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Blocco licenziamenti, Tridico (Inps): “In poco meno di un anno salvati 330mila posti di lavoro”

Il blocco dei licenziamenti ha contribuito a preservare 330mila posti di lavoro. A dirlo, durante la presentazione del rapporto annuale alla Camera, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. “Una parte ridotta dei lavoratori ha perso il posto a seguito del blocco dei licenziamenti – ha specificato – E secondo i dati statistici, il blocco dei licenziamenti ha preservato 330 mila posti di lavoro” .

Il risultato del blocco dei licenziamenti economici emerge con chiarezza nei dati sulle cessazioni: nei 24 mesi che precedono la pandemia, il numero medio annuo di licenziamenti (al netto di quelli disciplinari) è stato di 560mila, un numero più che dimezzato, 230mila, nell’anno del Covid.

Quanto ai pensionamenti, il presidente dell’Istituto, Pasquale Tridico sottolinea che in Italia “il rapporto tra numero di pensionati e occupati si mantiene su un livello che è tra i più elevati nel quadro europeo”. E il rapporto tra l’importo complessivo delle pensioni, in termini nominali, e il numero degli occupati è “cresciuto del 70% tra 2001 e 2020”. Il dato, per i sindacati, dimostra quanto sia “urgente” aprire un tavolo di confronto fra Governo e sindacati sulle pensioni e quanto sia “grave non averlo ancora fatto”.

Tridico quindi spiega il ruolo rivestito dagli strumenti di sostegno al reddito, il Reddito di cittadinanza, l’indennità di disoccupazione e la Cassa Integrazione in deroga, che “hanno rappresentato una tutela contro il peggioramento delle condizioni di povertà e deprivazione nel periodo della crisi”. Nell’annus horribilis della pandemia, Tridico, ancora una volta, promuove il reddito di cittadinanza e boccia anche se parzialmente Quota 100. Se da un lato, fa notare, Quota 100 “non mostra evidenza chiara di uno stimolo a maggiori assunzioni” di giovani, derivante dall’anticipo pensionistico, dall’altro il Reddito è stato per moltissimi “àncora di salvataggio”, “strumento di inclusione sociale” e “leva contro la regressione nella povertà assoluta”.

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“Stipendi bassi e zero tutele, quest’anno ho detto no”: le lettere-racconto sulle condizioni dei lavoratori stagionali a ilfatto.it

Dal Veneto alla Sardegna, dall’Abruzzo alla Campania. Dopo gli articoli del Fatto Quotidiano e la videoinchiesta de ilfattoquotidiano.it sulle condizioni e i contratti dei lavoratori stagionali decine di email sono arrivate all’indirizzo [email protected]: esperienze personali, aneddoti, suggerimenti. A molti scappa la battuta: lo scoprite ora? Ci sono molte testimonianze in prima persona, ma scrivono anche per interposta persona: genitori, mariti e mogli, fratelli e sorelle, soprattutto, costernati per le condizioni di lavoro dei loro familiari. C’è la moglie di un cuoco che lavora a Napoli che conferma l’abitudine di comporre lo stipendio un po’ in modo regolare e un po’ al nero: “Per un totale di 1700, di che ti lamenti? Del fatto che non ha ferie, permessi, tutele, che lavora come un pazzo ma non può andare a chiedere neanche un mutuo con una busta paga del genere, che non ha diritto a malattia, che non è tutelato da nessuna legge”.

C’è un responsabile di sala che si firma ma non vuole che il suo nome compaia che sgombra il campo dagli equivoci: non si trovano lavoratori stagionali per la crisi? Macché: “I contratti sono sempre stati questi, crisi o non crisi. In pochi si lamentano con Cgil o sindacati (inesistenti nel mondo ristorativo), perché vieni tagliato fuori dal lavoro. Quindi, o bere o affogare“.

E c’è chi dice basta, come un lavoratore che scrive dalla Sardegna che all’ennesimo anno di contratti al ribasso ha deciso di rifiutare: “Mi sono stancato di turni di lavoro massacranti e disumani ed accettarli solamente perché è diventato ‘normale’. Mi sono stancato di dover elemosinare o contrattare quello che mi spetta di diritto, cioè una busta paga giusta ed un inquadramento economico in linea con la mia professionalità. Mi sono stancato di guadagnare quasi meno di quello che guadagnavo 20 anni fa”.

Scrive chi lavora da una vita nel settore turistico, che ammette di non avere mai conosciuto abbastanza quali erano i propri diritti. E la differenza, dice, è proprio questa: “I ragazzi conoscono molto bene i loro diritti (a volte conoscono solo quelli, ma questa è un’altra storia), denunciano queste condizioni di lavoro semplicemente rifiutando di svolgerlo: insomma la domanda non si sottopone più all’offerta. Ormai il veleno del caporalato è circolante nella nostra società e più ti dirigi verso il Sud e più è dilagante. Vi confesso che tutt’oggi non ho il coraggio di denunciare per paura, ho troppo da perdere, non tutti hanno le spalle coperte”.

Ilfattoquotidiano.it ha selezionato queste storie a testimonianza di tutte le altre.

Se volete raccontare la vostra esperienza, scrivete all’indirizzo [email protected], indicando “stagionali” nell’oggetto della mail.

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Altro che stagionale… Mio marito, chef da 3 anni di un ristorante sito in centro a Napoli, conosciuto ed apprezzato, con una busta paga di 800 euro dichiarati fa circa 5 giorni di “lunga” a settimana ovvero 10.30-15.30 e attacca di nuovo alle 18 fino a mezzanotte. In tre anni mai un giorno di malattia e non perché sia mai stato male ma perché senza di lui non si fa nulla, staff sottopagato ed incompetente dato le condizioni che offrono. Ha fatto il vaccino Pfizer qualche settimana fa di sabato mattina e poi è corso al lavoro per fare due giornate consecutive della ‘lunga’ di cui sopra, ed ovviamente in piena notte ha avuto febbre e mal di testa, ma la mattina era tutto passato. Per forza.

Una settimana di ferie il primo anno, due il secondo, vedremo questo. Giorni liberi: uno, a volte due ma per strappare il secondo giorno poi devi farti tutte “lunghe”, che in un mestiere del genere sono distruttive. Al nero prende altri 900 euro. Direte voi: per un totale di 1700, di che ti lamenti? Del fatto che non ha ferie, permessi, tutele, che lavora come un pazzo ma non può andare a chiedere neanche un mutuo con una busta paga del genere, che non ha diritto a malattia, che non è tutelato da nessuna legge.

Anzi è qui che voglio aprire una riflessione: ispettorato del lavoro e qualsiasi altro ente conoscono bene la situazione del “nero”, del sottopagato. Nella loro cucina ci sono 4 persone che lavorano rispettivamente 24 ore settimanali e gli altri 9. Come può un ristorante stare aperto sei giorni? Chi cucina? La cosa peggiore, da denunciare, è la collusione di chi dovrebbe far rispettare i doveri ai datori di lavoro e soprattutto tutelare i diritti dei lavoratori!

Per favore fate clamore su questa vicenda, perché l’unica cosa buona del Covid è stato scoperchiare questo vaso di pandora!

Lettera firmata

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Vi chiedo espressamente di non fare i nostri nomi né di dire dove abitiamo, potremmo averne serie ripercussioni. Dieci anni fa diventiamo finalmente genitori ma dalla felicità all’incubo il passo è breve. Sono un piccolo artigiano e fatturo tutto non solo per quella “stupida” visione etica che mi rende, di fatto, un disadattato, ma perché vorrei avere una pensione che, a conti fatti, non avrò mai.

Per riuscire ad arrivare a fine mese c’è bisogno che lei trovi un lavoro, magari stagionale, così gli unici parenti, i nonni, possono accudire nostra figlia durante il giorno. Abitiamo in una zona turistica. Al di là del fatto che anche per la pulizia dei bagni si richiede esperienza pregressa mia moglie trova un lavoro. Aiuto-cuoca e lavapiatti. Paga: 25 euro (venticinque euro!) al giorno per dieci ore di lavoro, dalle 8 del mattino alle 22, 7 giorni su 7. Due euro e cinquanta l’ora. Il costo del diesel giornaliero, andata e ritorno per quattro volte al giorno (almeno mangia con nostra figlia) è di 5 euro. Guadagno totale 20 euro al giorno, ovviamente tutto al nero! Nelle tre ore di stacco affari suoi. Può riposarsi come le pare, magari sedendo in macchina sotto il solleone o consumare in un bar.

Il primo giorno uscendo dalla cucina alla fine del primo turno trova a pranzo la pattuglia dei carabinieri, la sera trova a cena quella della guardia di finanza. Alla fine del terzo giorno le chiedo di lasciare. Oltre alla dimensione schiavista la beffa di vedere le forze dell’ordine che probabilmente non sanno quello che succede, consumare a quei tavoli, è troppo. Meglio tirare avanti a denti stretti illudendoci di poter avere ancora fiducia nello Stato.

Lettera firmata

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La realtà è che queste offerte non succedono solo agli stagionali, ma anche a quelli che hanno un contratto a tempo indeterminato, la situazione nella ristorazione, bar compresi è questa, se vuoi lavorare devi adattarti ad un contratto misero e qualcosa fuori busta. Lavorando nei ristoranti riesci a tirare su qualche soldo anche con un contratto part-time, ma parliamo comunque di cifre irrisorie per il lavoro svolto, anche in turno serale che dovrebbe essere maggiorato, non viene retribuito come dovrebbe.

Per quanto riguarda i bar non ne parliamo, molti posti, assumono con contratti di due ore, per poi fartene fare otto, con una busta di ottocento euro e se provi a fare malattia ti fanno sentire anche in colpa. La colpa è anche degli improvvisati, quelli che fanno questo lavoro per fare qualche soldo, e quelli che invece lo fanno di professione, si ritrovano in una guerra al ribasso per poter lavorare.

Una persona con diploma alberghiero e sommelier, per molti posti, conta quasi come un ragazzino che lo fa per pochi soldi, perché, la frase che sentiamo di continuo su questo lavoro è:
Che ci vorrà mai a fare il cameriere?” oppure “Se perdo il lavoro, farò il cameriere”. Professione sminuita su tanti fronti.

Purtroppo, la situazione è questa, si, sarà per un problema di tasse troppo alte che ogni commerciante si trova a pagare, sarà la crisi, ma alla fine, io, che lavoro da 20 anni nella ristorazione, i contratti sono sempre stati questi, crisi o non crisi. In pochi si lamentano con Cgil o sindacati (inesistenti nel mondo ristorativo), perché vieni tagliato fuori dal lavoro. Quindi, o bere o affogare.

In tutta onestà, mi dispiace per questi “ragazzi” che preferiscono gli ottocento euro per stare sul divano, perché non lavorando non andranno neanche mai in pensione, però è anche vero che continuando cosi, finiremo per lavorare gratis.

Responsabile di sala
Lettera firmata

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Io lavoro come cuoco. In 20 anni ho avuto esperienze in ristoranti, alberghi, resort e villaggi, sia in Italia che all’estero, ed ho investito tempo e sudore per cercare di diventare un professionista. In cucina ho fatto praticamente tutto (tranne il pasticcere). Anni fa ho deciso di restare nella mia terra (la Sardegna) per sfruttare le mie esperienze. Però quest’anno ho deciso di lasciare stare e cambiare lavoro. Basta.

Mi sono stancato di mandare il curriculum a persone che ti chiamano per il colloquio e poi quando sei davanti a loro non sanno nemmeno chi si trovano davanti. Perché? Perché non hanno letto nemmeno una riga del tuo CV. Mi sono stancato di turni di lavoro massacranti e disumani (dalle 10 alle 14 ore al giorno) ed accettarli solamente perché è diventato “normale”. Mi sono stancato di dover elemosinare o contrattare quello che mi spetta di diritto, cioè una busta paga giusta ed un inquadramento economico in linea con la mia professionalità. Mi sono stancato di guadagnare quasi meno di quello che guadagnavo 20 anni fa. Basta.

Tanto si trova comunque la manodopera a basso costo tra romeni, bengalesi e altri che pur senza alcuna esperienza si piegano a lavorare per 800 euro al mese. Sono i nuovi schiavi della globalizzazione, dove le aziende massimizzano le entrate tagliando sul personale, che oramai è diventato solamente un costo e non una risorsa.

Paolo

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Sono una lavoratrice del settore turistico da oltre trent’anni , con una piccola parentesi da imprenditrice sempre nello stesso settore. Premetto di essermi diplomata con ottimi voti in ragioneria ed ho effettuato un tirocinio di due anni presso uno studio commerciale, mentre ero all’università. (Laurea mai conseguita). La mia gavetta ha avuto inizio alla tenera età di 14 anni, ora ne ho 48, in un albergo della splendida località di Scanno (L’Aquila).

Nonostante lavorassi 7 giorni su 7 per 15 ore giornaliere, avevo un entusiasmo che arrivava oltre le stelle: avevo fame di indipendenza e la mia spiccata sete di conoscenza mi ha fatto innamorare di questo lavoro. All’epoca non avevo assolutamente idea di quelli che fossero i miei diritti: i miei genitori, no in realtà mia madre, è stata, ma lo è tutt’ora, una sergente di ferro e ci ha cresciuti sbattendoci in faccia solo ed esclusivamente i nostri doveri, insomma nella vita ho ricevuto, da lei, solo dinieghi.

Tornando al mio primo lavoro stagionale, fu contrattualizzato, sì avete capito bene all’epoca era legale lavorare a 14 anni, come apprendistato, ma naturalmente non vidi mai un tutore, non feci mai nemmeno 5 minuti di teoria, svolsi, quotidianamente, lavoro notturno e rischiai di addormentarmi su una pressa da stiro in un occasione in cui non mi fecero staccare mai. Svolsi, inoltre, dei turni senza fine che iniziavano all’alba della vigilia di Natale e finivano la notte del 25, stessa storia per il Capodanno! Tutto questo per ricevere 900mila per 15 giorni di lavoro, naturalmente oltre al vitto e l’alloggio.

Oggi che fortunatamente le sergenti di ferro sono in via di estinzione, i ragazzi conoscono molto bene i loro diritti (a volte conoscono solo quelli, ma questa è un’altra storia), denunciano queste condizioni di lavoro semplicemente rifiutando di svolgerlo: insomma la domanda non si sottopone più all’offerta. Ormai il veleno del caporalato è circolante nella nostra società e più ti dirigi verso il Sud e più è dilagante. Vi confesso che tutt’oggi non ho il coraggio di denunciare per paura, ho troppo da perdere, non tutti hanno le spalle coperte.

E i sindacati? Beh loro conoscono benissimo la situazione di questo settore disgraziato, ma non hanno mai smosso una foglia per noi, si presentano solo ad incassare le somme dovute per le conciliazioni tombali invece di combatterle fino allo stremo.

Purtroppo a me non restano che le cicatrici sulla pelle e nelle ossa: vai a lavorare lo stesso se ti ustioni o se sei sotto l’effetto delle infiltrazioni di cortisone, a causa del lavoro logorante che fai. D’altro canto spero sempre che tutti noi della categoria, perché l’unione fa la forza, uniti e solidali, un giorno incrociassimo le braccia proprio ad agosto, a Natale, Capodanno e a Pasqua che i nostri clienti, sì proprio così nostri, perché è per noi che tornano, siano lì ad appoggiarci. Utopia? La speranza sarà sempre l’ultima a morire.

Lo scorrere degli anni e quindi le esperienze acquisite mi hanno portato a non credere più né nella politica, lontana dai bisogni reali delle categorie dei lavoratori in quanto pensa solo alle lotte di casta; né tantomeno nei sindacati che mangiano le briciole dei politici e li assecondano: è interesse comune che il lavoro sommerso e i disagi sociali che questo comporta rimangano tali. D’ALTRONDE NON TOCCATECI LE VACANZE E IL TEMPO LIBERO!

Elisabetta

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Magari 1200 euro al mese, esperienza personale: contratto due giorni a settimana part time a chiamata, 1200 euro per due mesi perché alla prima esperienza dietro al bancone, 7 giorni su 7 dalle 9 alle 12 ore di lavoro, colazione pranzo o cena se volevo qualcosa dovevo pagarla, sapevano in anticipo dei controlli e mandavano a farmi un giro fuori così non rischiavano, fosse successo qualcosa non so a che santo mi sarei dovuto rivolgere. Il tutto in uno dei lidi più frequentati qui nella zona in Abruzzo.

Lettera firmata

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Stagionali, la testimonianza di un ex dipendente di hotel: “Spesso lavoratori bevono o si drogano per reggere i ritmi. Dopo sei anni ho detto basta, con sussidi posso cercare un contratto dignitoso”

“Ho fatto sei stagioni come portiere notturno in un hotel romagnolo, ma adesso ho deciso di dire basta. Grazie ai sussidi posso permettermi di cercare un lavoro dignitoso che mi dia la possibilità di progettare la mia vita al di fuori della stagionalità”. Prosegue l’inchiesta de ilfattoquotidiano.it sulle condizioni di lavoro degli stagionali. Dopo i colloqui ripresi con telecamera nascosta (PRIMA PUNTATA/SECONDA PUNTATA), questa volta a parlare è un ex dipendente di hotel. Giovanni (nome di fantasia) ha 28 anni ed è nato in una città della Riviera romagnola. Negli scorsi anni ha sempre lavorato nelle hall degli alberghi facendo i turni notturni. “Lavoravo tutte le notti undici ore, sette giorni su sette per 1200 euro al mese” spiega mentre fa i calcoli. “Più o meno tre euro l’ora senza giorni di riposo”. Ma come si fa reggere questi ritmi per tre mesi di fila? “La verità?- dice mentre sorride amaramente – Spesso la gente beve molto e utilizza sostanze per riuscire a resistere”. Non è ammesso stare male. “Quando avevo la febbre, mi veniva negata la malattia. Mi dicevano che non c’era nessuno che poteva sostituirmi e che dovevo prendermi una tachipirina e un’aspirina per continuare a lavorare. Così si lavora in Romagna”. Per tre mesi i ritmi sono questi, ma “quando la stagione finiva ci si ritrova in tasca pochi soldi” e non è raro “vedere gente che va in ‘burn out”. E per quanto riguarda i contratti? “Sono grigi – spiega il lavoratore – lavori sulle dieci dodici ore ma sulla busta paga ne trovi segnate sei”. Gli imprenditori si lamentano della mancanza di manodopera per la stagione estiva romagnola accusando “i sussidi e il reddito di cittadinanza”. Misure che secondo il lavoratore hanno invece permesso a tanti stagionali di “cercare un lavoro e un contratto dignitoso perché fino ad ora ci siamo sentiti schiavizzati come chi lavora nei campi. Abbiamo iniziato a dire basta, la situazione deve cambiare”

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Sammontana assume 352 stagionali: si presentano in 2500. Cgil: “Se la retribuzione è giusta, i lavoratori ci sono”

Il problema non è il reddito di cittadinanza, il problema è che “fino a quando gli imprenditori continueranno a offrire 3 euro l’ora, c’è poco da lamentarsi se non trovano lavoratori stagionali”. Rossano Rossi, segretario generale della Cgil di Lucca e delegato sindacale della Sammontana reagisce così di fronte alle segnalazioni quotidiane di aziende che non riescono a trovare stagionali e alle risposte di sindacati e associazioni che rivendicano la dignità degli stessi attraverso delle retribuzioni congrue. Intervistato dal Tirreno, Rossi non fatica a comprendere perché centinaia di lavoratori preferiscano prendere i sussidi statali invece che accettare lavori degradanti.

A suo dire, il problema reale è la mancanza di “domanda di qualità“, ovvero di un’offerta di lavoro con retribuzione adeguata alle ore svolte. E propone il suo esempio virtuoso: la Sammontana. L’azienda di Empoli, che da 70 anni produce gelati, “ha appena assunto 352 operai stagionali negli stabilimenti della fabbrica toscana, e al momento sono 2.500 le domande che si sono accumulate negli uffici dell’azienda. Sono persone che andrebbero di corsa a lavorare lì. Perché è un’azienda seria: riconosce i diritti ai suoi lavoratori e, ogni mese, dà ai suoi dipendenti uno stipendio medio che consente loro di vivere in modo dignitoso. Non è scontato, di questi tempi”.

Invece, le offerte di lavoro che girano sul mercato prevedono “pochi spiccioli e quasi zero diritti per molte, troppe, ore di lavoro. E poi gli imprenditori si lamentano pure, se non trovano gli stagionali – continua Rossi – C’è tanto sfruttamento, soprattutto nel settore della ristorazione e del commercio. Una storia nota ai sindacati, purtroppo. Lavoratori assicurati per 15 ore a settimana. Peccato che, in effetti, le ore di lavoro siano molte di più. Anche 45. O, magari, camerieri o cuochi che accettavano di tutto: anche interi mesi di lavoro nero”.

E quando gli si chiede cosa pensa in merito al fatto che molti datori di lavoro vedano nel reddito di cittadinanza l’origine di tutti i mali, il sindacalista risponde che secondo lui “la via maestra è, e deve essere, il lavoro“. “Ma le difficoltà che l’Italia sta attraversando le conosciamo tutti quanti. E, in questo quadro, si stanno accentuando sempre di più anche le disuguaglianze: i ricchi sono sempre più ricchi, mentre i poveri sono di più rispetto al passato e anche con maggiori difficoltà. Per questo il reddito di cittadinanza non deve essere stigmatizzato, ma visto come una possibilità. Se i datori di lavoro cominciassero a pagare bene i dipendenti – conclude – smettendo di sfruttarli, sono sicuro che avrebbero la fila”.

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Recovery plan, che cosa c’è per il lavoro. “Sulle politiche attive pochi dettagli, si rischia di non riuscire a spendere i soldi”. E per donne e giovani risorse insufficienti

“Prevedere più fondi per la formazione e le politiche attive, di per sé, serve a poco. Finora i soldi, anche europei, destinati alla formazione sono stati spesi poco e male e le politiche attive sono decenti in alcune Regioni e inesistenti in altre. Il Piano non spiega come si intende cambiare le cose”. Andrea Garnero, economista alla direzione per l‘Occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse, ha più di un dubbio sul capitolo del Recovery plan dedicato alle misure – oggi del tutto inefficienti – per riqualificare e reinserire chi rimane senza un posto. Fronte caldissimo in un Paese che nell’anno del Covid ha perso 900mila occupati, concentrati tra dipendenti a termine e autonomi. “Tutto dipende dall’effettiva attuazione, ma per le riforme sono indicati solo obiettivi generali, senza dettagli su come si intende cambiare le cose. C’è il rischio serio di non riuscire a spendere i soldi, come successo negli ultimi decenni, o di riuscirci solo nei territori dove già oggi le cose funzionano”. Non va molto meglio sul fronte delle politiche per la parità di genere e tra generazioni, che sulla carta sono “priorità trasversali” e dunque non hanno capitoli dedicati. Luciano Monti, docente di Politiche Ue alla Luiss Guido Carli, su lavoce.info ha calcolato che le risorse ad hoc per i giovani si fermano al 7,2% del totale contro il 12% del Pnrr spagnolo. E non c’è nulla per stimolare l’imprenditorialità. Mentre Alessandra Casarico, docente di Scienza delle Finanze all’università Bocconi e studiosa dei divari di genere, spiega che per gli asili nido – il principale intervento in favore dell’occupazione femminile – c’è “meno di quanto strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo europeo di offrire un posto almeno al 33% dei bambini”.

Il nodo delle politiche attive – Il lavoro ricade nella Missione 5 del Pnrr, “Inclusione e coesione”. Lì ci sono 4,4 miliardi per politiche attive del lavoro e formazione, 600 milioni per potenziare i centri per l’impiego, 400 per la “creazione di impresa femminile” e altri 600 per rafforzare il sistema duale scuola-lavoro. Sei miliardi complessivi a cui ne vanno aggiunti altri 6 a valere sul fondo React Eu con cui saranno finanziati la decontribuzione al Sud (4 miliardi), il fondo nuove competenze (1,5 miliardi aggiuntivi per pagare ai dipendenti le ore dedicate alla formazione) e i bonus per chi assume donne o giovani (500 milioni). Ma la descrizione delle riforme previste è assai vaga: sulle politiche attive, per esempio, il governo si limita a promettere l’adozione, d’intesa con le regioni, di un Programma nazionale per la garanzia occupabilità dei lavoratori che “intende imparare dall’esperienza di questi anni, cercando di superare l’eccessiva eterogeneità dei servizi erogati a livello territoriale”. Nulla si dice sul come si intende farlo. “Non abbiamo ancora in mano le schede progetto con i dettagli degli interventi previsti”, premette Garnero, che è tra gli autori dell’Employment Outlook dell’Ocse. “E forse la risposta ai dubbi è lì. Certo è che leggendo il testo di presentazione non si capisce come sarà gestito il coordinamento tra Stato e Regioni sulle politiche attive, posto che non è prevista una riforma del titolo V“. Infatti, dopo il fallimento del referendum costituzionale di Renzi che puntava ad attribuire tutte le competenze all’Anpal, i centri per l’impiego sono rimasti in capo ai governatori, con cui il governo deve negoziare ogni mossa a partire dalle oltre 11mila assunzioni previste di qui a fine anno.

Il piano, non a caso, rinvia agli enti locali le decisioni sulla formazione degli operatori e sulle altre priorità di intervento. “L’unica possibilità che vedo”, commenta l’esperto, “è stabilire livelli minimi nazionali da garantire ovunque, con sanzioni – cioè lo stop ai fondi supplementari – per chi non li garantisce. Arrivare al commissariamento da parte dello Stato? E’ un’opzione possibile, ma se poi il commissario è l’Anpal con tutti i suoi problemi interni…”. L’Anpal, che stando a indiscrezioni il ministro Andrea Orlando intende depotenziare, è citata solo una volta nel paragrafo sul nuovo “Piano nazionale nuove competenze” deputato a formare e riqualificare “lavoratori in transizione e disoccupati” oltre a beneficiari del reddito di cittadinanza. Nessun riferimento alla tanto attesa app per l’incrocio di domanda e offerta, mai realizzata. “Del resto ne esistono tante di aziende private e non risolvono il problema delle politiche attive, che richiedono ascolto e capacità di disegnare interventi su misura in base alle necessità della singola persona”

La sparizione del salario minimo – Quanto alla sparizione del riferimento al salario minimo, secondo Garnero si tratta di una vittoria negoziale dei sindacati – contrari alla misura – ma di peso limitato. Perché la formulazione che compariva nelle bozze (in cui veniva previsto per i “lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale“) era “un compromesso che dal punto di vista giuridico non vuol dire niente: in Italia formalmente tutti i dipendenti sono coperti da un contratto nazionale”. Quindi? “Serve sicuramente una soluzione per il lavoro sottopagato, e non deve essere in opposizione alla contrattazione collettiva. Ma è illusorio pensare che fissare una soglia legata al minimo previsto dai contratti firmati dalle organizzazioni più rappresentative e uguale da Milano a Lampedusa risolva il problema. Il punto di partenza devono essere contratti nazionali più flessibili, che permettono deroghe tramite accordi territoriali e aziendali. Le parti sociali devono trovare la quadra”.

Per l’occupazione femminile 4,6 miliardi su nidi e asili – Le lavoratrici sono state le più colpite dal calo dei posti causato dal Covid. Ma già prima della pandemia il tasso di occupazione delle donne italiane era più basso di oltre 10 punti rispetto alla media Ue: nel dicembre 2019 aveva superato per la prima volta il 50%. Recuperare questo “ritardo storico” è una delle priorità trasversali del Piano, “cosa che ha senso perché sono tanti gli ambiti su cui intervenire per ridurre il divario”, spiega Casarico. “D’altro canto, però, così diventa più complicato capire in quali capitoli ci sono risorse dedicate”. Al netto dei 600 milioni aggiuntivi per stimolare la creazione di imprese femminili, lo stanziamento di gran lunga più consistente è quello per asili nido e scuole materne: 4,6 miliardi, come nel Pnrr del governo Conte, ma i nuovi posti previsti nei nidi scendono a 228mila contro i 622.500 del “vecchio” piano. “Le risorse sono probabilmente sottodimensionate”, commenta la docente. “Ma almeno questa volta il meccanismo di controllo europeo dovrebbe far sì che siano spese davvero per quella voce e non disperse come è avvenuto in passato”. Gli altri interventi previsti? “C’è un piano per lo sviluppo delle competenze Stem, cioè nelle discipline scientifiche e tecnologiche, da parte delle studentesse, perché in quei campi le donne sono sottorappresentate. E si annuncia un sistema nazionale di certificazione della parità di genere nelle aziende, che però sarà volontario. In generale, poi, investire sull’assistenza e la cura dovrebbe fare da volano per l’occupazione femminile, sia liberando il tempo delle donne sia creando domanda di lavoro in quel settore”. In extremis, poi, al piano è stata aggiunta una clausola di condizionalità in base alla quale le imprese che realizzeranno i progetti del Piano dovranno assumere determinate quote di donne e di giovani. Il tutto, di qui al 2026, dovrebbe aumentare l’occupazione femminile di 2,9 punti rispetto a uno scenario senza Recovery. Troppo poco, comunque, per colmare il gap di genere. Idem per il divario “generazionale”: per i giovani la quota di occupati è data in salita del 3,3%. Ma la differenza con la media Ue oggi è di quasi 15 punti.

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Rider strappa biglietto pro-Mussolini e viene licenziato: ora l’azienda ha deciso il reintegro. “Condanniamo chi inneggia al fascismo”

Luca Nisco, rider 30enne di Winelivery, era stato licenziato per aver strappato un biglietto pro-Mussolini inviato da un cliente della piattaforma insieme a due bottiglie di vino. L’accusa, riportata dal Resto del Carlino, era di aver “violato la privacy” e di aver adottato un “comportamento scorretto“. L’azienda però ora ha deciso di fare retromarcia, disponendo il suo reintegro. Lo hanno fatto sapere i fondatori con una nota, in cui spiegano che la decisione di sospenderlo era derivata dalla violazione della privacy di un cliente, fotografando un messaggio privato. Tuttavia “Winelivery riconosce la responsabilità oggettiva sulla trascrizione, da parte dell’operatore locale, di un messaggio dal contenuto contrario ai suoi principi e valori. La nostra convinzione, come azienda e come cittadini, è di assoluta condanna ai comportamenti che inneggino in qualsiasi forma al fascismo. Con l’obiettivo di distendere i toni e definire la questione in maniera positiva per tutte le parti in causa, ci rendiamo nuovamente disponibili ad accettare le candidature da parte di Nisco, nella certezza che i suoi comportamenti lesivi della privacy del cliente e dell’immagine aziendale non si ripetano nel futuro“.

Luca lavora per conto della piattaforma specializzata nelle consegne a domicilio di vino da febbraio. Domenica 25 aprile viene incaricato di recapitare delle bottiglie a Bologna, corredate da un biglietto come da volontà del cliente. A trascriverlo è un collega di Luca e il testo è diverso dai soliti auguri: inneggiava al Duce. “Ho provato indignazione per quel messaggio – dice al Carlino – stupore che ancora oggi siano scritte certe cose”. Davanti alla destinataria Luca estrae il biglietto e lo strappa. Il giorno dopo la piattaforma annulla tutti i suoi turni per la segnalazione di un “comportamento scorretto”.

Interpellata da Qn l’azienda ha spiegato che per policy si riserva “il diritto di non consegnare un biglietto in caso in cui sia contrario al decoro, all’ordine pubblico, offensivo”. Quindi l’operatore che ha trascritto quel messaggio in primis “non ha seguito l’indicazione aziendale”, mettendo nero su bianco “un bigliettino contrario alla legge”. L’operatore è stato redarguito, senza conseguenze, mentre il rider avrebbe “attuato due comportamenti scorretti”: la “palese violazione della privacy”, ovvero aver aperto il sacchetto per leggere il biglietto. E poi un “comportamento non in linea con i valori aziendali”, cioè l’aver strappato il messaggio. Di qui il licenziamento, che ora è stato revocato. Winelivery ha inoltre manifestato al Comune di Bologna e all’assessore al lavoro Marco Lombardo che del tema dei rider si è spesso occupato “la nostra disponibilità ad aderire alla ‘Carta di Bologna’ che, per la maggior parte delle sue disposizioni, applichiamo già nella gestione dei nostri collaboratori”.

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Finalmente la Consulta ha demolito un punto fondamentale dell’iniqua riforma Monti-Fornero

di Francesco Montorio *

Una bella notizia per i diritti dei lavoratori e la dignità delle persone: demolito un punto fondamentale dell’iniqua riforma Monti-Fornero in tema di licenziamenti individuali. Con la sentenza n. 59 pubblicata il 1° aprile 2021, la Corte Costituzionale ha stabilito che, dichiarata l’illegittimità di un licenziamento economico (giustificato motivo oggettivo) perché “il fatto è manifestamente insussistente”, il giudice deve ordinare la reintegra nel posto di lavoro e che questa non può più essere a sua mera discrezione. Portata e motivazioni della sentenza sono già state ben commentate anche su queste pagine. Vogliamo però evidenziare ancor di più l’iniquo sistema della legge in oggetto, “apripista” del successivo Jobs Act.

Ricordiamo che nel 2012, con l’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero, si volle “smantellare e svilire” – in modo sostanziale e processuale – l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Da allora, la tutela reale del reintegro nel posto di lavoro è diventata un’ipotesi remota, quasi impossibile. In particolar modo nei licenziamenti oggettivo-economici. Qui la discrezionalità, appunto eliminata dalla Corte Costituzionale, rendeva incerto il reintegro anche di fronte a casi “manifestamente” ingiusti. Infatti, per “sperare” di essere reintegrati non bastava che venisse accertata l’insussistenza delle motivazioni addotte. Questa doveva (e deve ancora) essere “manifesta”. Un incomprensibile aggravio ai danni dei lavoratori che ha fatto (e fa ancora) molto discutere.

Inoltre, il testo precisava che, anche in caso di accertata manifesta insussistenza, il giudice non “deve” ma “può” decidere per la reintegra. Iniquità ancor più evidente visto che tale discrezionalità era prevista solo in questo caso: unico “può” tra tanti “deve”. Come risulta dal testo di legge a suo tempo approvato.

Adesso, grazie alla Corte, il giudice sarà obbligato a reintegrare. Almeno di fronte a un licenziamento “manifestamente” ingiusto. Naturalmente questo riguarda solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015. Per gli altri si continua ad applicare, purtroppo, il Jobs Act. Così la Suprema Corte compie un altro passo verso la tutela della dignità dei lavoratori, delle persone. Come nel 2018, quando (sentenza n° 194/2018) dichiarò incostituzionale il criterio di indennizzo del Jobs Act facendo crollare “uno dei pilastri della riforma Renzi”. O come nel 2020 (sentenza n° 150/2020) quando dichiarò incostituzionale l’automatismo dell’indennizzo anche rispetto al licenziamento viziato nella forma (art. 7, d.lgs. 23/2015).

Una tutela particolarmente “mortificata” in questi ultimi anni (2012 e 2015) da leggi che hanno praticamente svuotato il senso di “tempo indeterminato”, rendendolo “indeterminabile” nel solco del principio: “licenziati in qualsiasi momento, reintegrati praticamente mai” creando le premesse per ulteriori ingiustizie e disuguaglianze sociali.

Ricordiamoci, infatti, che l’art. 18 non riguarda le piccole aziende e un licenziamento oggettivo ingiusto non “assolve potenziali fannulloni” ma – evidenziando l’assenza di reali motivi economici – fa emergere la sola volontà di colpire il lavoratore per altre motivazioni. Queste possono essere le più diverse: “personali”, per occuparne un altro a costi minori o magari per dare un “segnale” ad altri (“colpirne uno per educarne cento”). Una situazione resa ancor più grave dalla attuale realtà. Triste pensare però che le Supreme Corti debbano intervenire (quando, come e dove possono…) per riparare alle ingiustizie commesse a danno dei cittadini. Non se la si prenda con i “tecnici”. Sono i politici che, comunque, votano le leggi (2012). Quando non le fanno direttamente loro (2015).

Per ridare dignità ai lavoratori, alle persone, onorando la Costituzione è necessario reintrodurre tutele reali. Non basta fare leggi che ne riportano il nome. Il Decreto Dignità, infatti, si è mostrato subito come una “misura del tutto insufficiente non soltanto perché non aveva rimesso la reintegrazione al centro del sistema, ma anche dal punto di vista della sua adeguatezza economica”. Le leggi poi devono essere scritte in modo chiaro, anche al riparo da interpretazioni giurisprudenziali che possono svilirne la portata.

Occorre però che le persone si sveglino e reclamino forte i loro diritti, come alla fine degli anni ’60. Altrimenti si rischia di continuare a fare come le “Stelle” di Cronin: “stare a guardare”.

* Sono dipendente di un importante gruppo aziendale. Mi riconosco nei valori della Costituzione e quando posso realizzo incontri per divulgarne e difenderne i principi. Come per far conoscere la realtà dei licenziamenti individuali e sostenere il ripristino dell’art. 18 per tutelare la dignità delle persone. Sono associato a Comma2 Lavoro è Dignità e al Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.

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È ora che la politica torni coraggiosa e metta mano alle disuguaglianze nel mondo del lavoro

di Stefania Rotondo

Sotto la propulsione disgregativa della pandemia, negli ultimi mesi in Italia sono morti e sono nati leader politici. Alla loro incoronazione, i succeduti o i risorti leader hanno tenuto discorsi, senza tuttavia mai pronunciare la parola “poveri”. Solo Giuseppe Conte giorni fa, durante la diretta streaming all’assemblea del Movimento 5 Stelle, presentandosi come nuovo leader, ha espresso l’intenzione di rimettere mano allo Statuto dei Lavoratori.

La legge 20 maggio 1970, n. 300 (qui il suo testo) è una delle normative principali della Repubblica Italiana in tema di diritto del lavoro e, insieme al primo articolo della Costituzione, rappresenta l’ossatura della democrazia. Entrambi si riferiscono al lavoro come punto fondante del nostro ordinamento. Evidenzia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky che il diritto al lavoro è l’unico esplicitamente enunciato dalla Carta fra i principi fondamentali.

Paiono passati secoli da quando i nostri Padri Costituenti decisero di spazzare via definitivamente i “s-fascismi” del Ventennio con tutte le sue diseguaglianze, soprattutto nel mondo del lavoro, ed altrettanti secoli dalle lotte sindacali e dai percorsi travagliati della politica degli anni post-bellici, che portarono all’auspicata promulgazione della Legge 300/70.

Eh sì, perché è bastata la visione di una semplice fiction televisiva per attivare il controllo di Arcelor Mittal nei confronti di alcuni operai Ilva, accusati di aver creato un danno di immagine alla società, avendo condiviso su Facebook un post proprio su una fiction televisiva. Nei giorni scorsi è andata in onda Svegliati amore mio, una miniserie che narra la storia di Nanà Santoro (interpretata da Sabrina Ferilli), moglie di un operaio di un’acciaieria e mamma di una bambina malata di leucemia, che sospetta correlazioni tra l’inquinamento della fabbrica e la malattia della figlia.

La serie per i suoi contenuti ha impattato così duramente sulla comunità di Taranto, tanto da aver suscitato delle reazioni che hanno portato alcuni operai dell’Ilva a creare dei post sui social che, in poco tempo, hanno ottenuto oltre 10.000 visualizzazioni. Per gli operai la fiction è associabile ai fatti che purtroppo stanno devastando il loro territorio da anni, e questo è bastato a Arcelor Mittal che ha pensato di punire tre operai con l’accusa di aver creato “un danno di immagine alla società”.

Domenico De Masi in un editoriale sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa, ha dichiarato che se “in Italia esistesse un partito di sinistra, questo attuale sarebbe il suo momento di massima espansione numerica vista la forza combattiva, perché mai prima d’ora una percentuale così massiccia di popolo si era trovata in una condizione tanto proletarizzata da essere materia prima ideale per il reclutamento politico”. Proletari, operai, poveri, precari, disoccupati. Sono tutti coloro che mangiano oggi (e non tutti!), ma non è sicuro che mangeranno anche domani. Sono tantissimi ormai, soprattutto ora in piena pandemia. Sarebbero voti. Ma nessuno pare interessarsi a loro, anzi, i “padroni” hanno ripreso a sfruttarli e i “partiti” ad infischiarsene.

Questa massa di insicuri divenne negli anni del dopoguerra soggetto sociale, perché qualcuno ne intuì il potenziale, e lottò per concederle la consapevolezza, il riscatto. Diventati “classe”, conquistarono diritti che sembravano acquisiti per sempre. Ma il fallimento del comunismo, del capitalismo e del liberismo hanno fatto sì che l’economia si sostituisse alla politica. Certo, oggi gli operai sono diminuiti, ma l’esercito degli insicuri è notevolmente cresciuto.

Va bene allora rimettere mano alla Legge 300/70, ma è giunto il momento che la politica ritorni coraggiosa e metta mano alle diseguaglianze che sembravano attenuarsi fino allo Statuto dei lavoratori, e che si sono poi allargate a vista d’occhio. Mi viene da pensare che allora oggi è più conveniente essere il “partito ztl” piuttosto che quello della “periferia”.

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Lavoro, ministero-Bankitalia: recuperata solo metà dei posti persi durante il lockdown. ‘Forti cali nel turismo, bene il trasporto merci’

Alla fine del periodo che va dall’avvio della crisi Covid al 28 febbraio 2021 sono stati creati circa 300.000 posti di lavoro in meno rispetto ai dodici mesi precedenti. Dopo il punto di minimo raggiunto a metà giugno quando si contavano quasi 600mila posti in meno. E’ stata quindi recuperata circa la metà del divario. Lo rileva un’analisi congiunta del ministero del Lavoro e della Banca d’Italia. Nei primi due mesi del 2021, si legge, l’occupazione dipendente regolare ha complessivamente ristagnato: nel bimestre gennaio-febbraio il saldo tra le posizioni attivate e quelle giunte al termine è rimasto circa sugli stessi livelli del 2020, immediatamente prima dello scoppio della pandemia (-65.000 in gennaio, 55.000 in febbraio). Le cessazioni sono state 707.000 a fronte di 697.000 attivazioni.

Il numero di posizioni di lavoro nell’industria risultava a fine febbraio superiore di circa 70.000 unità rispetto a un anno prima: la crescita è quasi esclusivalmente imputabile al settore delle costruzioni a fronte di un sostanziale ristagno nella manifattura (-6.000 posti) e negli altri comparti industriali (produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua). È stato “significativamente più ampio il calo registrato nei servizi privati”, pari a oltre 110.000 posti di lavoro in meno rispetto a un anno prima: -140.000 nel solo settore turistico. Particolarmente colpiti i lavoratori di ristoranti, alberghi e bar. Alle “rilevanti flessioni all’interno del turismo (alloggio, ristorazione e altri servizi), particolarmente intense nelle aree montane e nelle città d’arte”, spiega l’analisi, “si è associata anche una diminuzione della domanda di lavoro nel commercio non alimentare di tipo tradizionale (prevalentemente abbigliamento, pelletteria e calzature). Al contrario, il trasporto merci su strada (probabilmente trainato dall’aumento dell’e-commerce) ha creato nuova occupazione soprattutto nei centri urbani di maggiore dimensione”.

Tra marzo 2020 e febbraio 2021 i posti di lavoro occupati da uomini sono aumentati di 44mila unità rispetto all’anno prima, quelli delle donne sono diminuiti di 76mila, portando il divario di genere a -120.000 posizioni. Solo il 60% del divario è riconducibile alla composizione settoriale della domanda di lavoro: il resto potrebbe dipendere dalla minore partecipazione delle donne, su cui incide anche le difficoltà di conciliazione tra attività lavorativa e carichi familiari.

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Ex Ilva, Re David (Fiom): “Governo metterà 400 milioni di euro prima del 13 maggio, ma non è convinto del piano industriale di ArcelorMittal”

“Per quanto riguarda l’ex Ilva di Taranto, prima del 13 maggio il governo metterà 400 milioni di euro per garantire il lavoro. Il governo non è convinto però del piano industriale e delle vere intenzioni di ArcelorMittal, faranno delle verifiche. Abbiamo chiesto un tavolo complessivo sulle vertenze aperte ma non c’è alcuna certezza sulle tempistiche. Non posso misurare al momento l’impegno del governo”. Lo ha dichiarato Francesca Re David, segretaria generale della Fiom Cgil, dopo l’incontro con al ministero dello Sviluppo economico con Giancarlo Giorgetti.

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