessi su un’operazione per la quale hanno pagato il prezzo più alto.

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Pensioni e legge di Bilancio, la conferenza stampa di Draghi col ministro dell’Economia Franco: la diretta

Al termine del Consiglio dei ministri, è prevista la conferenza stampa a Palazzo Chigi del presidente del Consiglio, Mario Draghi, insieme al ministro dell’Economia, Daniele Franco. Tra i temi, la legge di Bilancio, le pensioni e il reddito di cittadinanza.

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Elezioni 2021, Draghi: “Non credo che il risultato abbia indebolito il governo, ma non so neanche se sia rafforzato”

“Lei mi pone tante domande a cui non so dare risposte. Non credo che il risultato delle elezioni abbia indebolito il governo, ma non so neppure se si sia rafforzato“, così il premier Mario Draghi in conferenza stampa commentando i risultati delle comunali e del loro effetto sull’esecutivo. “È molto complicato – ha continuato – Ho letto e visto gli articoli di oggi, e devo capire la logica di questo. Ma comunque non credo che il governo si sia indebolito”.

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Continua la battaglia di Renzi e soci contro il Reddito di cittadinanza. Ecco perché le argomentazioni contrastano con la realtà

Senza timori di contestazioni almeno un merito il reddito di cittadinanza (Rdc) lo ha avuto: mettere a nudo le tare ataviche del sistema socio-economico del paese. E dunque povertà diffusa, retribuzioni compresse ai limiti della sussistenza, diffusi inganni ai danni di fisco e collettività, bassa scolarizzazione, inesistenza di strutture per favorire l’impiego e politiche attive del lavoro. Pensare che una volta introdotta la misura portasse magicamente con sé il superamento di tutti questi problemi è una lettura della realtà grossolana. Eppure, senza dubbio, qualcosa si è (s)mosso e, da qui, derivano le reazioni indispettite di soggetti politici come Italia Viva o, in modo più defilato, la Lega. Le parole di Mario Draghi (“uno strumento di cui condivido appieno i principi”) non hanno fermato la crociata. Il tema animerà lo scontro politico autunnale. Nel frattempo i quotidiani sono vivacizzati, si fa per dire, dalle baruffe renziane sul tema. Il leader di Italia Viva se la prende con la sociologa Chiara Saraceno, messa da Draghi alla guida della commissione per riformare il Rdc, “rea” di aver rinfacciato a Matteo Renzi una visione moraleggiante della gioventù italiana che preferisce “stare sdraiata sul divano” a prendere i sussidi invece che “soffrire, rischiare, provare”.

Intanto il gruppo guidato da Saraceno ragiona sui possibili correttivi alla misura da cui, forse, una parte del governo spera anche di attingere risorse per finanziare la riforma delle politiche attive del lavoro. A dire il vero le risorse assorbite dal reddito di cittadinanza non sono tali da cambiare i destini delle nostre finanze pubbliche. Si parla di meno di 10 miliardi di euro l’anno, quando solo per gli interessi sul nostro debito pubblico paghiamo, quando va bene, cinque volte tanto. Solo nel 2020 le imprese hanno ricevuto sussidi, in varia forma, per una quarantina di miliardi. Quelli del Rdc sono soldi spesi per cercare di trascinare fuori dalla povertà più nera milioni di persone. Denari che, almeno in una certa misura, ritornano in circolo nell’economia. Accrescono il potere di acquisto dei beneficiari che dunque consumano un po’ di più, riportando parte delle somme al Tesoro sotto forma di gettito Iva, accise e profitti aziendale. Stando agli ultimi dati Inps, i percettori sono 3,7 milioni ma, secondo la Caritas, il 56% delle famiglie povere non riceve il reddito a causa degli imperfetti criteri che presiedono all’erogazione.

Il Reddito di cittadinanza nasce con un peccato originale che è quello di unire una missione di contrasto all’indigenza a quella della re-immissione nel mercato del lavoro dei percettori. I numeri di questa seconda operazione non sono incoraggianti. E tuttavia sorprenderebbe il contrario, vista la cronica deficienza in Italia di politiche attive e di efficienti centri per l’impiego e la grave insufficienza di personale deputato a questo scopo. L’organico di chi dovrebbe accompagnare le persone verso un nuovo impiego è pari ad un quinto di quello tedesco. Soprattutto, come evidenzia la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra nella sua replica a Renzi, i due terzi dei percettori di Rdc sono individui particolarmente difficili da collocare sul mercato del lavoro, con basso titolo di studio, spesso la 5a elementare, e che sono da tempo lontani dal mondo del lavoro, in media da due anni. Il tutto in un periodo in cui l’occupazione complessiva è scesa dello 0,9%.

Alla luce dei dati Caritas, ma non solo, è opportuno correggere alcuni criteri di erogazione, non necessariamente in senso restrittivo. Senza dimenticare che parte della distorsione nelle assegnazioni deriva anche dalle fallaci dichiarazioni di lavoratori autonomi. Solito vecchio problema italiano dove sono tradizione gioiellieri o titolari di stabilimenti balneari (per citare due delle categorie che regolarmente occupano al fondo delle classifiche Mef sulle dichiarazioni dei redditi, ben al di sotto dei pensionati) beneficiati da agevolazioni che non spettano invece ad un operaio neo assunto. Quello che potrebbe cambiare è il requisito dei 10 anni di residenza chiesto agli extracomunitari per ricevere reddito. In fondo la misura fu varata con la Lega al governo ma questo, come facilmente intuibile, taglia fuori buona parte delle famiglie più in difficoltà.

Si sta mettendo mano a parametri che tarino meglio l’assegno in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Si valutano differenziazioni a livello geografico tenendo conto del costo della vita differente, ad esempio tra grandi centri urbani del Nord e aree rurali del Mezzogiorno. Ammesso che le differenze del costo della vita siano sempre così marcate, assunto che alcuni studi mettono in dubbio. Così come si lavora a potenziare i controlli sui percettori e a introdurre più condizionalità, come la partecipazione a corsi di formazione, per ricevere l’assegno. Misure queste, che potrebbero ridurre la platea dei beneficiari.

Il 30% dei percettori del reddito ha meno di 20 anni. È insomma il bacino da cui si attingono a piene mani molti datori di lavoro per proporre contratti con retribuzioni ben al di sotto della soglia minima di sopravvivenza e con condizioni lavorative capestro. L’esistenza del Rdc offre a questi giovani la possibilità di dire “no”, quanto meno alle offerte di lavoro più scandalose. Questo è l’aspetto che più disturba una parte della classe imprenditoriale, i cui malumori sono recepiti dalle forze politiche che vorrebbero eliminare la misura. Altre considerazioni sui presunti effetti nefasti della misura trovano il tempo che trovano mentre quello che non trovano sono riscontri reali. Da decenni l’Alaska corrisponde ai suoi abitanti una quota degli incassi che derivano dallo sfruttamento dei suoi giacimenti di petrolio. Non è mai stato rilevato un “effetto divano” sull’occupazione o sul desiderio di avere un lavoro. Stesse risultanze arrivano da un più limitato studio condotto in Toscana dopo il varo della misura italiana.

Pensarla diversamente significa ignorare la differenza tra sopravvivere (l’assegno medio percepito dai beneficiari del rdc è di 586 euro) e avere un tenore di vita soddisfacente. Significa dimenticare qualsiasi altro elemento, sociale, culturale, di autostima e realizzazione personale che spinge una persona a trovare e mantenere un’occupazione. C’è una frase nella replica della sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra che annichilisce la retorica di Italia Viva: “Si può essere poveri anche senza essere pigri”. Non c’è nessun effetto nefasto sull’economia riconducibile a misure universali di sostegno al reddito. E basterebbe alzare lo sguardo dal proprio ombelico per accorgersene. La Gran Bretagna ha introdotto un limite minimo nelle retribuzioni guardando più alla competitività del paese che al benessere dei lavoratori. Il ragionamento è semplice: se le imprese non possono competere comprimendo il costo del lavoro, sono obbligate ad investire, migliorare la qualità dei loro prodotti o spostarsi verso prodizioni più “pregiate”. O, più semplicemente, ribilanciare la quota di ricavi distribuita tra lavoratori e proprietari a favore dei dipendenti dopo che da 40 anni aumenta quella a favore dei secondi. Non è un caso che siano molti gli economisti che difendono il reddito universale di base proprio come uno strumento per forzare un paese a migliorare le proprie performances competitive.

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‘Ove mai’ San Mario si stufasse dei partiti, certi giornalisti sanno già chi attaccare

di Pietro Francesco Maria De Sarlo

A quanto riferiscono alcuni giornali, San Mario inizia a rompersi dei partiti. Se non ci fosse da piangere la situazione sarebbe comica, giacché ci si dimentica che il parlamento attuale è frutto delle elezioni del 2018, che furono vinte dal M5S su precisi impegni in tema di giustizia, ambiente, anticorruzione, pensioni…

I primi a dimenticarlo sono giornalisti dell’ “ove mai”, ossia quelli che fanno ragionamenti bislacchi del tipo “ove mai fosse vero che…”. Insomma quelli che quando la realtà non aiuta sostituiscono la finezza intellettuale e propagandistica con ragionamenti tipo “se mio nonno avesse avuto le palle, sarebbe stato un flipper”.

Il risultato elettorale nacque dalla insofferenza verso un ceto dirigente e politico che aveva portato il Paese sull’orlo del baratro. “Ove mai” qualcuno non lo ricordasse è lo stesso San Mario a rinfrescarci la memoria in una delle ultime uscite alla Camera: “Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7”.

Ovviamente si tratta del Mario Draghi che prima di diventare presidente del Consiglio faceva il commesso alla Standa e non di quel Mario Draghi corresponsabile di questi disastri e di cui, per fortuna, non si sente più parlare e che da dg del ministero del Tesoro scrisse i contratti per la svendita del patrimonio pubblico ai privati e comperò titoli tossici da Goldman Sachs. Che da Governatore della Banca D’Italia autorizzò l’acquisto di Antonveneta da parte di Mps. Che da neo Governatore della Bce scrisse una lettera, insieme a Trichet, con i compiti assegnati al governo Berlusconi, poi caduto per dare spazio a Monti, e che da governatore della Bce mise, inutilmente visti i risultati, in ginocchio la Grecia.

Insomma “ove mai” qualcuno non lo avesse ancora capito, proprio quei ceti che non avevano mai digerito il risultato elettorale del 2018 il giorno dopo le elezioni iniziarono a bombardare il governo con critiche vere o pretestuose. “Ove mai” qualcuno avesse memoria corta basta ricordare la polemica sul Mes, di cui si sono perse le tracce. “Ove mai” cadesse Draghi siatene pur certi che riciccia, come la gramigna.

E devo dire che mi spiace che San Mario, con tutto quel popò di roba stampigliata sul cv, faccia lo stesso errore del M5S quando afferma di non essere di destra o di sinistra. San Mario ritiene che l’interesse del Paese sia uno solo e raggiungibile in un unico modo: il suo! Che ci sia in sostanza una unica ricetta salvifica, come se fosse un vaccino, e che soddisfaccia in una botta sola tutti gli interessi di parte. Ma le cose non stanno così. I partiti, lo dice il nome stesso, nascono proprio per difendere gli interessi di una parte e la politica serve a conciliare gli interessi di tutti cercando di massimizzare l’interesse collettivo. Lo abbiamo visto sulla giustizia, sull’ambiente, e quando si metterà mano al fisco lo vedremo anche su quello.

Privilegiare le imposte dirette rispetto alle indirette indica favorire o meno alcuni gruppi sociali. Così come pure la funzione della spesa pubblica nello sviluppo scatena sempre infinite discussioni e la ripartizione del Pnrr tra le regioni implica accortezza e riflessioni che attengono persino alla tenuta dello Stato unitario. Tutto questo è la politica, di cui c’è infinito bisogno perché la politica è un esercizio nobile che richiede infinita pazienza, visione e capacità di mediazione.

Ma “ove mai” Draghi cadesse o si dimettesse, i giornalisti dell’ “ove mai” darebbero la colpa ovviamente alla politica e ai partiti e non all’aberrazione concettuale in una democrazia compiuta di un governo tecnico che, per definizione, non potrà mai essere in grado di salvare capre e cavoli, specialmente se si concentra sulle capre.

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Franco: “Patrimoniale? Non è sul tavolo, esistono già forme di tassazione in linea con la media europea”

In Italia “abbiamo già forme di tassazione patrimoniale, le imposte sulla proprietà rappresentano il 2,4% del pil che è pari alla media europea. Quindi già di fatto ci sono e non è sul tavolo introdurre forme di tassazione patrimoniale nuove“. Lo afferma il ministro dell’Economia, Daniele Franco, nel corso dell’audizione sulle tematiche relative alla riforma fiscale che nelle commissioni Finanze di Senato e Camera.

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