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Reddito cittadinanza, Bersani a La7: “M5s fa voto di scambio al Sud? Fesserie colossali. Chi lo dice e parla di sfaticati è fuori come un balcone”

Polemiche elettorali sul reddito di cittadinanza? Tutti i Paesi civili hanno un reddito di ultima istanza. Ma finiamola lì, perbacco. Miglioriamolo, ma non mettiamoci in testa di tirarlo via, per l’amor di Dio. I poveri esistono, non è che è tutta gente che sta sulla poltrona”. Così, a “L’aria che tira” (La7), il deputato di LeU, Pier Luigi Bersani, commenta la posizione critica della ministra Elena Bonetti (Italia Viva) e di Armando Siri (Lega) sul reddito di cittadinanza.

Bersani si infervora quando viene proposta la clip della querelle avvenuta ieri sera tra il leader del M5s, Giuseppe Conte, e il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, di cui critica fortemente la tesi, che poi è la stessa di Matteo Renzi e di Italia Viva: al Sud Conte fa voto di scambio sul reddito di cittadinanza.
“Sono fesserie colossali – commenta Bersani – In Calabria il reddito pro capite è 17mila euro. A Trento è 40mila. Ma c’è da stupirsi che al Sud ci sia più sensibilità sul tema della povertà, sul reddito di cittadinanza o anche sull’autonomia differenziata? C’è una preoccupazione enorme nel Sud. Certo, più che al Nord. Ma i poveri ci sono anche al Nord. Di cosa stiamo parlando? Qui c’è un sacco di gente nei guai. Mi aspetterei che il dibattito fosse su come far di più, non su come far di meno, perché altrimenti sei fuori come un balcone“.

E aggiunge: “Ma, perbacco, come si fa a non vedere? Dicono che c’è gente che non vuol lavorare. A Napoli c’erano migliaia di laureati in fila per il posto da netturbino. Di cosa stiamo parlando? Sono problemi serissimi. Il punto è invece come si può far di più e dove prendere i soldi, e non certo a debito. Dicono che non riusciamo a prendere gli extraprofitti, ma, scusate – conclude Bersani – adesso mettiamo un contributo straordinario su tutti i profitti e poi esentiamo i profitti normali. Tra covid, armi, energia di extraprofitti, cioè di gente che ha fatto una barcata di soldi, ce n’è. Trovare 20 miliardi per aiutare chi non ce la fa non è così difficile. Se invece si pensa che il problema non ci sia e che siano tutti sfaticati, allora siam proprio fuori. Qui la cosa si fa serissima, perbacco”.

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Referendum Renzi, la Costituzione è la nostra forza: va fatta valere anche con gli altri governi

Il 4 dicembre 2016 il popolo italiano respinse con referendum la modifica della Costituzione, proposta da Matteo Renzi, al fine di attrarre maggiori poteri nell’Esecutivo, riducendo, nello stesso tempo, la “rappresentanza popolare” e i poteri referendari del popolo sovrano. In estrema sintesi, il disegno di modifica della Costituzione prevedeva: che il Parlamento fosse praticamente ridotto alla sola Camera dei Deputati, tranne alcune eccezioni (art. 10); che le firme richieste per proporre una legge di iniziativa popolare fossero elevate da 50mila a 150mila (art. 11); che, infine, il governo potesse chiedere alla Camera dei Deputati di “deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, fosse iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei Deputati entro il termine di 70 giorni dalla deliberazione” (art. 12).

Con queste e altre numerose modifiche, veniva in pratica cambiata gran parte della Costituzione vigente e si veniva incontro a coloro che, in virtù delle numerosissime leggi costituzionali fino ad allora emanate, affermavano la venuta in essere di una “Costituzione materiale” che avrebbe cancellato quella “formale”. L’esito referendario, tuttavia, ha confermato quest’ultima e ha tolto ogni dubbio in proposito.

Si trattava di una riforma che voleva dar forza all’azione, già da tempo intrapresa dai nostri governi, per cancellare il doveroso “obiettivo” di dare piena attuazione alla Costituzione, costituente l’ultimo “ostacolo” all’avanzata inarrestabile del neoliberismo. Quel pensiero unico dominante che, attraverso numerose leggi incostituzionali, aveva in pratica sostituito al “sistema economico produttivo di stampo keynesiano” (secondo il quale, e coerentemente con i principi fondamentali della Costituzione, si ritiene che la ricchezza deve essere distribuita alla base della piramide sociale, e lo Stato deve intervenire come imprenditore nell’economia), con il “sistema economico predatorio, illecito, cinico e incostituzionale del neoliberismo” (secondo il quale: la ricchezza deve essere nelle mani di pochi, tra questi ci deve essere una forte concorrenza e lo Stato non deve intervenire nell’economia).

Una molto esecranda operazione, che esaltava l’egoismo individuale (estraneo alla Costituzione) e abbatteva il principio fondamentale della “solidarietà politica, economica e sociale” del Paese.

Limitandosi alla cronaca dei fatti, si può dire che, nell’immediato secondo dopoguerra, il sistema economico italiano, grazie all’intervento dello Stato nell’economia, marciava a pieno ritmo. Il reddito nazionale cresceva e tutti erano rinfrancati dall’incremento dell’occupazione e dei consumi: l’Italia era stata addirittura fregiata di importanti riconoscimenti in campo finanziario.

Protagonista di questo successo era stato l’intervento dello Stato nell’economia, e primariamente l’attività imprenditoriale dell’Iri, il quale, nel 1980, possedeva circa mille società, con 500mila dipendenti, e ancora nel 1993 (quando era già stata decisa la sua liquidazione) era il settimo conglomerato al mondo per dimensioni, con un fatturato di circa 67 milioni di dollari.

Ed è da sottolineare che questo successo conquistato dall’Italia doveva aver suscitato, molto probabilmente, le preoccupazioni di altri Paesi occidentali.

È comunque un fatto indiscutibile che la “decadenza economica” dell’Italia sia stata realizzata dai nostri governi seguendo le idee neoliberiste propalate in tutto il mondo dal famoso libro di Milton Friedman, della Scuola economica di Chicago, dal titolo La storia della moneta degli Stati Uniti dal 1867 al 1960. L’obiettivo del neoliberismo, com’è noto, è di porre tutto sul mercato, prescindendo dal valore dell’uomo, da considerarsi solo come homo oeconomicus e talvolta come semplice merce; di abolire la solidarietà che è a fondamento dell’esistenza dei popoli; e, con questa, il “demanio costituzionale”, e cioè quel complesso di beni e servizi sui quali si fonda la “costituzione” e la “identità” dello Stato comunità. Trattandosi di beni e servizi, come precisa l’art. 42 Cost., “in proprietà pubblica” del popolo – o meglio, come affermò nel secolo scorso l’illustre amministrativista Massimo Severo Giannini – in “proprietà collettiva demaniale” del popolo stesso, e per questo un tipo di proprietà inalienabile, inusucapibile e inespropriabile.

Si tratta, principalmente; “del paesaggio, del patrimonio artistico e storico (art. 9 Cost.), dei servizi pubblici essenziali, delle fonti di energia e delle situazioni di monopolio (art. 43 Cost.).

Il primo colpo contro il sistema economico keynesiano, e, naturalmente, contro l’intervento dello Stato nell’economia, fu dato (molto probabilmente al solo fine di contrastare l’inflazione, ma fu una mossa estremamente ingenua e dannosa, come subito dopo è visto), dal Ministro Beniamino Andreatta, il quale, con una semplice lettera a Carlo Azeglio Ciampi, Governatore della banca d’Italia, in data 12 febbraio 1981 dispensò detta banca dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti. In tal modo venne meno la possibilità di pagare i nostri debiti stampando moneta e si attribuì alla Banca d’Italia piena indipendenza.

Insomma, da quel momento le necessità del popolo venivano messe in secondo piano rispetto alle richieste provenienti dal mondo economico finanziario, che miravano a ottenere leggi che favorissero la finanza senza tener conto dei bisogni della povera gente.

Il colpo mancino più duro all’intervento dello Stato nell’economia fu dato, tuttavia, dal Governo Andreotti, il quale, dopo essersi consultato con alcuni Governi Europei, con dl 5 dicembre 1991, n. 386, convertito nella legge 29 gennaio 1992, n.35, stabilì che gli enti di gestione delle partecipazioni statali e gli altri enti pubblici economici, nonché le aziende pubbliche statali, potevano essere trasformati in società per azioni.

La prima applicazione di questo principio si deve al governo Amato, il quale, dopo un mese e nove giorni dal discorso che fece Draghi il 2 giugno 1992 sul panfilo Britannia, invocando un forte impulso della politica per attuare la “privatizzazione” dei beni del popolo, emise il dl 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, trasformando in Spa le aziende di Stato Iri, Eni, Ina e Enel, che poi furono vendute, dai governi successivi e specialmente dal governo Prodi, a prezzi estremamente bassi.

Dopodiché c’è stata la privatizzazione di numerosissimi enti e aziende di Stato, che è impossibile enumerare.

Sulla convenienza di dette “privatizzazioni” si pronunciò poi la Corte dei conti il 10 febbraio 2010, rilevando “una serie di importanti criticità che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors e organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito”.

E’ inoltre da precisare che dette privatizzazioni sono avvenute secondo l’ispirazione di un preciso teorema che pone come primo elemento “l’indebitamento” di un Paese, per poi passare alla commercializzazione di questi debiti con le “cartolarizzazioni”, istituzionalizzate dal governo D’Alema, e con l’istituto dei “derivati”, definiti durante il Governo Prodi.

In tal modo si è messo a punto un obiettivo molto caro al pensiero neoliberista: quello della “finanziarizzazione dei mercati”, in modo che essi non servano più per “creare” ricchezza, ma per “trasferire” questa dagli speculatori meno accorti agli speculatori più scaltri.

Altro punto del teorema è quello, non finanziario ma economico, delle accennate “privatizzazioni”, cioè della trasformazione dell’ente o dell’azienda pubblica in Spa, con l’incredibile conseguenza che il “patrimonio pubblico” di tutti i cittadini, gestito per l’appunto da enti o aziende pubbliche, diventasse “patrimonio privato” dei singoli soci della Spa. A dette privatizzazioni sono poi da aggiungere le “liberalizzazioni”, e, quindi, le “delocalizzazioni” e le “svendite”. In tal modo il popolo è spogliato completamente del suo “demanio costituzionale” e si avvia, inconsapevolmente e nella indifferenza di tutti, verso il traguardo finale del default.

E si può dire, purtroppo, che da cinque anni a questa parte nulla è cambiato. Infatti il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato il cosiddetto Trattato del Quirinale, che a mio parere in pratica istituzionalizza la superiorità economica della Francia rispetto all’Italia, senza che neppure una Commissione parlamentare abbia potuto valutarlo;, e peraltro in pompa magna, dimostrando con i fatti la superiorità dell’Esecutivo rispetto al potere legislativo.

Ciononostante egli è osannato dai partiti e ha ora l’ardire di proporre al Parlamento un disegno di legge che esalta la “concorrenza” fino al punto di imporre ai Comuni l’onere di specificare i motivi per i quali esso abbia preferito una gestione in proprio, anziché ricorrere alle concessioni di carattere privatistico, imponendo inoltre di porre a gara sul mercato europeo e internazionale persino il servizio dei taxi e quello delle spiagge, sempre ignorando, e mai nominando, la nostra Costituzione.

Ma è proprio la Costituzione la nostra forza. E dobbiamo farla valere, non solo contro Matteo Renzi, com’è stato con il referendum del 2016, ma anche nei confronti di altri governi, come l’attuale, che insistono a ritenere il sistema economico neoliberista un dato di natura, mentre i fatti dimostrerebbero che si tratta semplicemente di un cinico disegno studiato a tavolino per togliere ricchezza al popolo, proprietario del “demanio costituzionale”, e donarla alla finanza e alle multinazionali. Cancellando così millenni di civiltà e riconducendo tutti a uno stato di soggezione, se non di schiavitù.

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Quando Renzi mostrava l’estratto conto da 15mila euro: “Se vuoi fare i soldi non fai il politico, se hai un saldo diverso da questo qualcosa non torna”. Da senatore ha incassato 2,6 milioni in due anni

“Se un politico ha conti correnti diverso da questo c’è qualcosa che non torna”: lo diceva tre anni fa, mostrando il suo saldo da 15mila euro, l’allora segretario del Pd Matteo Renzi. Che dal 2018 al 2020, però, ha incassato oltre 2,6 milioni di euro, come emerso dalle carte dell’inchiesta fiorentina sulla Fondazione Open. Non solo. Sempre in quella occasione l’ex Rottamatore si erse a esempio di trasparenza, portando in televisione i dettagli del suo deposito bancario; oggi però grida allo scandalo perché Il Fatto Quotidiano ha pubblicato il contenuto di atti non più coperti da segreto investigativo, come la chiusura indagini della procura del capoluogo toscano su Open. Da allora ad oggi sono cambiate tante cose, a cominciare dal portafoglio del senatore semplice di Scandicci.

2018: RENZI E LA POLITICA PER MISSIONE
“Se volete fare i soldi, non fate politica. Fai politica perché hai un interesse, un ideale, hai passione. Se vuoi fare i soldi vai nelle banche d’affari, prendi i contratti milionari che ti offrono, non ti metti a fare il politico. Chi fa il politico ha questi conti correnti (e sventola il suo con 15mila euro d’attivo, ndr), non ne ha altri. Se ne ha altri c’è qualcosa che non torna”. Il 17 gennaio 2018, ospite di Nicola Porro a Matrix, l’allora segretario del Pd Matteo Renzi ha voluto dare prova di trasparenza. (“su questo non transigo” dice). A modo suo. Inscenando un colpo di teatro. Erano i giorni della polemica nata da un’intercettazione telefonica in cui Carlo De Benedetti ordinava a un suo consulente di investire subito in Borsa 5 milioni di euro, operazione che gli avrebbe fruttato in poco tempo 600mila euro netti. L’ingegnere era sicuro: il guadagno sarebbe stato determinato dagli effetti del Decreto Banche a cui lavorava l’allora Governo Renzi e approvato dopo 4 giorni dall’intercettazione incriminata, datata 16 gennaio 2015. Come faceva De Benedetti a sapere che la legge sarebbe passata in così breve tempo? “Me lo ha detto Renzi” assicurò al suo consulente. Dopo 3 anni il Corriere della Sera pubblica il testo della telefonata e si scatena il finimondo. Renzi, finito nei titoli di tutti i giornali, va in tv e prova a spiegare. Dice che quanto comunicato a De Benedetti erano informazioni pubbliche, soprattutto vuole sfatare l’assunto per cui chi fa politica è un traffichino. Per farlo mostra a tutti, in favore di telecamera, il suo conto corrente: 15mila euro e spiccioli, quasi 5mila euro in meno rispetto a quando non era premier. Poi la parabola della politica fatta per ideale e non per soldi, l’assunto per cui con la politica non ci si arricchisce e, se questo accade, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Parole che fanno un certo effetto ascoltate a distanza di tre anni e, soprattutto, all’indomani della pubblicazione da parte del Fatto Quotidiano di quanto ha incassato il senatore Matteo Renzi dal 2018 al 2020: oltre 2milioni e 600mila euro, la maggior parte grazie alla sua attività di scrittore di libri, documentarista e, soprattutto, conferenziere. Attività e opportunità che è riuscito ad avere solo grazie alla sua attività politica, quindi in palese contraddizione con la retorica del politico che non si arricchisce, declamata in favore di telecamera.

20121: RENZI E I 26 MILIONI INCASSATI IN DUE ANNI
Quanto emerso dagli atti depositati nella chiusura indagini dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla fondazione renziana Open dimostra anche altro. Negli anni gli incassi di Renzi hanno avuto un trend di crescita impressionante: se fino al 2017 il reddito dell’attuale senatore semplice di Scandicci oscillava sempre tra i 100mila e i 140mila euro, nel 2018 il reddito è salito a quasi 800mila euro, per poi esplodere nel periodo 2018-2020 con un incasso di 2milione 644mila euro. Un somma, come si legge negli atti dell’indagine, racimolata grazie ai soldi pagati da una serie di soggetti per il secondo lavoro del senatore fiorentino. Che si è arricchito grazie alla politica, seppur indirettamente. Il Renzi del 2018 potrebbe quindi dire che con quel conto corrente c’è qualcosa che non torna? Non è dato sapersi. Di certo il Renzi del 2021 ha gridato allo scandalo perché il Fatto Quotidiano avrebbe pubblicato il suo estratto conto (falso: lo schema pubblicato dal nostro giornale altro non è che un’infografica, ricavata da atti non più coperti da segreto), minacciando querele, dichiarandosi vittima politica e chiedendo aiuto ai suoi amici (reali e virtuali) al fine di proteggerlo dall’ingiustizia. Quindi per il Renzi del 2021 è normale che un politico abbia movimentazioni milionarie sul conto corrente, con buona pace del Renzi del 2018 e della teoria del politico che non si arricchisce. Sui profili legali di quegli incassi ci sono varie inchieste in corso: Roma indaga sui quasi 700mila euro ricevuti dalla società riconducibile al manager dei vip Lucio Presta, Firenze sul presunto carattere di organo politico della Fondazione Open. L’ex premier, dal canto suo, continua a professare l’assoluta legalità degli incassi in questione, basandosi sul fatto che la legge del Senato non impedisce quelle attività collaterali. Resta la questione dell’opportunità politica di certe attività e la completa contraddizione tra quanto dichiarato nel 2018. All’epoca Renzi diceva di avere appena 15mila euro sul conto corrente: dopo cinque mesi comprerà una villa a Firenze da 1,3 milioni di euro. Sui soldi necessari per la compravendita (un prestito ricevuto da un imprenditore) indaga sempre la Procura del capoluogo toscano.

CHI HA PAGATO MATTEO RENZI
Un’inchiesta diversa da quella sul carattere politico della Fondazione Open, dai cui atti di chiusura indagine si è delineato una volta per tutte il caleidoscopico mondo dei finanziatori di Matteo Renzi. Qualche numero. Detto dei quasi 700mila euro ricevuti in sei scritture private dalla Arcobaleno Tre srl del figlio di Lucio Presta (la Procura di Roma indaga per presunto finanziamento alla politica), da sottolineare anche il mezzo milione di euro ricevuto dalla Celebrity Speakers Ltd, che si occupa dell’organizzazione di conferenze. Dalla società Algebris del finanziere Davide Serra, invece, arrivano oltre 147mila euro (sempre per interventi dell’ex premier durante eventi), quasi 84mila dalla This is spoken Ltd (Regno Unito, sempre conferenze), 64mila euro dalla statunitense Interaudi bank, poi a seguire altri versamenti (anche corposi) da un’altra serie di soggetti, tra cui università, un quotidiano coreano, varie società italiane ed estere. Poi c’è l’Arabia Saudita. Del rapporto tra Renzi e il principe ereditario Mohammad bin Salman si sa ormai tutto, anche gli oltre 80mila euro ricevuti dall’ex Rottamatore per due conferenze, soldi rispettivamente versati dal ministero delle Finanze e dalla Commissione per il turismo sauditi.

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Ddl Zan, l’ira di Fedez: “Complimenti! Un saluto a Matteo Renzi, oggi in Arabia Saudita”. Chiara Ferragni: “Pagliacci senza pa**e”

Si era speso in prima persona per far sì che il Ddl Zan fosse approvato e ora che è stata posta la parola ‘fine’ all’iter del testo, Fedez si è sfogato sui social: “Il ddl Zan è stato affossato, l’Italia continuerà ad essere uno degli ultimi paesi europei senza una legge contro l’omotransfobia”, ha scritto su Instagram. E ancora, con amara ironia: “Complimenti a voi tutti”. Poi si è scagliato contro Matteo Renzi: “Ma il Renzi che si proclamava paladino dei diritti civili è lo stesso che oggi pare sia volato in Arabia Saudita mentre si affossava il Ddl Zan? Per celebrare la libertà di parola organizziamo una partitella a scarabeo con Kim Jong-un? Gran tempismo. Comunque bravi tutti”. E ancora contro il leader di Italia Viva: “Un saluto al caro Renzi che ci ha trapanato i cogl***i per mesi e oggi pare fosse in Arabia Saudita (Paese in cui l’omosessualità è accettata con un piccolo prezzo da pagare… La pena di morte)”.

Anche la moglie Chiara Ferragni si è espressa: “Siamo governati da pagliacci senza pa**e“, ha scritto su Instagram commentando l’affossamento odierno del disegno di legge contro l’omotransfobia al Senato.

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Renzi e Meloni rompono il silenzio elettorale (parlando da posti dove non si vota o si vota la prossima settimana)

Uno presenta il suo libro a Parma, città dove non si vota, ma ne approfitta per rilanciare i suoi soliti slogan contro il reddito di cittadinanza e alla fine non resiste dal fare propaganda alla lista civica della sua protetta a Bologna. L’altra approfitta del fatto che parla dalla Sicilia, dove si va alle urne la prossima settimana, per provare a replicare ancora una volta al caso che ha travolto Fratelli d’Italia: l’inchiesta di Fanpage.it sulla campagna elettorale di Milano, tra “ammiratori di Hitler” e proposte di finanziamento in nero. Se alle ultime due elezioni (le regionali di gennaio 2020 e quelle del settembre dell’anno scorso) era stato Matteo Salvini a violare il silenzio elettorale, a questo giro sono ben due i leader politici che violano la norma inventata per concedere ai cittadini due giorni di riflessione prima del voto. E’ il caso di specificare che si tratta di una legge piuttosto datata: risale al 4 aprile del 1956, quando non esistevano i social, i giornali online e la televisione era praticamente agli albori. Insomma una norma che forse oggi ha perso il suo senso originario: ma essendo ancora in vigore, deve essere rispettata.

Probabilmente, però, Matteo Renzi non ci ha riflettuto. E’ andato a presentare il suo libro a Parma, che non è tra le città chiamate alle urne, e ha fatto scivolare il piede sulla frizione: ha attaccato il reddito di cittadinanza perché – dice lui – la gente “non può stare dalla mattina alla sera ad aspettare”, ha esaltato Mario Draghi per il Quirinale anche se lo preferisce a Palazzo Chigi (“Farebbe bene a fare il presidente della Repubblica, ma potrebbe continuare a fare il premier o a fare il leader europeo”), ha rivendicato di aver portato lui il presidente della Bce a capo del governo, e per questo ha attaccato ancora una volta il presidente di Confindustria: “L’idea di essere messi in crisi da uno come Carlo Bonomi andò in televisione mentre io avevo un mare di melma sulla testa, ero solo come un cane, e disse che le linee politiche di Giuseppe Conte e di Roberto Gualtieri andavano confermate nella continuità e che oggi dice di non toccare Mario Draghi: l’ipocrisia deve avere un limite”. Quindi, dopo essersi riconosciuto altri meriti (“Abbiamo salvato l’Italia da Morisi al Viminale e Casalino a Chigi: in entrambi i casi, il merito prendiamocelo noi”), è scivolato sull’argomento elettorale parlando di Bologna, dove invece domani si va a votare. “Isabella Conti ha fatto una lista civica e c’è la serietà di chi, come noi, ha partecipato alle primarie e dal giorno dopo ha iniziato a collaborare con chi le ha vinte. Questo fa pendant e da contraltare a chi, quando ha perso le primarie, se n’è andato”, è il messaggio a favore della sua candidata alle primarie, sconfitta da Matteo Lepore, candidato sindaco dei dem e dei 5 stelle. Ma non basta. Perché il leader d’Italia viva ha fatto propaganda pure per il suo nemico storico: Enrico Letta, segretario del Pd e candidato alle suppletive di Siena per un seggio alla Camera. “Io penso che vincerà le elezioni“, sostiene Renzi, ricordando di avere sostenuto pure lui la candidatura del suo vecchio rivale. “Abbiamo fatto un’operazione nella quale un senese deve votare per un pisano, che è sostenuto anche da un fiorentino: stiamo andando contro le leggi della fisica. Io sono andato a fare un’iniziativa”. Più in generale, Renzi ha parlato del possibile successo del Pd alle comunali: “Oggi può giocare la partita grazie a noi”.

Diverso il discorso di Giorgia Meloni, che parla da Vittoria, in provincia di Ragusa. La Sicilia, infatti, essendo regione a statuto speciale, ha fissato come data per le amministrative il 10 e 11 ottobre, una settimana dopo il voto nel resto del Paese. La leader di Fratelli d’Italia, dunque, parla da una regione dove il silenzio elettorale non è ancora scattato. Il problema è che esprime concetti di natura nazionale, riferiti a contesti dove parlare oggi sarebbe vietato. Un esempio? Quando quando si esprime sul video di Fanpage.it. Un giornalista infiltrato, infatti, ha documentato in che modo i dirigenti di Fdi gestiscono la campagna elettorale a Milano, tra presunti finanziamenti in nero e le pressioni dei gruppi di estrema destra. Dopo l’autosospensione dell’eurodeputato Carlo Fidanza, Meloni ha detto di essere pronta a “a prendere tutte le decisioni necessarie quando ravviso delle responsabilità reali”, ma prima ha chiesto “di avere l’intero girato di 100 ore. Poi farò sapere cosa ne penso”. Oggi è tornata sull’argomento dalla provincia di Ragusa, a quasi 1.500 chilometri da Milano, definendo l’inchiesta “una polpetta avvelenata a pochi giorni dal voto amministrativo”. Cosa intende Meloni? “Tre anni di giornalista infiltratoper mandare in onda 10 minuti di video nell’ultimo giorno di campagna elettorale e sulle pagine dei giornali nel giorno del silenzio, in uno stato di diritto no sarebbe mai accaduto”. Lo stesso giorno, quello del silenzio, scelto da Meloni per volare a fare campagna elettorale in Sicilia. Sarà un caso ma gli altri leader hanno deciso di andare sull’isola solo la prossima settimana, quando nel resto del Paese si sarà già votato.

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Continua la battaglia di Renzi e soci contro il Reddito di cittadinanza. Ecco perché le argomentazioni contrastano con la realtà

Senza timori di contestazioni almeno un merito il reddito di cittadinanza (Rdc) lo ha avuto: mettere a nudo le tare ataviche del sistema socio-economico del paese. E dunque povertà diffusa, retribuzioni compresse ai limiti della sussistenza, diffusi inganni ai danni di fisco e collettività, bassa scolarizzazione, inesistenza di strutture per favorire l’impiego e politiche attive del lavoro. Pensare che una volta introdotta la misura portasse magicamente con sé il superamento di tutti questi problemi è una lettura della realtà grossolana. Eppure, senza dubbio, qualcosa si è (s)mosso e, da qui, derivano le reazioni indispettite di soggetti politici come Italia Viva o, in modo più defilato, la Lega. Le parole di Mario Draghi (“uno strumento di cui condivido appieno i principi”) non hanno fermato la crociata. Il tema animerà lo scontro politico autunnale. Nel frattempo i quotidiani sono vivacizzati, si fa per dire, dalle baruffe renziane sul tema. Il leader di Italia Viva se la prende con la sociologa Chiara Saraceno, messa da Draghi alla guida della commissione per riformare il Rdc, “rea” di aver rinfacciato a Matteo Renzi una visione moraleggiante della gioventù italiana che preferisce “stare sdraiata sul divano” a prendere i sussidi invece che “soffrire, rischiare, provare”.

Intanto il gruppo guidato da Saraceno ragiona sui possibili correttivi alla misura da cui, forse, una parte del governo spera anche di attingere risorse per finanziare la riforma delle politiche attive del lavoro. A dire il vero le risorse assorbite dal reddito di cittadinanza non sono tali da cambiare i destini delle nostre finanze pubbliche. Si parla di meno di 10 miliardi di euro l’anno, quando solo per gli interessi sul nostro debito pubblico paghiamo, quando va bene, cinque volte tanto. Solo nel 2020 le imprese hanno ricevuto sussidi, in varia forma, per una quarantina di miliardi. Quelli del Rdc sono soldi spesi per cercare di trascinare fuori dalla povertà più nera milioni di persone. Denari che, almeno in una certa misura, ritornano in circolo nell’economia. Accrescono il potere di acquisto dei beneficiari che dunque consumano un po’ di più, riportando parte delle somme al Tesoro sotto forma di gettito Iva, accise e profitti aziendale. Stando agli ultimi dati Inps, i percettori sono 3,7 milioni ma, secondo la Caritas, il 56% delle famiglie povere non riceve il reddito a causa degli imperfetti criteri che presiedono all’erogazione.

Il Reddito di cittadinanza nasce con un peccato originale che è quello di unire una missione di contrasto all’indigenza a quella della re-immissione nel mercato del lavoro dei percettori. I numeri di questa seconda operazione non sono incoraggianti. E tuttavia sorprenderebbe il contrario, vista la cronica deficienza in Italia di politiche attive e di efficienti centri per l’impiego e la grave insufficienza di personale deputato a questo scopo. L’organico di chi dovrebbe accompagnare le persone verso un nuovo impiego è pari ad un quinto di quello tedesco. Soprattutto, come evidenzia la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra nella sua replica a Renzi, i due terzi dei percettori di Rdc sono individui particolarmente difficili da collocare sul mercato del lavoro, con basso titolo di studio, spesso la 5a elementare, e che sono da tempo lontani dal mondo del lavoro, in media da due anni. Il tutto in un periodo in cui l’occupazione complessiva è scesa dello 0,9%.

Alla luce dei dati Caritas, ma non solo, è opportuno correggere alcuni criteri di erogazione, non necessariamente in senso restrittivo. Senza dimenticare che parte della distorsione nelle assegnazioni deriva anche dalle fallaci dichiarazioni di lavoratori autonomi. Solito vecchio problema italiano dove sono tradizione gioiellieri o titolari di stabilimenti balneari (per citare due delle categorie che regolarmente occupano al fondo delle classifiche Mef sulle dichiarazioni dei redditi, ben al di sotto dei pensionati) beneficiati da agevolazioni che non spettano invece ad un operaio neo assunto. Quello che potrebbe cambiare è il requisito dei 10 anni di residenza chiesto agli extracomunitari per ricevere reddito. In fondo la misura fu varata con la Lega al governo ma questo, come facilmente intuibile, taglia fuori buona parte delle famiglie più in difficoltà.

Si sta mettendo mano a parametri che tarino meglio l’assegno in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Si valutano differenziazioni a livello geografico tenendo conto del costo della vita differente, ad esempio tra grandi centri urbani del Nord e aree rurali del Mezzogiorno. Ammesso che le differenze del costo della vita siano sempre così marcate, assunto che alcuni studi mettono in dubbio. Così come si lavora a potenziare i controlli sui percettori e a introdurre più condizionalità, come la partecipazione a corsi di formazione, per ricevere l’assegno. Misure queste, che potrebbero ridurre la platea dei beneficiari.

Il 30% dei percettori del reddito ha meno di 20 anni. È insomma il bacino da cui si attingono a piene mani molti datori di lavoro per proporre contratti con retribuzioni ben al di sotto della soglia minima di sopravvivenza e con condizioni lavorative capestro. L’esistenza del Rdc offre a questi giovani la possibilità di dire “no”, quanto meno alle offerte di lavoro più scandalose. Questo è l’aspetto che più disturba una parte della classe imprenditoriale, i cui malumori sono recepiti dalle forze politiche che vorrebbero eliminare la misura. Altre considerazioni sui presunti effetti nefasti della misura trovano il tempo che trovano mentre quello che non trovano sono riscontri reali. Da decenni l’Alaska corrisponde ai suoi abitanti una quota degli incassi che derivano dallo sfruttamento dei suoi giacimenti di petrolio. Non è mai stato rilevato un “effetto divano” sull’occupazione o sul desiderio di avere un lavoro. Stesse risultanze arrivano da un più limitato studio condotto in Toscana dopo il varo della misura italiana.

Pensarla diversamente significa ignorare la differenza tra sopravvivere (l’assegno medio percepito dai beneficiari del rdc è di 586 euro) e avere un tenore di vita soddisfacente. Significa dimenticare qualsiasi altro elemento, sociale, culturale, di autostima e realizzazione personale che spinge una persona a trovare e mantenere un’occupazione. C’è una frase nella replica della sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra che annichilisce la retorica di Italia Viva: “Si può essere poveri anche senza essere pigri”. Non c’è nessun effetto nefasto sull’economia riconducibile a misure universali di sostegno al reddito. E basterebbe alzare lo sguardo dal proprio ombelico per accorgersene. La Gran Bretagna ha introdotto un limite minimo nelle retribuzioni guardando più alla competitività del paese che al benessere dei lavoratori. Il ragionamento è semplice: se le imprese non possono competere comprimendo il costo del lavoro, sono obbligate ad investire, migliorare la qualità dei loro prodotti o spostarsi verso prodizioni più “pregiate”. O, più semplicemente, ribilanciare la quota di ricavi distribuita tra lavoratori e proprietari a favore dei dipendenti dopo che da 40 anni aumenta quella a favore dei secondi. Non è un caso che siano molti gli economisti che difendono il reddito universale di base proprio come uno strumento per forzare un paese a migliorare le proprie performances competitive.

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Zan a La7: “Renzi vuole mediare col sovranista Salvini? Allora meglio nessuna legge piuttosto che una che introduce discriminazioni”

Renzi fa una proposta di mediazione sul ddl Zan? Qui si vuole mediare sulla vita e sulla dignità delle persone. La proposta avanzata da Ostellari sul togliere il riferimento all’identità di genere dalla legge non è un dettaglio, ma è una crudeltà. Se allora Renzi vuole seguire Salvini per trovare una mediazione a tutti i costi, io dico che è meglio nessuna legge che una legge che introduce discriminazioni“. Sono le parole pronunciate a “In onda” (La7) da Alessandro Zan, deputato del Pd e primo firmatario del disegno di legge che prende il suo nome.

Zan spiega: “Adesso inizia la discussione generale e vedremo se realmente la Lega vuole questa legge come ha detto Salvini, ma io non ci credo perché tutti gli atti che si sono susseguiti sono stati volti ad affossare il ddl, dagli ostruzionismi in Commissione alle 170 audizioni della Lega. Adesso se Salvini ragionerà sui temi, è un conto. Se invece presenterà migliaia di emendamenti come pare, è evidente che non c’è nessuna voglia di approvare la legge, ma le sue sono solo dichiarazioni strumentali. Riguardo all’identità di genere, ricordo che questo termine, che Ostellari vuole togliere dalla legge, è sancito come diritto inviolabile della persona dalla Corte Costituzionale, è cioè una locuzione collaudata nel nostro ordinamento ed esiste in tante leggi – continua – ‘Identità di genere’ in una legge contro i crimini d’odio serve semplicemente per proteggere dalle violenze e dalle discriminazioni dei gruppi sociali, come le persone trans e transgender, che sono le più discriminate tra i discriminati. Non possiamo accettare questo in nome della mediazione. Si può mediare su tante cose, ma non sulla carne viva, sulla vita e sulla dignità delle persone. Se allora vogliono eliminare questo termine dal ddl, dovrebbero avere il coraggio di presentare altri emendamenti per toglierlo anche da altre leggi del nostro ordinamento”.

E conclude: “Quando si parla di mediazione, bisogna stare attenti perché la legge uscita dalla Camera è frutto di una lunghissima mediazione durata oltre un anno, con Italia Viva che è il partito ad aver chiesto più modifiche ed emendamenti, tutti accettati. Si può mediare su tutto, ma non sulla dignità delle persone. La mediazione che vuole fare Salvini, a cui va dietro Renzi, riguarda le definizioni di sesso, di genere, di orientamento sessuale e di identità di genere, peraltro richieste proprio da Italia Viva, dalla ministra Bonetti e dal ministro della Giustizia per la tassatività dell’azione penale. Su questo Renzi non può seguire il sovranista Salvini, lo stesso che ha firmato il manifesto di Orban “Dio, patria e famiglia”, un documento omofobo che contiene delle cose terrificanti”.

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Reddito di cittadinanza, Orlando: “Referendum di Renzi? Prima si dovrebbe conoscere la Costituzione”

“Referendum abrogativo sul reddito di cittadinanza? Prima si dovrebbe conoscere la Costituzione“. Sono le parole di Andrea Orlando, alla festa del Pd a Roma, che ha commentato così la proposta di Matteo Renzi di raccogliere le firme per cancellare la misura voluta dal Movimento 5 stelle. “Può essere riformato, questo sì, sopratutto nella parte delle politiche attive – ha aggiunto Orlando – ma non dimentichiamoci che ha salvato milioni di persone dalla povertà, soprattutto durante la pandemia”.

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“Reddito di cittadinanza diseducativo e clientelare”. La scelta di campo di Renzi: l’asse con Salvini viene prima dei poveri

È talmente controcorrente, come si intitola il libro con cui martellerà le orecchie e non solo in queste prossime settimane d’estate, che arriva a dire che non solo il reddito di cittadinanza è “diseducativo, come aveva già detto alcuni giorni fa, come se si sentisse il maestro Manzi. Ma che sono proprio “soldi buttati“. E se l’accusa al M5s di averlo introdotto solo come “voto clientelare forse scatenerà qualche baruffa via agenzia di stampa che lascia il solito tempo che trova, chissà come si sentono le migliaia di lavoratori con uno stipendio insufficiente per sopravvivere, minori che vivono in famiglie in difficoltà o disabili che non riescono a trovare occupazione per via della loro condizione, tutte categorie che, più di altre, secondo l’ultimo rapporto Inps sono tra quelle a cui il reddito di cittadinanza mette un ombrello sopra la testa. Così controcorrente da negare l’evidenza dei numeri e da ricordare un po’ quel buffo capo del governo che disse innumerevoli volte che certamente avrebbe vinto il suo referendum. Solo che questa volta non ci sono l’abolizione del Cnel e il Senato dei sindaci nel mezzo: qui si parla della vita della gente e allora è Andrea Orlando, ministro del Lavoro di un governo per cui Renzi ha un’estasi ogni volta che passa davanti a Palazzo Chigi, a ricordare di leggere almeno i dati prima di parlare. “Lo dico – dice Orlando – perché credo che la discussione che si sta sviluppando prescinde completamente dai dati che emergono dal rapporto. O si contesta questo rapporto oppure si parte da qui. E questo lo dico perché la discussione appare a un tasso di strumentalità che fa sospettare che si sia in procinto di attuare una pericolosa, sbagliata campagna contro i poveri e di criminalizzazione della povertà“. Guerra ai poveri.

Nemmeno Confindustria arriva a rilanciare esplicitamente la battaglia. Lo fa invece Matteo Salvini, che non perde occasione (due volte negli ultimi tre giorni) per accodarsi a Renzi sull’attacco al Reddito. Per l’ex presidente del Consiglio e per il suo partito formato citofono la priorità – ora che non è ancora finita una pandemia secolare – è abbattere non la corruzione, non l’evasione fiscale, non il lavoro nero, non il lavoro sottopagato, non l’inquinamento, non la criminalità organizzata, non gli incidenti stradali, non le interviste a pagamento ai principi sauditi, non l’abbandono di animali, non le buche per strada (la lista dei mali su cui concentrarsi sarebbe effettivamente sterminata) ma proprio il reddito di cittadinanza, misura “diseducativa” perché i poveri – hai voglia di dai e dai – non imparano mica mai a non esserlo più, poveri. Quando poi a Renzi chiedono “Scusi, sì, abbiamo capito, ma allora cosa ci metterebbe al posto del reddito di cittadinanza, come la aiuterebbe quella povera gente?”, lui risponde con la faccia brutta e il dito puntato da qualche parte che non accetta che nessuno gli faccia la morale perché è stato lui a portare i “denari per la povertà” (li chiama così) da “venti milioni a due miliardi e sette”. Insomma: non risponde. O meglio: “Il meccanismo del reddito di cittadinanza, non giriamoci intorno, è un meccanismo che non funziona, è soltanto un sussidio finalizzato a un sussidio”. Insomma: non risponde.

Risponde con un’altra cosa. Per esempio: “Il reddito di cittadinanza è, non un modo per aiutare i poveri, ma un modo per i 5 Stelle per buttare via i soldi”. Cioè come? Nel senso di una roba applicata male, da migliorare, da integrare? No, è stata inventata “al solo scopo di continuare ad avere consenso”. “È un voto clientelare garantito e organizzato che i 5 stelle intendono rappresentare e che noi vogliamo scardinare”. In pratica “hanno comprato i voti di tanti italiani poveri”, ecco, la sintesi in una frase. Solo che non l’ha detta Renzi ieri per presentare la sua ultima opera letteraria, ma Silvio Berlusconi nel 2019, vedi mai che l’elettorato (ammesso che ne avrà ancora uno, un giorno) non abbia ancora capito da che parte sta (capito, ora, elettorato?). C’è chi ironizza sul fatto che proprio ora che il M5s era nelle peste, con questa sbilenca pace raggiunta in extremis dopo una maxi-rissa tra i maschi della specie, Renzi ha trovato il modo di rivitalizzarlo dandogli un motivo per rimettersi a parlare del mondo che lo circonda.

E siccome Matteo Renzi sta pensando seriamente di firmare i referendum sulla giustizia dei Radicali come ha già fatto Matteo Salvini magari c’è qualcuno che potrebbe ricambiare il favore. “Dopo l’estate va rivisto il reddito di cittadinanza – ha detto proprio lunedì il leader della Lega – perché siamo pieni di imprenditori, ristoratori, albergatori in Calabria che non riescono a trovare personale. Molti rispondono che preferiscono stare a casa, con l’aria condizionata, con il reddito di cittadinanza piuttosto che andare a lavorare. Quindi c’è qualcosa che non funziona. Invece di creare occupazione, crea lavoro nero e disoccupazione”. D’altra parte lo stesso segretario del Carroccio – suo malgrado senza l’agognata aria condizionata – davanti alle video-inchieste sul lavoro stagionale sottopagato e al nero de ilfattoquotidiano.it, aveva dovuto concedere che ai propri figli avrebbe consigliato di rinunciare, ma comunque aveva minimizzato, dicendo che “ovunque c’è chi fa il furbo”.

Figurati in politica, ora che all’orizzonte sono un po’ più nitidi i contorni del Quirinale, a venti giorni dall’inizio del semestre bianco, ora che comincia la lunghissima, lentissima discesa verso la fine della legislatura. Si salvi chi può. Il ddl Zan, lo sblocco dei licenziamenti, ora il reddito di cittadinanza: i segnali li ha mandati. È quasi l’ora che qualcuno li raccolga.

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