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Rai, il Cda vara il nuovo modello organizzativo “per generi”: dieci Direzioni produrranno i contenuti per tutti i canali e le piattaforme

Il Consiglio d’amministrazione della Rai, riunito sotto la presidenza di Marinella Soldi, ha deliberato all’unanimità la transizione al modello organizzativo “orizzontaleper generi al posto di quello “verticale” – in vigore da quarant’anni – in cui ciascuna rete si occupa dei propri palinsesti. Il Cda ha dato mandato all’amministratore delegato Carlo Fuortes di procedere alla sua attuazione. Verranno istituite – comunica l’azienda di servizio pubblico radiotelevisivo – dieci Direzioni di genere che dovranno produrre contenuti per i canali Rai Uno, Due e Tre, per la piattaforma digitale Rai Play e per i canali specializzati, declinandoli a seconda dei diversi pubblici e dei profili editoriali dei canali e piattaforme digitali. Le dieci strutture si occuperanno rispettivamente di “intrattenimento prime time“, “intrattenimento day time”, “cultura ed educational“, “documentari”, “fiction“, “sport”, “cinema”, “approfondimento“, “kids” e “contenuti RaiPlay”.

Il modello per generi, “già adottato dai principali broadcaster pubblici europei” – comunica la Rai – “costituisce un fondamentale momento di discontinuità e un punto di ripartenza ineludibile per l’azienda, accelerando il processo di trasformazione digitale quale requisito necessario al mantenimento del ruolo centrale di servizio pubblico in un contesto multipiattaforma. L’evoluzione operativa dall’attuale organizzazione verticale a quella per generi si completerà con il varo del palinsesto estivo che sarà interamente programmato dalle Direzioni di genere. L’attuazione del modello per generi – conclude il comunicato – è il primo passo del nuovo piano industriale 2022-2024 che sarà elaborato nei mesi successivi, anche nell’ambito del prossimo contratto di servizio 2023-2027 e in relazione alle risorse economiche disponibili”. La riforma organizzativa – appoggiata, tra gli altri, dalla Fnsi e dall’associazione Articolo21 per la libertà d’informazione – era già stata prevista dal piano industriale sviluppato sotto il mandato dell’ex ad Fabrizio Salini (2018-2021) per poi essere bloccata dal Cda.

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Tv, dall’1 luglio parte la rivoluzione del digitale: gli apparecchi più obsoleti dovranno essere sostituiti

Dal primo luglio si cambia canale. Non è solo un modo di dire perché, a partire da quella data, si spegnerà definitivamente il digitale terrestre attualmente in uso (Dvb-T) per passare ad un nuovo standard di trasmissione (Dvb-T2). L’operazione è stata voluta dal governo di Matteo Renzi per liberare la banda 700 Mhz dalle tv e trasferirla alle compagnie telefoniche per lo sviluppo del 5G. Ma al tempo stesso è stata studiata per allungare la vita al duopolio Rai-Mediaset, già messo alle strette dallo sviluppo di Sky e dall’arrivo dei nuovi rivali della tv on demand via Internet come Netflix e Amazon. Il tutto non senza costi per le famiglie italiane che potrebbero essere costrette a cambiare nuovamente televisore oppure ad acquistare un decoder ad hoc.

Anche perché la transizione si completerà al primo settembre quando cambierà anche il sistema di compressione e codifica video passando dall’Mpeg2 all’Mpeg4. Che cosa significa esattamente? In pratica funzioneranno solo i televisori ad alta definizione (High definition, HD). Quindi se si vuole guardare la tv in chiaro via digitale terrestre e non si è in possesso di un apparecchio recente, bisognerà munirsi di un nuovo decoder oppure cambiare tv.

Non è un cambiamento da poco. Secondo un’indagine della Fondazione Ugo Bordoni, a settembre il passaggio al nuovo standard potrebbe tagliare fuori fra i 9 e i 10,2 milioni di famiglie. Quanto ai costi, secondo le stime di Consumerismo no profit, la transizione tecnologica comporterà una spesa compresa fra i 30 e i 150 euro a famiglia. “La stima è conservativa – spiega Luigi Gabriele, presidente dell’associazione di consumatori – Il costo può salire a seconda di cosa si decide di fare: nella lista di Tv e decoder compatibili con il Dvb-T2 sono presenti dispositivi per tutte le tasche”.

Canali 100 e 200 per testare il proprio televisore – Per scoprire se la tv di casa continuerà a ricevere il segnale, bisognerà fare un piccolo test. Come suggerisce Altroconsumo, basta sintonizzarsi sul canale 200 (canale test di Mediaset) o sul 100 (quello Rai). “Se si visualizza una schermata statica con la scritta “Test HEVC Main10”, allora può stare tranquilli: il proprio televisore riceverà il nuovo segnale tv anche dopo che il passaggio alla nuova tecnologia sarà ultimato (nel 2022). – spiegano dall’associazione di consumatori – Se invece andando sui canali 200 e 100 non si visualizza niente (uno schermo nero oppure non sono neppure sintonizzati i canali 200 e 100) allora il televisore in questione potrebbe non essere abilitato al nuovo standard. Il condizionale è d’obbligo per varie ragioni. Prima di fiondarsi a comprare un nuovo apparecchio è bene risintonizzare tutti i canali e poi provare ad andare di nuovo sul canale 200 o sul 100”. Inoltre sarà sempre possibile guardare la tv su telefonini, tablet e monitor sfruttando la connessione Internet e accedendo ai siti delle tv tradizionalmente seguite via digitale terrestre oppure alla tv on demand che gli italiani hanno imparato a conoscere meglio durante il lockdown.

Incentivi per cambiare la televisione – Infine da tempo il governo ha messo in campo incentivi finalizzati alla sostituzione dei vecchi televisori o all’acquisto di decoder satellitari e terrestri (Bonus TV – Decoder di nuova generazione (mise.gov.it) . Denaro (151 milioni in tutto) cui si potrà attingere ancora per tutto il 2021 (25 milioni il plafond) e per il prossimo anno (sempre entro il tetto dei 25 milioni stanziati). A patto però di avere un Isee fino a 20mila euro per poter ottenere uno sconto massimo da 50 euro per l’acquisto di un nuovo televisore o di un decoder. La richiesta, compatibile con l’Iva agevolata al 4%, va presentata direttamente al negozio compilando il modulo disponibile sul sito del ministero dello sviluppo economico. Tuttavia l‘adesione per i commercianti è facoltativa.

Inoltre sono stati tagliati fuori i venditori che operano esclusivamente online dal momento che è necessario rivolgersi al negozio per ottenere lo sconto. Forse anche per questa ragione finora il bonus tv non ha riscosso un grande successo: dall’inizio dell’incentivo (2019) alla fine del maggio scorso, erano stati erogati solo 25,6 milioni, un quarto rispetto alla stanziamento per il biennio. Ma c’è da scommettere che le richieste saliranno non appena il televisore non funzionerà più. Sono invece ancora bloccati i 100 milioni che il governo ha stanziato per la rottamazione delle vecchie tv senza limiti di reddito per i beneficiari. Manca il decreto attuativo che dovrà fissare le regole per accedere allo sconto di 100 euro senza Isee.

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Il Tar del Lazio condanna Report: “Concedere accesso agli atti all’avvocato leghista”. Ranucci: “Non sveleremo le nostre fonti”

Report dovrà svelare le fonti usate per lavorare a un’inchiesta sull’avvocato Andrea Mascetti, professionista di area Lega, vicinissimo ad Attilio Fontana. È questo, in sintesi, il contenuto di una sentenza del Tar del Lazio che ha dato ragione al legale sull’accesso agli atti in possesso della redazione di Report, relativi alla puntata ‘Vassalli, valvassori e valvassini’ del 26 ottobre 2020 ed in particolare al servizio giornalistico che lo riguarda. E ora la Rai, quindi, “dovrà consentire al ricorrente, entro giorni trenta dalla comunicazione o notificazione (se anteriore) della presente sentenza (18 giugno 2021, ndr), l’accesso agli atti e ai documenti”. La sentenza, infatti, fa riferimento alla “documentazione connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni riguardanti le prestazioni di carattere professionale svolte dal ricorrente in favore di soggetti pubblici, confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio di inchiesta giornalistica mandato in onda, nello specifico avente ad oggetto la rete di rapporti di consulenza professionale instaurati su incarico di enti territoriali e locali”. In altre parole l’avvocato l’avvocato Mascetti deve ottenere le richieste fatte da Report in merito alle sue consulenze.

Avvocato amministrativista, entrato agli inizi degli anni ’90 nella Lega senza mai avere incarichi ufficiali, negli anni Mascetti ha collezionato numerose consulenze da parte di enti pubblici guidati dal partito di Matteo Salvini: Nella puntata di Report Mascetti viene definito una delle figure “più misteriose” del mondo leghista. Per questo motivo il legale aveva già chiesto l’accesso agli atti ma la Rai aveva opposto “un diniego integrale” per diverse ragioni fra le quali l’esclusione del diritto di accesso “rappresentata dal segreto professionale ex art. 2, comma 3, L. n. 69/1963, connesso alla libertà di stampa” e “l’esclusione della Rai dall’applicazione della disciplina in tema di accesso civico in quanto società emittente, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati”. Un diniego integrale che ora la sentenza del Tar del Lazio ha fatto a pezzi. Creando un pericoloso precedente. “La sentenza del Tar del Lazio è gravissima. Viola la Costituzione, viola la libertà di stampa. Una sentenza miope che paragona il lavoro giornalistico a degli atti amministrativi. E’ come se Ilaria Alpi fosse morta per degli atti amministrativi”, dice Sigfrido Ranucci, conduttore del programma televisivo. “Questa sentenza – continua – crea di fatto giornalisti di serie A e di serie B: quelli che lavorano nel servizio pubblico non possono tutelare le proprie fonti, gli altri sì. E’ un attacco senza precedenti, dovuto alla debolezza delle Istituzioni in generale e alla delegittimazione della politica nei confronti del giornalismo di inchiesta. Report non svelerà le proprie fonti, non darà gli atti a Mascetti, non lo faremo neppure da morti. Devono venire a prenderli con l’esercito”.

Al fianco di Report si schierano la Federazione nazionale della stampa e l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di viale Mazzini. “La sentenza del Tar del Lazio che autorizza l’accesso agli atti di Report apre un precedente pericolosissimo. Rispettare le sentenze, non vuol dire non poterle criticare. E anzi sono l’occasione per chiedere nuovamente a governo e parlamento la necessità di un chiarimento urgente sulla natura giuridica della Rai”, si legge in una nota. “I giornalisti – continuano le due sigle sindacali – che fanno informazione in Rai non possono essere paragonati a funzionari della Pubblica Amministrazione. Pertanto le norme sull’accesso agli atti devono soccombere di fronte al diritto- dovere del giornalista di tutelare le proprie fonti. Altrimenti nei fatti si azzererebbe qualunque possibilità per i giornalisti Rai di fare il proprio lavoro, e ancor di più di fare giornalismo investigativo, così come nei doveri del Contratto di Servizio. La sentenza del Tar del Lazio condanna nei fatti il giornalista Rai a essere un giornalista di serie B. Siamo certi che la Rai farà appello con urgenza in Consiglio di Stato”.

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Il senso di Gasparri del rapporto tra politica e Rai: “A Sanremo hanno usato un mio audio, invece di fare interrogazioni ho chiamato il direttore…”

“Sul tema di cosa va in onda…io ho visto nella serata finale di Sanremo un audio mio, usato senza contestualizzarlo. E io ho chiesto al direttore della Rete, invece di fare interrogazioni. Ho chiamato il direttore, gli ho chiesto come mai fosse andato in onda l’audio e mi ha detto ‘non lo so’”. Così il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, intervenendo durante l’audizione del direttore di Rai3, Franco Di Mare, in commissione Vigilanza Rai, sul “caso Fedez”. Gasparri racconta un episodio che gli è capitato qualche mese fa, durante l’ultima puntata della kermesse musicale, quando un cantante ha usato un suo audio, “ma anche uno di Salvini”, al termine di un’esibizione: “Coletta mi ha detto che non lo sapeva, a volte quindi in televisione può fare quello che vuole, e questo è una bellezza”. Poi Gasparri continua, e conclude: “Premesso che è così, io vedo proprio una faida a sinistra”.

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Storia di una fake news: video de ilfattoquotidiano.it del 2013 sta girando sui social in Brasile come testimonianza di proteste anti-Covid















Un video del fattoquotidiano.it di Cosimo Caridi datato caricato il 9 dicembre 2013 su YouTube è diventato protagonista negli ultimi giorni di una fake news in Brasile, del tutto travisato dal suo contesto spazio-temporale. La nostra redazione negli ultimi giorni ha infatti ricevuto decine di segnalazioni di violazione da parte di YouTube, tutte relative al “furto” del video da parte di numerosi altri canali. È stato girato quasi otto anni fa a Torino mentre in piazza si stavano svolgendo le manifestazioni “anticrisi” dei Forconi e nelle immagini si vedono gli agenti mentre si tolgono i caschi. Un gesto al quale seguono gli applausi dei manifestanti. Ma le stesse immagini sono state utilizzate da diversi canali YouTube brasiliani come se fossero di stretta attualità e attribuivano il gesto dei poliziotti alla loro intenzione di schierarsi dalla parte dei cittadini che protestavano contro lockdown e misure anti-pandemia. Come se gli agenti si togliessero i caschi per disobbedire e schierarsi dalla parte di chi protestava. Le immagini sono state poi riprese anche da alcuni canali anche in Polonia e Russia.

Il video del 2013 – Dopo che i poliziotti si tolgono il casco seguono gli applausi dei manifestanti. La questura di Torino aveva poi chiarito che il gesto era motivato dal venir meno dello “stato di tensione e delle esigenze di ordine pubblico”, mentre il sindacato di polizia Siulp aveva invece affermato che il gesto era un segno “di manifesta solidarietà e totale condivisione delle ragioni a base della protesta odierna di tutti i cittadini che hanno voluto gridare basta allo sfruttamento e al soffocamento dei lavoratori e delle famiglie italiane”. A prescindere da quali siano state le reali intenzioni degli agenti immortalati nelle immagini, i fatti risalgono a quasi otto anni fa.

Il fact checking di O Globo – Chi dal Brasile ha fatto fact cheking e dimostrato che si tratta di fake news è la testata O Globo, che in un articolo dedicato al video del fattoquotidiano.it e alla sua diffusione nel Paese sudamericano, spiega perché si tratti di una notizia falsa. La testata segnala che il video del 2013 è circolato “ampiamente” sui social brasiliani, ma è stata riproposto “fuori contesto”. Secondo i canali che hanno pubblicato il video in questi giorni, scrive O Globo, “gli agenti si sono rifiutati di “ottemperare a ordini illegali” e hanno mostrato sostegno ai manifestanti che hanno criticato le restrizioni e le misure imposte dal governo italiano a causa della pandemia. Ma è falso”.

O Globo poi descrive il contesto al quale risalgono effettivamente le immagini: “Militanti di estrema destra, noti come Movimento dei Forconi, con bandiera italiana e sciarpe bianche al collo, hanno protestato davanti ai palazzi del governo contro le misure economiche. Secondo “Il Fatto Quotidiano”, media che originariamente ha pubblicato il video, la polizia si è tolta i caschi e non ha affrontato i manifestanti perché ritenevano che non rappresentassero un rischio per l’ordine pubblico”.

Brasile: l’attuale contesto politico – Il Paese sta vivendo una fase pandemica severa con una media di quasi quattromila morti al giorno e gli ospedali sull’orlo del collasso. Il presidente Jair Bolsonaro però continua a schierarsi apertamente contro misure di contenimento e lockdown, perché penalizzano l’economia. Bolsonaro, prima negazionista e ora riduzionista rispetto alla portata della pandemia, ha recentemente definito il Covid-19 “un’influenzuccia” che colpisce solo gli over 60 e si è apertamente scontrato con i governatori, che chiedono invece restrizioni al governo centrale. In particolare quello dello Stato di San Paolo, Joao Doria, ha accusato il presidente di essere uno “psicopatico”, che ha commesso “errori incredibili”. Anche l’ex presidente Luiz Inacio “Lula” da Silva, scagionato dalle accuse per lo scandalo Lava Jato, e probabile avversario di Bolsonaro alle presidenziali 2022, ha accusato il capo dello Stato di essere “responsabile del più grande genocidio nella storia” del Paese.

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Veneto, “se critichi la gestione della pandemia rischi la querela”. Giornalisti in piazza a Venezia: “No al bavaglio sul Coronavirus”

Come accade in tempo di guerra, anche con il Covid l’informazione non può essere disfattista, altrimenti rischia di essere accusata dalle strutture di potere di fare l’interesse del nemico. In Veneto sembra essere vietato attaccare il sistema sanitario, raccogliere testimonianze di medici o infermieri, dichiarare che nelle Rsa si muore, che il personale ha attrezzature scadenti, oppure che nelle terapie intensive non c’è posto e qualche paziente è morto in corridoio. Si rischia la querela per diffamazione o addirittura che un servizio televisivo venga inviato alla Procura della Repubblica per procurato allarme.

Nella regione che fino a qualche mese fa era additata come un modello sanitario, adesso la recrudescenza del morbo sta colpendo più duramente che altrove. Ogni giorno il governatore Luca Zaia tiene conferenze stampa-fiume per fare il punto della situazione, ottenendo titoli e prime pagine, ovviamente giustificate dalla drammaticità della situazione. Ma se accade che qualche giornalista si avventuri fuori dal sentiero tracciato, ecco i guai. È per questo che il Sindacato giornalisti del Veneto, con il segretario Monica Andolfatto, e la Fnsi, con il presidente Giuseppe Giulietti, hanno manifestato a Venezia, davanti a Palazzo Labia, sede della Rai del Veneto.

Matteo Mohorovicich, giornalista Rai, il 14 dicembre ha intervistato a Verona un operatore sanitario, lo ha ripreso di spalle, alterandone la voce, perché il dipendente di Borgo Trento aveva paura di ritorsioni sul posto di lavoro. È stato lui a denunciare la morte di pazienti in corridoio perché in terapia intensiva non c’era più posto. In conferenza stampa, il commissario dell’azienda ospedaliera Francesco Cobello – smentendo la ricostruzione del dipendente – ha adombrato l’invio dell’intervista in Procura per procurato allarme.

Ingrid Feltrin, direttrice del giornale online OggiTreviso, ha raccolto in esclusiva una lunga intervista a medici e infermieri del San Valentino di Montebelluna. Dicevano che i nuovi malati di Covid venivano mandati a casa perché non c’era più posto, che il numero di infetti tra il personale era in crescita e che la situazione era fuori controllo. Anche in questo caso è arrivata la smentita della direzione sanitaria, seguita da una conferenza stampa on-line con primari e medici fatti sfilare per dire che tutto andava bene. E, come appendice, la minaccia di difendersi “nelle sedi opportune”. Peccato che due giorni dopo siano arrivati a Montebeluna sette ispettori mandati d’urgenza dal ministero della Salute.

A Verona, invece, la giornalista Alessandra Vaccari de L’Arena ha raccolto una testimonianza (protetta dall’anonimato) dall’interno di una casa di riposo che svelava l’esistenza di una situazione gravissima. Ha ricevuto una lettera della direzione della Rsa, con la richiesta di smentire tutto. La replica di poter entrare nella struttura per verificare la situazione non ha ancora avuto una risposta.

“No bavaglio” è il logo della protesta dei giornalisti che hanno raccolto la solidarietà delle forze politiche di minoranza in Consiglio regionale del Veneto. Il Pd: “Il diritto all’informazione non può andare in lockdown, diciamo no alle querele bavaglio. I cittadini non possono essere informati esclusivamente tramite comunicati o dirette sui social”. “No al pensiero unico sulla sanità veneta. Abbiamo presentato un’interrogazione per chiedere alla giunta Zaia, anche in nome della libertà di stampa, di verificare quanto denunciato dai giornalisti rispetto alle carenze segnalate”, hanno dichiarato i consiglieri Cristina Guarda (Europa Verde), Elena Ostanel (Il Veneto che Vogliamo) e Arturo Lorenzoni, portavoce dell’opposizione. Anna Maria Zanetti, Anna Lisa Nalin e Corrado Cortese di +Europa Veneto hanno invitato “tutta la stampa veneta a continuare ad essere presidio di informazione e verità in un momento in cui la politica sembra voler nascondere tutta la sua debolezza e impreparazione”. Erika Baldin, dei Cinquestelle: “I cittadini hanno il diritto ad essere informati, qualsiasi attacco nei confronti degli operatori dell’informazione si qualifica da sé e va respinto al mittente”.

Foto d’archivio

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‘Essere donna nel 2020’: questo è il vero fenomeno Chiara Ferragni

di Silvia Grasso

Sarei molto curiosa, oggi, di sapere cosa pensano gli intellettuali che fino a ieri si scagliavano contro il fenomeno “Chiara Ferragni” dopo aver visto il video di poco più di 10 minuti che ha condiviso su Instagram, il suo social di riferimento, e che ha all’attivo più di 4 milioni di visualizzazioni.

Nel video, sapientemente intitolato “Essere donna nel 2020” si parla di slut shaming, victim blaming, revenge porn. Chiara Ferragni ne parla con davanti fogli di appunti scritti a penna, come si fa quando si studia per un esame, quando si deve comprendere a fondo una questione o, semplicemente, si deve capire e ricordare qualcosa che ancora non si conosce. Lo fa con una semplicità disarmante, ammettendo di avere ignorato la conoscenza di quei vocaboli fino a poco tempo prima pur avendo vissuto sulla propria pelle parte dei fenomeni di cui parla.

Come spesso accade a tutte le donne (e anche agli uomini), si è vittime (o artefici) di quello che non si sa ancora nominare, di ciò che non si conosce come fenomeno definito e processato ma solo come bagaglio esperienziale inconsapevole che ci investe e plasma ma che è invisibile. Tutte noi ci siamo sentite incolpate, direttamente o indirettamente, per i nostri comportamenti sessuali, per il fatto di essere soggetti desideranti e volitivi, per il fatto di essere disubbidienti rispetto a regole patriarcali che ci costringevano a educare la nostra natura, mentendo sulle nostre possibilità. A tutte noi è capitato di essere intimamente tradite e incolpate di essere causa del tradimento altrui e divorate dal senso di colpa in alcuni casi mortale.

Il senso di colpa dell’essere donna è radicato ed intrecciato alla paura di manifestarci fin dall’adolescenza. Agli e alle adolescenti si rivolge Chiara Ferragni: ad un pubblico vastissimo di ragazzi e, soprattutto, ragazze che fino a ieri come lei non sapevano il significato dei fenomeni sociali e culturali che investono e condizionano la nostra società e il nostro essere donne e uomini.

A 15 anni, certe cose io non le conoscevo: ci sono arrivata con il tempo, gli anni e lo studio. A 15 anni, oggi, certe cose ti possono arrivare attraverso uno smartphone e attraverso una influencer che esercita (bene) il proprio privilegio e il proprio potere, lavorando ad un investimento collettivo enorme: quello futuro. Questa è la pratica dei femminismi, anche se inconsapevole e non dichiarata. Questo è il vero fenomeno Chiara Ferragni.

Il blog Sostenitore ospita i post scritti dai lettori che hanno deciso di contribuire alla crescita de ilfattoquotidiano.it, sottoscrivendo l’abbonamento Sostenitore e diventando membri del Fatto social club. Tra i post inviati Peter Gomez e la redazione selezioneranno quelli ritenuti più interessanti. Questo blog nasce da un’idea dei lettori, continuate a renderlo il vostro spazio. Se vuoi partecipare sottoscrivi un abbonamento volontario. Potrai così anche seguire in diretta streaming la riunione di redazione, mandandoci in tempo reale suggerimenti, notizie e idee, sceglierai le inchieste che verranno realizzate dai nostri giornalisti e avrai accesso all’intero archivio cartaceo.

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La scelta del Giornale di Brescia: se ne va da facebook. “Falsità e insulti: non vogliamo più essere corresponsabili, impossibile moderare”

Il Giornale di Brescia, nell’editoriale scritto dalla direttrice Nunzia Vallini, ha annunciato la “sospensione degli aggiornamenti sulla sua pagina Facebook”. A causa di “troppe parole in libertà, troppi insulti, troppo astio. E troppi profili fake, che – continua Vallini – se non generano notizie altrettanto false, si dilettano in manipolazioni neppure tanto dissimulate”. Il quotidiano ha scelto quindi di uscire dai social, anche perché ritiene ci sia una “corresponsabilità quantomeno morale se gli aggiornamenti di una pagina diventano, volenti o nolenti, pretesto per veicolare falsità o, peggio ancora, commenti che nulla hanno a che vedere con la pluralità delle idee e loro libera e sacrosanta espressione, e ancor meno con il diritto-dovere di informare ed essere informati”.

La direttrice Vallini racconta che la pagina Facebook del Giornale di Brescia era ormai infestata da “falsità, rabbia e frustrazioni”, al punto che la redazione evitava di pubblicare su Facebook le notizie più delicate, “perché diventava impossibile moderare il fiume dei commenti”. Il quotidiano di Brescia sarebbe stato infatti attaccato dalla precisa volontà di qualcuno di infiammare il dibattito online (in gergo viene chiamato flame), godendo dell’algoritmo di Fb che privilegia la visibilità dei contenuti che innescano più reazioni. “In azione sulla pagina – spiega Vallini – non erano ‘amici’ seppur falsi, bensì bot (robot) capaci di sparare messaggi a raffica con automatismi che hanno reso vano ogni tentativo di moderazione manuale. Ecco perché abbiamo messo in lockdowm la nostra pagina Fb: scendiamo da questa giostra, usciamo da questa piazza malsana che ci fa diventare quello che non siamo, che non siamo mai stati e che non vogliamo diventare, ovvero la piattaforma di lancio di chi sfrutta questo tipo di dinamiche alimentando scontri e tensioni, oltre che una vera e propria campagna di disinformazione spacciata per sedicente controinformazione”.

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Aggressione a un giornalista di Rete 4? Beppe Grillo pubblica il video di ciò che è realmente successo: “Guardate, resta in piedi”

Il giornalista che incespica per le scale – non si capisce se qualcuno dall’interno del locale lo abbia spinto – ma subito si gira e continua a riprendere Beppe Grillo con il suo telefonino. Il video, pubblicato sul blog del cofondatore del Movimento 5 Stelle, mostra l’episodio che l’inviato della trasmissione di Rete4 Dritto e rovescio aveva denunciato come un’aggressione, sostenendo poi di aver riportato distorsioni e una prognosi di cinque giorni e incassando la solidarietà di Associazione Stampa Toscana e Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Mentre Paolo Del Debbio aveva aperto la puntata della sua trasmissione dicendo che “Francesco Selvi non meritava di essere buttato giù dalle scale da un leader politico”.

“Le immagini che seguono potrebbero urtare la sensibilità dei giornalisti onesti“, commenta Grillo. Nel video della scena, ripreso il 7 settembre da una telecamera della reception del locale sulla spiaggia di Marina di Bibbona, Selvi non cade ma “scivola” sui cinque gradini di legno. Arrivato in fondo, barcolla ma subito si gira e continua a riprendere. Il comico commenta con la canzone Cinque giorni di Michele Zarrillo: un riferimento ironico alla prognosi che la spinta di Grillo avrebbe causato all’inviato.

La presunta aggressione era stata stigmatizzata da Del Debbio che in tv aveva fatto una lunga requisitoria contro Grillo, accusato di esibire una mentalità “fascista”, “ignorante” e di essere affetto da “senilità precoce” e pure di “tirchiaggine“. “Un leader politico non tira giù dalla scala un giornalista. Perché ce l’hai con i giornalisti? Fattela con me, vengo da un quartiere popolare di Lucca a me non fai paura, non ti sto minacciando perché sei un poveretto” aveva aggiunto.

E subito si erano affrettati a manifestare solidarietà la candidata del centrodestra alla presidenza della Regione Toscana Susanna Ceccardi – “La liberta’ di stampa e’ il fondamento di ogni democrazia, è vergognoso che chi inneggia alla democrazia diretta si permetta poi di aggredire un giornalista nell’esercizio della propria professione” – e Matteo Renzi che aveva definito Grillo “inqualificabile”. L’Associazione Stampa Toscana e la Fnsi erano intervenute esprimendo indignazione: “Non è tollerabile che un personaggio impegnato in maniera diretta o indiretta in politica, quindi un uomo pubblico a tutti gli effetti, reagisca in maniera violenta davanti a un giornalista che sta solo esercitando la sua professione”.

Video Il blog di Beppe Grillo

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Boicottaggio Facebook, prima di sparare sul social prendete bene la mira

Se io fossi al posto di Nick Clegg, non perderei tempo a spiegare al mondo che è più importante la libertà di espressione della censura. Sono settimane in cui è in atto una sorta di boicottaggio delle aziende nel confronti di Facebook. E nelle ultime ore è arrivata la replica del vice presidente degli affari globali e della comunicazione di Menlo Park, Nick Clegg, che dice in sostanza che “l’odio non ci avvantaggia”.

L’odio in rete non si combatte rimuovendo un tweet del presidente degli Stati Uniti. E su questo non posso che essere d’accordo, La mossa del concorrente Twitter è stata solo mediatica, potevi copiare e incollare quello stesso messaggio e rilanciarlo con altri 100 account diversi e il messaggio sarebbe stato lì, altri avrebbero potuto rilanciarlo e condividerlo, nessun automatismo l’avrebbe rimosso, nessun automatismo è stato in grado di rimuoverlo. Lo testimonia il mio tweet ancora on line, come potete vedere.

E allora a che punto siamo della storia? Il social network di Zuckerberg è sotto accusa su più fronti: di fare poco e niente per combattere Donald Trump, le fake news, i nazisti dell’Illinois, l’odio in rete, le cavallette, la povertà, la fame nel mondo, etc…

Più di 3 miliardi di persone usano Facebook (si sono iscritti in maniera consapevole e volontaria), dicevano che sarebbe durato poco, ricordo un articolo dell’Espresso del 2014 – Facebook non va più di moda tra i giovani “Ora cercano più intimità e riservatezza”. Certo, è vero, poi però diventano grandi e si iscrivono a Facebook, come iscriversi all’anagrafe degli adulti, di coloro che partecipano alla società, le cose che accadono su Facebook fanno notizia.

Ora tutto questo può anche non piacerci, che i nostri dati, i nostri desiderata, i nostri gusti, le nostre fantasie, le nostre abitudini vengano vendute anonimamente ad aziende che ci propinano la loro merce. Ma non è altro che lo specchio di come ha sempre funzionato la società dei consumi, solo che Facebook ha reso efficiente quei meccanismi che offline era più difficile attuare.

Tornare indietro significa spegnere la pur piccola voce che ha il cittadino, il consumatore, il piccolo utente, la piccola azienda, la piccola realtà economica, chi sa esprimersi senza conoscere un minimo di codice ha la possibilità di comunicare a migliaia e milioni di persone, ha la possibilità di organizzare una rete politica, sociale, di solidarietà, è in grado di promuovere valori positivi che aiutano gli altri.

E poi ci sono le grandi compagnie, i grandi gruppi mediatici, che hanno scambiato Facebook per l’ennesimo canale broadcast dove poter scaricare la stessa merda che hanno propinato per anni in radio e in tv. E poi sì, ci sono anche i nazisti, i gruppi di odiatori, i promotori dei peggiori istinti in rete e fuori dalla rete.

Ecco, Nick Clegg sta spiegando in queste ore che ci sono tutti i meccanismi per denunciare e limitare questo tipo di messaggi di odio, ma che è molto difficile, “come cercare un ago in un pagliaio”, anche con l’enorme dispiegamento di mezzi tecnologici e umani che il social network mette a disposizione. La censura: quella sì che potrebbe decretare la fine di Facebook, ma questo non significherebbe che l’odio in rete verrebbe sterminato, ma solo nascosto.

E allora ben vengano tutte le nuove iniziative che il social network sta mettendo in campo: le informazioni sul Covid che ha messo a disposizione durante l’emergenza, promuovendo le fonti autorevoli e istituzionali; negli Stati Uniti in queste ore sta offrendo informazioni chiare su come registrarsi per votare alle presidenziali del 4 novembre, ha cambiato l’algoritmo del suo newsfeed (per ora solo per la lingua inglese) che premia il giornalismo di qualità a discapito delle tante trash-news che circolano in rete.

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