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Lavorare meno ma meglio aumenta benessere e produttività: le otto ore sono un’illusione

Nel mio ultimo post sono partito dal concetto di società della stanchezza (del filosofo Byung- Chul Han) e sulla nostra interiorizzazione crescente della ‘iper-performance’ come valore fondante. Nel libro Up! La vita è una sola avevo già mostrato in modo approfondito la crescente ‘insostenibile pesantezza dell’essere’ con l’aumento incontrollato di ansia e depressione in tutte le fasce della popolazione, quantificandone anche i costi sociali, sanitari, di perdita di produttività.

Lo smart working è la soluzione? Il fatto che aumenti la produttività del 15-20% (rilevazione aprile 2020, Osservatorio smart working del PoliMi) può essere buono in una logica di iper-performance, ma può essere non buono per il benessere delle persone al lavoro. Questo ‘plusvalore’ produttivo inatteso vogliamo incamerarlo in modo capitalistico o tradurlo – almeno in parte – in valore per le persone, ad esempio in riduzione dell’orario?

Perché oggi sono anche chiari gli effetti nefasti dell’home working iperconnesso, in cui gli scambi (Whatsapp, Skype, Teams etc.) a volte si protraggono fino alla mezzanotte del sabato, sia nel profit che – più grave – nel non profit. Lo dice bene Ricarda Zezza in un articolo su Il Sole24 Ore del 20 novembre 2020, Agende piene di impegni: dove è finito il tempo per pensare?: “Ci tirano per il collo dentro a un susseguirsi demoniaco di impegni. E’ il nuovo presenzialismo, è l’apoteosi dell’ always on che aveva cominciato a fare capolino con la posta elettronica sui telefonini. I nostri nuovi calendari tutti digitali fanno peggio: ci fanno vedere gli spazi liberi come tempo perso”. Forse sarà smart, ma di certo poco fair e per niente healthy!

Per questo preferisco usare l’espressione Fair working (su ispirazione dei concetti di equità, giustizia e riappropriazione del valore del Fair Trade). E allora, perché non ragionare su ipotesi di efficace e produttiva riduzione dell’orario di lavoro, a partire dalle numerose ricerche ed esperienze concrete disponibili?

Sempre più su basi scientifiche viene mostrata la insostenibilità delle 40 ore, di concentrarsi davvero in modo ottimale per tutte le otto ore di lavoro – spesso frammentate da pause, visite sui social, distrazioni inevitabili. Un breve divertente excursus divulgativo lo trovate nel video Science Finally Says We Should Never Work 40 Hours A Week – researches. Otto ore di lavoro pieno e produttivo sono una illusione, al di la delle ricerche, anche nel buon senso manageriale.

Lavorare di più aumenta la produttività? Secondo i dati Istat, in Italia si lavora 33 ore a settimana, 3 di più rispetto alla media europea, 4 rispetto alla Francia e 7 rispetto alla Germania. Tuttavia la nostra produttività è la penultima in Europa; peggio di noi, al solito, solo la Grecia.

Una ricerca italiana di Domenico De Masi (autore del recente Smart Working-La rivoluzione del lavoro intelligente) pienamente in linea con questo quadro, commissionata da Mercedes Italia, mostra come i manager tedeschi della casa automobilistica abbiano un carico di obiettivi superiore del 30% ai manager italiani, ma lavorino il 30% in meno di questi raggiungendo il 30% di obiettivi in più. “I manager italiani odiano la famiglia?” si chiede De Masi con il suo ineguagliabile umorismo. Di certo un problema di cultura, quella italiana più centrata sulle ore, quella tedesca e anglosassone più sugli obiettivi. I risultati mi sembrano evidenti: più ore non vuol dire più produttività.

Si pu0 lavorare meno e aumentare la produttività? La Ducati (Gruppo Audi), già dal 2014 dopo un referendum vinto con il 75% dei sì e in accordo con i sindacati, impegna i lavoratori per circa 30 ore settimanali pagate 40, compresi turni nel weekend, con livelli di saturazione degli impianti quasi totale. Secondo Mario Morgese, responsabile Hrm Ducati, la produttività è aumentata del 40% e l’assenteismo diminuito.

In tutt’altro settore, quello finanziario, dove i parametri di produttività sono facilmente stimabili e la tensione alla performance spasmodica, la Principal Carter and Benson ha introdotto con grande soddisfazione i 4 giorni a settimana. Secondo il Ceo, William Griffini, “conta la qualità della testa che ci metti sul lavoro più che le ore…”.

Microsoft ha sperimentato la giornata di 4 giorni lavorativi in Giappone, nel progetto Work Life Choice Challenge Summer 2019, concedendo alle sue 2300 persone 5 venerdì liberi ad agosto 2019 senza abbassare gli stipendi. Non solo gli impiegati nel 92% dei casi sono stati più soddisfatti, ma la produttività è aumentata del 40%, con il 25% di tempo in meno di pause, l’uso dell’elettricità calato del 23%, il consumo di carta/stampe del 59%.

In Germania e Olanda sono diverse le sperimentazioni di meno ore-stessa o maggiore produttività. Rheingans Digital Enables (qui dal minuto 5.30) si è spinta persino ad una giornata di 5 ore lavorative pagate in pieno.

Ma lo studio-esperienza più completa è in Nuova Zelanda, ad opera del movimento ‘Four Day Week’ creato da Andrew Barnes e documentato nel White Paper The four-day week guidelines for an outcome-based trial – Raising productivity and engagement, redatto in collaborazione anche con Auckland University of Technology (Aut). La riduzione dell’orario di lavoro a 4 giorni a settimana a parità di salario è stata sperimentata in modo progressivo, volontario, e poi adottata con elevati risultati di produttività, diminuzione dello stress, miglioramento del life balance, aumento del coinvolgimento e benessere dei lavoratori, aumento della fiducia tra i lavoratori e tra il lavoratori e dirigenti, diminuzione dell’assenteismo, maggiore attrazione dei talenti. A patto, dicono i manager – sia chiaro che la diminuzione del tempo a parità di salario implichi il mantenimento della produttività – del raggiungimento degli obiettivi e la stessa ‘cura’ dei clienti.

Andrew Barnes racconta la sua iniziativa e i risultati in un Ted Talk e mette l’accento anche sugli effetti collaterali positivi, come quelli della decongestione del traffico e della riduzione dell’inquinamento.

In The Case for the 6-Hour Workday, dell’autorevolissima e iper-manageriale Harvard Business Review dell’11 dicembre 2018, Steve Glaveski riporta un suo esperimento in Australia, nella gestione efficace del tempo, da 8 a 6 ore al giorno, con un aumento della produttività. Una ricerca del 2018 su 3000 impiegati del Workforce Institute at Kronos riporta la convinzione degli impiegati di poter fare lo stesso lavoro in molto meno tempo, nelle condizioni giuste.

Per riassumere i risultati e le esperienze, ad oggi ciò che inizia a configurarsi – la prudenza è d’obbligo – è che:

1. Otto ore di lavoro pieno e produttivo sono una illusione.

2. Lavorare più ore non porta maggiore produttività.

3. ‘Lavorare meno, ma meglio’ fa aumentare la produttività, il benessere, la fiducia, l’engagement, diminuire stress ed inquinamento.

Perché quindi non sperimentare queste soluzioni su larga scala, sia nel profit che nel non profit, per un periodo limitato? Il Terzo Settore non dovrebbe essere il campo ideale di sperimentazione? Siamo pronti per provarci? Lo scopriremo insieme nel prossimo post. Vorrei concludere citando la premier neozelandese, Jacinda Ardernin una recente intervista a Presa Diretta: “Questo è un momento eccezionale e dovremmo essere pronti a prendere in considerazione idee straordinarie”.

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Coronavirus, partono i tagli nel turismo e nell’accoglienza. Precari e partite Iva iniziano a pagare il conto

Primi effetti Coronavirus sul mercato del lavoro. Mentre Covid-19 avanza in tutta Europa, emergono i sintomi del malessere economico che colpisce soprattutto il settore del turismo e dei servizi. Così con le restrizioni su cinema e teatri e le cancellazioni delle prenotazioni in hotel arrivano anche i primi licenziamenti. Tutta colpa dell’epidemia? Non solo. Secondo i sindacati non si deve trascurare il rischio che l’emergenza sanitaria venga cavalcata da alcuni datori di lavoro già in difficoltà con l’obiettivo di tagliare facilmente i dipendenti di troppo.

A lanciare l’allarme è la Camera del Lavoro di Milano che si è schierata dal lato di un lavoratore licenziato da un gruppo che gestisce appartamenti di lusso. Il dipendente è stato mandato a casa “causa impatto da Coronavirus”. “C’è grande preoccupazione per le ricadute dell’emergenza – ha spiegato il segretario generale della Camera del Lavoro di Milano, Massimo Bonini -. Ma c’è attenzione anche su chi potrebbe approfittare di questa situazione già drammatica“. Bonini ha poi ricordato che solo nell’hinterland di Milano sono circa 300mila i lavoratori del turismo e dell’enterteinment (almeno altri 200mila fra indotto dello spettacolo e dell’ospitalità) che stanno soffrendo per l’emergenza sanitaria.

I primi a subire l’effetto Coronavirus saranno inevitabilmente i lavoratori più “flessibili” e cioè le partite Iva, i contratti a chiamata, a tempo determinato e di somministrazione. E il peggio è che gli stagionali non beneficiano di ammortizzatori sociali. In generale, trattandosi di formule lavorative “flessibili”, i datori di lavoro possono infatti facilmente mettere in campo ridimensionamenti finalizzati a far quadrare i conti. Non a caso il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha chiesto l’ampliamento della cassa integrazione ordinaria e straordinaria a tutti i lavoratori. Se l’intervento sul lavoro flessibile non dovesse essere sufficiente alle imprese si passerà poi anche a part-time e contratti a tempo indeterminato, che sono maggiormente tutelati.

La situazione è decisamente delicata: il turismo è un settore strategico per il Paese e vale circa il 13 per cento del prodotto interno lordo (incluso l’indotto) impiegando circa 4,2 milioni di posti di lavoro. Federturismo stima una perdita del giro d’affari da 7,5 miliardi di euro solo nel prossimo trimestre. Ma avverte che il dato è in evoluzione come le denunce di sforbiciate ai lavoratori che si stanno allargando in tutta Italia. Per il presidente di Federalberghi, Bernabò Boccia ha chiesto “alle istituzioni, a tutti i livelli, quindi non solo allo Stato, ma anche alle Regioni e ai comuni, di adottare con urgenza ogni misura utile a garantire liquidità alle aziende e salvaguardare i posti di lavoro, per evitare il tracollo di un settore strategico, in cui operano oltre 300.000 imprese, che offrono lavoro a 1,5 milioni di persone”.

Intanto le imprese stanno già avviando i tagli sui lavoratori. Oltre a Milano, a Pisa l’imprenditore Antonio Veronese ha annunciato che licenzierà 21 dei suoi 25 dipendenti. “In città non ci sono più turisti e questo si ripercuote sulle attività commerciali – ha spiegato -. È dura per me licenziare così tante persone, sapendo che tra di loro c’è chi ha mutui da pagare o famiglie da mantenere. Eppure è una realtà comune a molte aziende”.

In Veneto gli albergatori temono salti l’intera stagione, come rileva la Fisascat Cisl. Con tutte le conseguenze del caso sul mondo del lavoro. In Sicilia si registra il caso dimensionalmente più grave: la procedura di licenziamento collettivo per 898 persone messa in atto dalla Eurostal Hotel. Per il segretario generale Fisascat Cisl Sicilia, Mimma Calabrò, non sarà un caso isolato. Per questo, secondo la sindacalista, il governo deve valutare il da farsi nel settore turistico non solo nella zona rossa, ma in tutta Italia.

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