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La guerra in Siria è il simbolo dell’autolesionismo occidentale

di Roberto Iannuzzi*

Mentre il Covid-19 ha cancellato dall’orizzonte mediatico ogni altra emergenza globale, le tensioni geopolitiche continuano a rappresentare un elemento chiave per comprendere l’evoluzione del mondo attuale. Molte di esse traggono origine da eventi passati, spesso mal conosciuti se non addirittura dimenticati. Fra questi spicca il conflitto siriano, il cui decennale cade proprio in questi giorni.

Il 15 marzo 2011, alcuni manifestanti scesero in piazza nella città vecchia di Damasco. Tre giorni dopo, le forze di sicurezza siriane uccisero cinque dimostranti nella città meridionale di Deraa, dove le proteste erano scoppiate da due settimane. Era l’inizio di una rivolta rapidamente sfociata in un sanguinoso conflitto che avrebbe destabilizzato l’intero Medio Oriente, generando gravi tensioni fra le grandi potenze, Usa e Russia in primis.

Un mese più tardi, il governo di emergenza nominato dal presidente siriano Bashar al-Assad estrometteva Abdallah Dardari, vice primo ministro incaricato degli affari economici, che più di altri aveva rappresentato il volto della transizione del paese da uno statalismo di stampo socialista ad un’economia di mercato neoliberista. Avendo avviato questa transizione nei primi anni del nuovo millennio, la Siria era l’ultima arrivata fra i paesi arabi (l’Egitto aveva aperto la strada già negli anni ’70 del secolo scorso, seguito due decenni più tardi da paesi come Giordania, Tunisia e Marocco, che avrebbero applicato i programmi di riforma strutturale del Fondo Monetario Internazionale).

La svolta economica di Assad, succeduto al padre nel 2000, era stata apprezzata in Occidente. I paesi europei guardavano con interesse alle “opportunità economiche” che si aprivano nel paese levantino. Ma il processo di liberalizzazione e privatizzazione in un contesto autoritario aveva portato, in Siria come altrove nel mondo arabo, a un accentramento delle risorse nelle mani di pochi e ad uno smantellamento dello stato sociale, creando masse di diseredati, delegittimando i regimi al potere, e accrescendo un malcontento che sarebbe sfociato nelle rivolte arabe del 2011.

Tunisia ed Egitto avevano già assistito al rovesciamento dei loro dittatori, quando il marzo di quell’anno segnò una tragica svolta nell’evoluzione delle rivolte, molte delle quali – in Bahrein, Libia, Siria e Yemen – degenerarono in una violenza alimentata da ingerenze straniere, e spesso in veri e propri conflitti armati. Fra i paesi arabi investiti dalle sollevazioni popolari, la Siria era l’unico appartenente al cosiddetto “asse della resistenza” guidato dall’Iran, che si opponeva all’egemonia americana e israeliana nella regione, così come ai cosiddetti paesi arabi “moderati”, quali Egitto, Giordania e Arabia Saudita (essi stessi guidati da regimi autoritari allineati però con l’Occidente).

La rivolta siriana offriva dunque agli Usa un’opportunità per rovesciare un regime considerato ostile ed infliggere un durissimo colpo al suo alleato iraniano, già all’epoca sotto assedio americano perché accusato di portare avanti un programma nucleare militare. Se in Libia Washington era intervenuta contro Gheddafi insieme a Londra e Parigi (ex potenze coloniali nella regione) mobilitando la Nato a sostegno degli insorti locali, in Siria l’amministrazione Obama allora in carica optò per un intervento indiretto. Essa inviò finanziamenti, equipaggiamento ed armi a sostegno dei ribelli siriani, in collaborazione con Gran Bretagna, Francia e potenze regionali come Turchia, Qatar e Arabia Saudita.

Il risultato fu disastroso. Soldi ed armi finirono nelle mani dei gruppi più intransigenti che, insieme alla repressione operata dal regime, schiacciarono i pochi attivisti democratici che la rivolta siriana aveva espresso. La sollevazione degenerò in un conflitto armato di dimensioni regionali, nel quale Russia, Iran e il partito sciita libanese Hezbollah accorsero a sostenere finanziariamente e militarmente il regime di Damasco. Le tensioni fra Mosca e Washington salirono alle stelle, alimentando una nuova contrapposizione fra le due superpotenze prima ancora che scoppiasse la crisi ucraina fra il 2013 e il 2014.

Il continuo afflusso di armi e l’ascesa dei gruppi jihadisti, sostenuti da Riyadh, Doha e Ankara con la piena consapevolezza di Washington, posero le premesse per la nascita dell’Isis di Abu Bakr al-Baghdadi. Nel 2014 egli creò il cosiddetto Stato Islamico, un emirato jihadista a cavallo fra Siria e Iraq, i cui affiliati avrebbero insanguinato l’Europa con i loro attentati negli anni successivi. Alla fine del 2015, Mosca avrebbe optato per un intervento militare diretto a sostegno di Assad rovesciando definitivamente le sorti del conflitto.

Ma a dieci anni dalla scintilla del marzo 2011, la Siria rimane un paese distrutto e senza pace. Le operazioni belliche sono congelate, ma sempre sul punto di riesplodere. Il territorio siriano è tuttora teatro di regolamenti di conti internazionali, in particolare fra Usa e Israele da un lato e l’Iran dall’altro. Più di metà della popolazione è sfollata o ha ingrossato le file dei profughi che hanno abbandonato il paese, aggravando l’emergenza migratoria nel Mediterraneo. Le sanzioni americane ed europee continuano a strozzare l’economia del paese. Il disastro siriano rimane un tragico simbolo dell’avventatezza e dell’autolesionismo occidentale dell’ultimo decennio.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
@riannuzziGPC

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Siria, dieci anni di guerra – Wafa, Layla, Dima: così tre donne continuano a fare la rivoluzione giorno dopo giorno





Nei dieci anni della tragedia siriana, dove all’ondata di manifestazioni pacifiche contro il regime di Bashar al Assad del 2011 si è presto affiancata una sanguinosa guerra civile, le donne hanno giocato un ruolo molto importante, pur rimanendo spesso ai margini del proscenio mediatico. Quelle di Wafa, Layla e Dima sono solo alcune delle tante storie inedite di donne siriane che oggi, a dieci anni di distanza da quelle sollevazioni di piazza, restano ancora profondamente attaccate al senso di quelle proteste o, perlomeno, alla necessità di andare avanti e rendere il mondo migliore.

Wafa Mustafa – Era lì mentre il vento della protesta iniziava a soffiare sulla Siria nei primi mesi del 2011. Oggi che vive e lavora come giornalista e attivista in Germania, di quei giorni ricorda le primissime manifestazioni, nate come movimento di solidarietà verso gli altri paesi arabi in rivolta: la Tunisia, che aveva deposto Zeine el Abiddin Ben Ali, l’Egitto di Hosni Mubarak e anche la Libia di Muammar Gheddafi. «Ero andata a manifestare davanti all’ambasciata libica», racconta a Ilfattoquotidiano.it. «Sostenevamo la rivoluzione in Libia, ma in fondo tutti sapevano perché eravamo lì. La gente iniziò a cantare “solo un traditore uccide la sua stessa gente” e allora fu chiaro che la rivoluzione stava arrivando anche da noi. Avevo dieci anni e con me c’era anche mio padre», prosegue Wafa. Il padre, arrestato dal regime siriano più di sette anni fa, risulta tuttora scomparso e Wafa non ha sue notizie da allora. Non smette, però, di cercare la verità sulla sorte del genitore, partecipando alle campagne a sostegno di tutti i desaparecidos siriani, inghiottiti dalle carceri del regime.

Da buona giornalista, ancora oggi è convinta che una parte essenziale della rivoluzione sia stata la nascita di una nuova generazione di mediattivisti e reporter indipendenti. «Dieci anni fa – racconta Wafa – eravamo entusiasti all’idea che potessero esistere media indipendenti in grado di mettere il regime di fronte alle sue responsabilità, senza il timore di detenzioni e torture. La rivoluzione ha reso quel sogno possibile, per la prima volta». Ciononostante «quasi immediatamente è iniziata la repressione e molti mediattivisti sono stati arrestati», prosegue la giovane giornalista. «Questo però non ha impedito a tanti uomini e donne coraggiosi di denunciare i crimini di guerra e di raccontare al mondo cosa stava succedendo. Abbiamo pensato che se solo il mondo avesse saputo, avrebbero agito. I giornalisti siriani continuano ad operare nord-ovest della Siria, stretti però tra l’incudine di gruppi estremisti e le forze del regime», conclude la reporter.

Layla Hasso – Tra coloro che ancora oggi in Siria si adoperano per resistere, nonostante la guerra e l’estremismo, c’è Layla Hasso, Advocacy Manager di Hurras Network, una rete indipendente per la protezione dei diritti dell’infanzia. «Non potevo sopportare l’idea che un bambino perdesse la madre o il padre solo perché quest’ultimo chiedeva la libertà», racconta Layla, ricordando i primi mesi della rivolta contro Assad. «Non potevo resistere al pensiero che ci fossero bambini a cui viene negato il sostegno necessario», prosegue. «Hurras – spiega ancora Layla – nasce per fornire protezione urgente ai bambini in Siria, poiché i minori sono le persone più colpite dalla guerra. La nostra rete è diventata la voce più forte nel sostenere la protezione dei bambini dall’orribile impatto del conflitto e nel fornire loro supporto urgente. Con il nostro lavoro sosteniamo scuole, insegnanti e famiglie, per garantire che i bambini abbiano accesso all’istruzione sostegno psicologico nei casi, frequenti, di minori traumatizzati».

Dima Ghanoum – Anche Dima trova nel diritto all’istruzione la sua missione. Lo scoppio della rivoluzione nel 2011, anno in cui si è laureata, per lei ha significato innanzitutto la possibilità di creare un sistema educativo più equo e libero. Oggi lavora come dirigente scolastico in un istituto di Daret Izza, nella zona rurale a nord di Aleppo. Di sé stessa dice: «Il mio sogno è quello di aiutare i bambini a rimanere a scuola, ma è molto dura a causa dei bombardamenti e degli spostamenti forzati. Sogno una Siria libera, in grado di fornire un’istruzione migliore per tutti». Secondo un recente rapporto di Save The Children, in Siria almeno 2 milioni di bambini sono tagliati fuori dalla scuola e altri 1,3 milioni rischiano di perdere il diritto all’istruzione. Molti di loro, considerata l’età scolare, non hanno idea di cosa sia un mondo senza guerra.

Se le si chiede quali sono le maggiori difficoltà nel suo lavoro, Dima risponde: «La mancanza di sicurezza, lo sfollamento forzato delle famiglie e il bombardamento continuo, compreso quello delle scuole, rendono impossibile garantire ai bambini un’istruzione adeguata. Quando ci sono i bombardamenti, le famiglie smettono di mandare i figli a scuola per paura che vengano colpiti, quando i bambini perdono uno o entrambi i genitori, abbandonano la scuola per cercare lavoro».

Wafa, Layla, Dima. Tre donne tra le tante che in Siria hanno vissuto e combattuto nel corso di dieci lunghi anni di guerra. Un conflitto, quello siriano, costato la vita a mezzo milione di persone (con stime ferme al 2014) e lo spostamento forzato di metà della popolazione (tra rifugiati all’estero e sfollati interni). In una guerra sporca, dove interessi di attori regionali e globali si aggrovigliano in una matassa spesso difficile da districare, loro hanno cercato di rimboccarsi le maniche e di andare avanti nel tentare di migliorare le cose partendo dal quotidiano. Con l’attivismo, il giornalismo e con l’istruzione.

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Coronavirus, quando torneremo alla nostra vita normale ricordiamoci di chi non lo può fare

Ormai esiste solo una notizia e si chiama coronavirus. Come nei film di fantascienza il mondo occidentale si sgretola, crollano tutte le certezze dell’era del benessere infinito, della salita inarrestabile degli indici, delle vacanze perenni, delle navi da crociera-grattacieli e del consumo vorace di tutto, dai social media alle series di Netflix, dal cibo gourmet ai selfie davanti alle opere d’arte.

E’ bastato un microscopico virus a porre fine alla baldoria del secolo. Solo negli Stati Uniti si continua a ballare sul Titanic che affonda. Qui nella terra dell’impero trumpista ancora si pensa di essere nel 2019, quando all’orizzonte c’era il simbolo del dollaro più luminoso anche del sole. Ma presto anche questa spensieratezza svanirà.

Forse è arrivato il momento di fare una riflessione esistenziale, ed è bene che la facciano per primi gli italiani, chiusi in casa come animali feriti nella loro tana. Non siamo noi i primi in questa era di infinite possibilità ad assistere alla distruzione delle certezze ad essere travolti da un nemico micidiale.

Prima di noi è successo agli afghani, ai siriani, a chi ha avuto la sfortuna di nascere in Somalia, nell’Africa occidentale e in quella orientale, a chi è stato rapito dai jihadisti, dai trafficanti di droga dell’America centrale, a tutti coloro che hanno bussato incessantemente alla nostra porta e che abbiamo trattato come una notizia. Se è vero che oggi, davanti al coronavirus, tutti sono italiani, è anche vero che ieri tutti dovevano essere profughi, immigrati illegali e migranti economici.

La pandemia è il prodotto della globalizzazione, su questo nessuno può muovere alcuna obiezione. Il virus si muove con una rapidità agghiacciante perché noi tutti ci muoviamo incessantemente e lo portiamo con noi. E’ uno stile di vita che il pianeta non ha mai avuto e questo è il momento per capire che è innaturale.

Poiché viviamo nel villaggio globale la pandemia ha colto i nuclei familiari in posti diversi impedendo loro di ricongiungersi. Figli, genitori, nonni chiusi in casa in città ormai scollegate, in nazioni senza più contatti. Quando li rivedremo? E li rivedremo?

Ma anche i profughi siriani, gli immigrati illegali, i migranti economici sono vittime della globalizzazione. Il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno lasciato immense regioni del mondo in balia dei signori della guerra, dei jihadisti, dei trafficanti di droga, ha fatto piombare nazioni come la Somalia nell’anarchia perenne. Chi viveva in queste regioni è diventato vittima di un virus molto più micidiale, che dopo trent’anni continua a mietere vittime. Anche costoro sono lontani dai loro cari, spesso non sanno neppure dove siano o se sono ancora vivi.

Non è così che l’homo sapiens ha conquistato il pianeta. Lo ha fatto potenziando la famiglia estesa, il gruppo, la tribù, la specie.

Poco tempo fa ho riletto il Dottor Zivago, in quel libro c’è la descrizione magistrale del lungo viaggio in treno nella Russia congelata della famiglia di Zivago verso un luogo caro e amato, dove nascondersi e attendere che il peggio passi. Allora si scappava dai Bolscevichi e dal tifo che decimava la popolazione. Le epidemie politiche e sanitarie ci sono sempre state e sono sempre state vinte dalla coesione, dalla generosità, dall’altruismo. Anche quelle che stiamo vivendo possono essere vinte con gli stessi strumenti.

Quando si riapriranno le nostre porte e torneremo a vivere una vita normale non dimentichiamoci di chi questo non lo può fare. Debellare il coronavirus per riprendere la corsa pazza verso il benessere individuale, per celebrare l’ascesa degli indici di borsa, per riabbracciare con entusiasmo l’economia canaglia getterà le basi di un’altra epidemia, e la prossima volta non è detto che non sia l’ultima.

Che la riflessione esistenziale di noi italiani, 60 milioni di persone in prima fila nelle trincee della pandemia, ci porti a salvare il pianeta dall’estinzione dei ghiacciai, che fermi l’impazzimento del clima, che porti la pace, la stabilità e la speranza nelle regioni destabilizzate, che ci faccia tornare ad essere ciò che siamo stati all’inizio della conquista del mondo, un specie cosciente, intelligente, sensibile, superiore, una specie che sa gestire la tremenda responsabilità di guidare questo meraviglioso pianeta.

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