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Il vinile torna a furoreggiare grazie alla Rete: è il mercato, baby

Da qualche anno il vinile è tornato a furoreggiare. Quantomeno questa è la sensazione degli appassionati di musica. Un’impressione, va detto, viziata dalla vicinanza affettiva con il tema in questione. Cosa intendo? Così come un ipocondriaco fa caso a qualsiasi respiro notandone minime differenze con il precedente, così un appassionato che vive l’ambiente musicale avrà delle sensazioni più solerti su variazioni minime del mercato.

La verità, in Italia, sta nel mezzo: nel primo semestre del 2019 (come comprovato dal report di Fimi) il vinile ha rappresentato il 31% del mercato delle vendite fisiche, che a loro volta hanno rappresentato il 27% del mercato discografico italico. Che è sempre più trainato dallo streaming, che rappresenta il 73% del mercato, ma non ha lo stesso peso nelle tasche degli artisti.

Tornando al vinile, parte del riscontro che sta avendo – anche sulle giovani generazioni, nonché sulla riaccensione della passione tra gli aficionados d’antan – è dovuto alla veicolazione online. Decisamente in linea con i tempi è la disamina di Johnny con il suo canale YouTube Vinilicamente. Forte di una community attiva ed affezionata, l’appassionato toscano – che vive vicino Firenze – promuove la cultura vinilica parlando, come dice in ogni video, di “musica a 360 gradi”. E che sia proprio così è facile riscontrarlo tanto nei filmati del format Dischi in uscita quanto in quelli dedicato ad un altro formato, intitolato I miei vinili.

Chi ama questo supporto non potrà che godere seguendo le numerose disamine su stampe e ristampe (da vedere quella dedicata a Epica Etica Etnica Pathos dei CCCP, con tanto di intervista ad Alessandro Cutolo di Elettroformati, che si è occupato della rimasterizzazione), ma pure gli speciali su cuffie e impianti (molto interessante quello su cosa acquistare a meno di 2000 euro). Johnny non è l’unico a parlare di vinili, intendiamoci, ma lo fa con un’etica del lavoro, con una cultura musicale e con una capacità tecnica notevoli. Lo trovate intervistato anche nel libro di prossima uscita Rocker & Youtuber, acquistabile su Produzioni dal Basso.

Sempre legato al web è il discorso relativo ad un documentario, originario del 2018 ma disponibile da poco su Amazon Prime, e quindi più in vista che in passato. Si intitola Vinilici e contiene decine di testimonianze di addetti ai lavori e musicisti. Tra le più interessanti segnalo quelle di Carlo Verdone, collezionista vero, che narra anche di una pruriginosa storia capitata alla sua copia di Led Zeppelin III. Non mancano l’immarcescibile Red Ronnie (che peraltro proprio sul web, su YouTube, dà seguito alla sua carriera televisiva), Elio e le Storie Tese e Lino Vairetti degli Osanna. Ne esce un racconto del vinile romantico, vivace, intelligente. Si tratta anche di un bel modo per cominciare a capire meglio questo mondo, oltre che per curiosare nella collezione di alcuni collezionisti.

Tornando al discorso sul mercato discografico attuale, ed incrociandolo con quello, molto sentito, del guadagno per l’artista, va da sé che un vinile, venduto ad un prezzo medio di 20 euro, sia foriero di maggiori guadagni sulla singola vendita del prodotto. Partiamo dal presupposto che, togliendo i costi di stampa su qualche centinaio di copie, l’artista intaschi circa 10 euro. Per pareggiare tale cifra con gli streaming su Spotify servono l’equivalente di circa 3100 ascolti. Per pochi, sicuramente non per tutti.

E quando scrivo questo non penso certo a Paul McCartney, Taylor Swift o i Pink Floyd; bensì alle migliaia di band che potrebbero raggiungere qualsiasi cifra – come vogliono far credere tanti guru da anni – ma non lo fanno. Il mercato è questo, prendere o lasciare, baby.

Ps. Lo stesso concetto, con cifre diverse, vale per il cd.

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Frankie hi-nrg mc a FqMagazine: “Il governo deve pensare ora al settore musica. C’è chi dice che solo per la ripresa dei concerti dovremo aspettare 18 mesi. Molte persone saranno costrette a cambiare mestiere”

Su Twitter si definisce “solo un rapper, ma di quelli d’una volta”, ma Frankie hi-nrg mc è molto di più. Sui social c’è chi ama le sue parole, le sue opinioni su politica e società. Un artista che non si tira mai indietro. Frankie hi-nrg mc a FqMagazine dice la sua sul momento difficile, che il mondo dello spettacolo sta vivendo a causa del Covid-19. Il rapper invita il governo a inserire nel prossimo decreto misure concrete, invita la gente a capire che dietro uno show ci sono centinaia di persone che lavorano e hanno una famiglia, e infine auspica che in Italia si punti tutto sul patrimonio culturale, “solo così si salva il Pil”.

Hai partecipato all’appello di Fiorella Mannoia, Laura Pausini e tanti altri colleghi al governo per tutelare i lavoratori più deboli. Quali le prospettive?
Purtroppo non sta a me definire le tempistiche. Ho voluto condividere un appello per stimolare il governo, il premier e il ministro della Cultura con il fine di poter focalizzare l’attenzione – per la prima volta – al mondo della musica e dello spettacolo, non alle branchie del mondo del cinema, della lirica o delle arti alte, che da sempre e storicamente godono di una attenzione particolare da parte dei governi. Esiste un altro mondo fatto di tecnici e operatori, che rendono possibile gli spettacoli e che ora sembrano invisibili agli occhi della politica, ma vorrei dire che sono stati invisibili anche negli anni scorsi. Un universo di lavoratori che riguarda non solo i tecnici, ma anche le piccole compagnie composte da attori, che non solo non hanno la fortuna di esibirsi alla Scala di Milano, ma non hanno alcun tipo di ammortizzatore sociale e vivono di partite Iva. Siamo stati la prima categoria a fermarci a causa del Covid-19 e saremo gli ultimi a ripartire.

Perché è importante alzare la voce?
Agli occhi del governo e anche di parte dell’opinione pubblica, non si ha la minima idea di come funzioni il mondo dello spettacolo. Ci sono persone che sono convinte che sia responsabilità di un cantante pagare gli stipendi di chi monta il palco.

Ti riferisci alle polemiche, dopo il giusto appello di Tiziano Ferro?
La gente non lo ha capito. Non si è nemmeno spiegato male, sono andato a riascoltare il suo intervento. Lui ha semplicemente detto ‘ragazzi, non possiamo essere noi a decidere, il governo deve dare risposte e date concrete’. Un po’ come ha dichiarato anche il presidente della FIGC Gravina che ha affermato, più o meno: ‘Non voglio essere il becchino del calcio italiano, se il governo decide che il campionato si deve fermare, mi toglie una patata bollente’. Si tratta di responsabilità e poi di piano di attacco. Invece siamo qui, fermi, ad aspettare, che siano i singoli a risponderne con il rischio e la conseguenza di muovere cause e processi.

Come risponderà il governo, secondo te?
L’altra sera da Gramellini ho visto l’intervista al ministro della Cultura Franceschini. Il suo era tutto un ‘vedremo, faremo’. Io capisco che è difficile e dura per tutti, ma ho avuto l’impressione che ci fosse un ministro gonfiabile, pompato il tempo della sua ostensione e poi ripiegato, come un canotto e riposto al suo ministero. Qui parliamo di settori della cultura dilaniati, ci sono lavori che coinvolgono migliaia di persone, di professionisti, di gente che si fa il culo e rischia la vita a fare i lavori nel mondo dello spettacolo. Pensiamo anche a quelli che lavorano con l’elettricità o che sfidano la forza di gravità in cima alle impalcature per montare quel cazzo di faro. La speranza è che qualcuno si accorga di tutto questo. Proprio, come ha invitato a fare lo scrittore Stefano Massini, con il suo bellissimo monologo a ‘Piazzapulita’ che mi ha emozionato. Ad esempio, su Spotify non sentiamo solo il cantante e la sua canzone, ma il prodotto del fonico, del suono della chitarra costruita da una ditta, importata, trasportata, accordata da un accordatore e via dicendo. C’è un sacco di gente che transita, dietro un prodotto. Questo era il senso.

Secondo le stime di Assomusica, a fine stagione estiva ammonteranno a circa 350 milioni di euro le perdite per il solo settore del live. Cosa si potrà fare?
C’è chi dice che solo per la ripresa dei concerti dovremo aspettare 18 mesi. Molte persone saranno costrette a cambiare mestiere, altri dovranno cambiare le loro specificità. È assurdo perché abbiamo bisogno di loro. Ve ne siete anche accorti durante le dirette Instagram o in alcune performance incise a casa. Si sentono di merda! La mancanza del fonico si sente, il suo è un apporto fondamentale. E non solo il suo…

Sei ottimista per il prossimo decreto governativo? Saranno accolte le dieci proposte delle associazioni della musica?
Sì, volendo essere ottimisti. Volendo essere realisti, chissà… Chissà se si troverà spazio e se non ci sarà una supercazzola con il ministro di turno, che farà spallucce. In Italia la cultura dovrebbe rappresentare il 70% del Pil. Arte, cultura e turismo devono essere valorizzati, invece sono vittime di logiche da rapina. Laddove c’è un tentativo di valorizzare qualcosa, si viene vampirizzati e i fondi vengono consegnata a entità maggiori, come ad esempio per la cementificazione dei litorali. Dovrebbe esserci un ministero separato sia per lo spettacolo, che cultura e turismo. Abbiamo abolito tutto per referendum. Assurdo. Preferisco essere ottimista e non realista, ci sarà una modalità di sopravvivenza per chi campa del lavoro dello spettacolo.

Su Twitter hai scritto, commentando l’operato della Regione Lombardia, “non c’è spazio per gli incompetenti nella vita di una nazione”. Questa pandemia farà pulizia?
No. Ci sarà un cambio di incompetenza nei posti strategici, dove ognuno siederà con le proprie incompetenze. Una quantità enorme di violente cazzate hanno pregiudicato e pregiudicano la vita di intere Regioni. Vorrei ricordare agli elettori che non basta attaccare il politico di turno (che spesso farebbe bene a stare zitto) oppure liquidare tutto con una battuta e scappare. Bisogna ricordare tutto, segnarselo e quando saremo chiamati a votare esprimere il nostro pensiero.

(Foto di Damiano Andreotti)

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Fabrizio De André, la mia ‘smisurata preghiera’

La mia personale, smisurata preghiera ebbe inizio nell’autunno del 2003, quando per le mani mi ritrovai un doppio cd. Si intitolava Faber, amico fragile. Fu così che conobbi Fabrizio De André. Grazie alle voci di chi a un anno dalla morte, al Teatro Carlo Felice di Genova, gli aveva reso omaggio: Celentano, Vasco, Battiato, Zucchero, Loredana Bertè, Fiorella Mannoia, Eugenio Finardi, Mauro Pagani.

Qualche mese dopo, dalle casse del salotto risuonò la sua voce da sciamano. In casa, i miei genitori avevano la raccolta dei primi brani, Volume I, Tutti morimmo a stento, La buona novella, Storia di un impiegato e Anime salve. Piano piano comprai gli album mancanti e una chitarra. Iniziai ad accumulare libri sulla sua storia e a imparare le canzoni. A scuola, quando c’era il tema in classe, lasciavo che fosse un suo verso a ispirarmi.

Col tempo, non senza qualche scatto interiore da amante geloso, ho scoperto che De André è di tutti. Chi lo ama ha il proprio ricordo unico e insostituibile; una storia legata a una canzone. Un’emozione. E più o meno segretamente coltiva l’idea, senz’altro elitaria, che il mondo possa essere diviso in due: chi lo apprezza, da una parte, e chi non lo conosce, dall’altra (tertium non datur, perché il credo vuole che alla conoscenza corrisponda, necessariamente, l’ammirazione).

Oggi avrebbe compiuto 80 anni. Provo a pensare, con rabbia ed egoismo, a cosa avrebbe potuto regalarci. E, con rimpianto, ai concerti a cui non ho mai assistito e che, così piccolo, non avrei mai capito.

Su chi fosse De André e su cosa rappresenti non voglio scrivere una parola (ci sono studi e persone più brave di me nel farlo). Dico solo cosa sia e che cosa rappresenti per me: un ponte. Un ponte col mio retrobottega. Quel luogo che raggiungiamo quando ci spogliamo della fretta nel fare le cose, del disappunto per un torto subito, della preoccupazione per un’occasione persa o che potremmo mancare. Quel luogo, in definitiva, che sta due o tre livelli sotto la superficie dell’ordinario. Dove ci occupiamo solo di una cosa: conversare con la nostra anima, qualsiasi cosa essa sia. Ecco, De André per me è il tramite d’accesso a questo posto. Un posto che, ahimè, troppo spesso trascuro.

Ps. Stasera e domani sera, in molti cinema, trovate Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato, il docufilm sul concerto del 3 gennaio del 1979 a Genova.

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Il sessismo in musica esiste e la qualità ne risente. Ecco cinque luoghi comuni da sfatare

Quello del sessismo è certamente il tema caldo del momento: oltre infatti ad aver caratterizzato il grosso delle polemiche sorte intorno alla prossima edizione del Festival di Sanremo, il tema è stato già trattato da Daniele Silvestri nel brano Blitz gerontoiatrico; ne ha poi parlato in modo assolutamente lucido Grazia Di Michele in alcuni recenti articoli pubblicati sulle pagine di Optimagazine; ne ha fatto addirittura apertura di puntata Massimo Giletti nella sua Arena su La7, ospitando tra gli altri un combattivo Red Ronnie che su questo tema ha profuso ogni sua energia.

Io, che sul tema del sessismo musicale ho scritto in tempi assolutamente non sospetti, sono tornato sull’argomento qualche giorno fa in luogo di una piacevole chiacchierata con Giustina Terenzi su Controradio, collegando la deriva sessista al tema della deflazione musicale.

Già, perché la deflazione è in economia quel processo per cui la riduzione dei prezzi si ripercuote negativamente per le imprese sui ricavi, col conseguente tentativo delle imprese stesse di ridurre il costo del lavoro. Dall’avvento dello streaming la musica non vende più come un tempo, e i ricavi sono ridicoli se paragonati a quelli a cui si era abituati fino a una ventina di anni fa. Un qualsiasi disco pop di metà anni Novanta o primi Duemila poteva costare cifre astronomiche, e questo perché si aveva la consapevolezza che gli incassi, grazie alla vendita dei cd fisici, avrebbero di gran lunga superato i costi di produzione.

Ciò significava, in buona sostanza, poter coinvolgere i migliori musicisti esistenti, ingegneri del suono e tecnici di prim’ordine, oltre che i migliori cantanti e autori possibili. Costi, al giorno d’oggi, assolutamente impensabili: chi produce musica ha dunque iniziato da tempo a delocalizzare, spostando cioè la produzione su “artisti” che costano infinitamente meno di altri. Ne deriva una sorta di discount musicale che però ci costa moltissimo in termini qualitativi e contenutistici, dunque poetici, un po’ come quando dal prestigioso Made in Italy si passa al Made in China.

Ma andiamo ora a sciogliere i più diffusi luoghi comuni in difesa della narrazione sessista.

1) “Anche Tizio, Caio o Sempronio hanno dato della troia a una ragazza in una loro canzone”, è stato più volte detto. Ebbene, tirare sempre in mezzo le cadute di stile altrui per giustificare una sistematica operazione di violenza nei confronti delle donne, perché trattasi di operazione sistematica e non di casi isolati, è tipica, psicologicamente parlando, dell’età infantile, ossia di quei bambini che, trovati a combinarla grossa, tirano in mezzo qualcun altro al fine di spostare l’attenzione e non prendersi le proprie responsabilità.

È un grosso problema dunque quando simili atteggiamenti giungono da persone adulte, gente che dovrebbe saper rispondere delle proprie azioni senza fare ogni volta lo scaricabarile e usare come parafulmini i grandi nomi del passato. A ogni buon conto certe espressioni, prive di rispetto verso chicchessia, restano sempre da condannare, da chiunque esse giungano.

2) “Non offendiamo tutte le donne – è stato detto – ma solo quelle che si meritano di essere chiamate troie”, e già la cosa farebbe accapponare la pelle così. Ma siccome abbiamo sempre voglia di argomentare, pongo una semplicissima domanda: chi, di grazia, può dirsi giudice delle libertà sessuali altrui? Chi può stabilire entro quali limiti una donna sia angelo del focolare e dopo quali altri diventi immediatamente troia? Ebbene, questo genere di sudicia retorica non fa che riportarci a tempi bui, e Dio o chi per lui ce ne scampi.

3) “La musica è finzione, proprio come nei film”: il cantante o band di turno fingerebbero dunque di essere chi in realtà non sono. Peccato però che la musica, finanche quella cantata, non sia per definizione stessa arte scenica: “Nelle canzoni – ha giustamente osservato un’ascoltatrice di Controradio – si può parlare di stupro, violenza, omicidio, purché l’intenzione sia narrativa e non indottrinante. Per intendersi: ‘L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa, c’ho rivestito la maschera’ è ben diverso da ‘Ho sentito la storia di un matto che ha ucciso una ragazza e della sua borsa ne ha fatto una maschera’”. Troppo facile raffigurare le donne come bestie meritevoli di qualsivoglia genere di abuso, violenza o perversione maschili e dopo, come se niente fosse, rispondere alle accuse asserendo fosse tutta finzione. Di certi messaggi, come di qualsiasi messaggio, occorre avere il coraggio di assumersi la responsabilità.

4) “Anche Medea ed Edipo mettono in scena un infanticidio e un incesto”. Peccato però che sia la prima sia il secondo, così come ogni mito, fiaba o leggenda, siano dotati di una loro morale. Nel caso di certi rapper e trapper non vi è invece alcuna morale finale, alcun insegnamento: nella loro narrazione loro vincono sempre, e vincono non in quanto più intelligenti, capaci o abili degli altri, ma semplicisticamente in quanto più violenti e autocelebrativi, in una pericolosissima gara nella quale, a ben vedere, ci perdiamo tutti.

5) “Si limitano a descrivere la realtà che li circonda, ne sono rappresentazione”. Ebbene, occorre osservare a riguardo che ogni singolo periodo storico è stato pieno di schifezze inenarrabili, ma essere rappresentazione o figli del proprio tempo non significa farsi indefessi promotori delle sue più abiette manifestazioni, ma avere la capacità di elaborarle con ragion critica, trovando soluzioni possibili ai mali che attanagliano il proprio tempo.

Occorre, in chiusura, ricordare come il successo non sia di per sé garanzia di qualità, e c’è chi con la spazzatura riesce a farci i milioni. Le ecomafie, da questo punto di vista, ne sono un esempio, ma la spazzatura che trattano, anche se motore di incredibili giri economici, spazzatura resta.

È il caso di chiudere con le parole raccolte in rete da un altro dei protagonisti di Controradio, Giuseppe Barone, utili a fare un definitivo punto della situazione e rispondere al falso mito della libertà d’espressione (come se la stessa non avesse dei precisi limiti e non imponesse dunque dei doveri): “Allora facciamo così: sostituiamo a Gioia che fa la troia un Lucio che è frocio, un Pedro che è negro o un Matteo che è ebreo. Fanno tutti la stessa fine di Gioia. Vediamo se il ragionamento regge.”

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