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Alle ragazze col sogno dell’ingegneria e della tecnologia: fatelo diventare realtà!

Mia figlia Magda, che lavora da anni in un’azienda ad alta tecnologia, si sente fare da sempre questa domanda: “Ma perché Ingegneria? Non è più un mestiere da uomini?”; ed è stufa. Ora, è vero che a Ingegneria c’è sproporzione di genere, ma questa è un’anomalia sociale, certamente non si deve confondere con un’inferiore capacità. Lo dimostrano alcune signore di cui vi parlo oggi.

Conosco Rita Cucchiara, professore ordinario di Sistemi dell’Elaborazione dell’Informazione all’Università di Modena e Reggio Emilia, fin dal suo dottorato a Bologna. Da lì in poi, la sua carriera è stata una sfilza di successi (e di ostacoli superati). Per lei, come per le altre di cui parlerò, sarebbe troppo lungo riportare un curriculum anche sintetico; mi fermo alle realizzazioni più recenti. Nel suo passaggio dalla ricerca in visione robotica a quella in intelligenza artificiale, Rita ha dato un impulso formidabile alla comunità italiana di quel settore, soprattutto durante la sua presidenza del Cvpl. Le sue ricerche attuali vertono in gran parte sul riconoscimento automatico del comportamento umano, sull’interazione fra umano e calcolatore, fra umano e veicolo.

Probabilmente avrete visto Rita in qualche trasmissione televisiva o sul web, perché attualmente dirige il Laboratorio di Intelligenza Artificiale e Sistemi Intelligenti del Consorzio Interuniversitario per l’Informatica, vale a dire oltre 900 ricercatori di 45 università italiane. Sarebbe assurdo che l’Italia non fosse in prima linea nella travolgente evoluzione dell’intelligenza artificiale; per farlo ha bisogno di coordinamento, ma non da parte di un burocrate, bensì di uno scienziato con qualità manageriali; Rita è la persona giusta.

Prima di parlarvi di Cecilia Metra, professore ordinario di Ingegneria Elettronica all’Università di Bologna, devo presentarvi l’Ieee, Institute for Electric and Electronic Engineers: è la massima organizzazione mondiale per ingegneri dell’area che va dall’energia elettrica ai dispositivi elettronici alla robotica. Con base a New York, ha membri in oltre 160 nazioni ed è divisa in diverse società; una delle più importanti, con oltre 50.000 membri, è la Ieee Computer Society.

Cosa c’entra questo con una professoressa della mia Alma Mater? C’entra eccome, visto che Cecilia è stata Presidente dell’Ieee Computer Society nel 2019! Va bene la sua attività di ricerca nella progettazione di circuiti integrati, nella modellistica dei guasti eccetera; va bene la sua vasta attività nei comitati editoriali delle massime riviste del settore; va bene la collaborazione con Intel, STMicroelectronics eccetera, ma un’affermazione del genere richiede qualità superiori. Alla faccia dei detrattori dell’università italiana e degli ingegneri donna.

Non basta. A chi ha passato il testimone Cecilia? Chi era Presidente della Computer Society nel 2020? Un’altra italiana, Leila De Floriani! Leila adesso ha una cattedra all’Università del Maryland, ma non disconosce certo la formazione e la carriera all’Università di Genova, dove ha lasciato una traccia consistente. Delle tre colleghe, Leila è quella di cui conosco meglio le ricerche, dato che lavora allo sviluppo e applicazione di strumenti matematici per la modellazione e visualizzazione geometrica e per il riconoscimento di forme: non per nulla fra i suoi molti riconoscimenti è anche Fellow della Iapr, International Association of Pattern Recognition. Ma c’è una sorpresa: Leila è laureata in Matematica, alla faccia dei detrattori di questa disciplina. A proposito della Iapr, il primo presidente italiano è stata la fisica del Cnr di Napoli Gabriella Sanniti di Baja!

Nessuno si meraviglia che a Matematica ci siano più femmine che maschi. Però di solito si correla questo dato all’insegnamento; invece sono molte le matematiche brillanti nella ricerca. Cito solo Michela Spagnuolo, che dirige l’Imati, Istituto di Matematica Applicata e Tecnologie Informatiche del Cnr grazie alle doti scientifiche e dirigenziali sviluppate sotto la direzione di quella persona fantastica che è Bianca Falcidieno. Le matematiche eccellenti nelle università italiane, poi, sono tante che non ne cito nessuna per non offendere le altre.

Insomma, ragazze che avete il sogno della tecnologia: fatelo diventare realtà. Non lasciate insinuare che, come donne, vi manchi qualcosa per competere con chiunque: per creare sistemi e oggetti fisici e virtuali che funzionano, per sviluppare teorie e metterle in pratica ci vuole solo una persona competente, che sia maschio o femmina.

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Il Coronavirus passerà, la scuola e il sistema sanitario resteranno. Ma non se saranno devoluti alle Regioni

Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, pensatori, scienziati, navigatori, trasmigratori, ma anche di magistrati, economisti, allenatori di calcio, urbanisti, insegnanti (a seconda delle occasioni) oggi si scopre popolo di virologi ed epidemiologi. Complice l’approssimazione dell’informazione ufficiale e il protagonismo dell’agorà virtuale (dove pronunciarsi – qualsiasi cosa si dica – significa esistere) moltissime sono diagnosi, pareri, sentenze, indignazioni a cui siamo quotidianamente, volenti o nolenti, sottoposti.

Torniamo al tradizionale cuique suum, a ciascuno il suo. Non mi unirò alla funambolica lista di commenti (non richiesti) e mi limiterò, da insegnante, ad alcune osservazioni rispetto al tema della formazione, strettamente implicato nella questione Coronavirus. Tanto più da ieri, con il Dpcm che decreta la sospensione della didattica in tutti i servizi educativi, scuole e università sul territorio nazionale.

1. Nessuno può credere che il provvedimento di chiusura delle scuole possa rappresentare da sé solo un ostacolo definitivo alla propagazione del virus. Ma è pur vero che bloccare una popolazione di circa 8 milioni di individui – tra personale della scuola e studenti – significa snellire l’intasamento dei mezzi pubblici e diminuire le possibilità di contagio che la scuola stessa potrebbe favorire.

Nelle classi pollaio, che i tagli sulla scuola hanno prodotto, la vicinanza tra banco e banco, tra posto e posto è generalmente minima. Qualsiasi precauzione e vigilanza sono inutili. In questa situazione, bloccare la didattica significa anche che i bambini e i ragazzi non diventino inconsapevoli incubatori del virus: nonni e immunodepressi certamente non potranno che beneficiare di questo provvedimento.

2. Qualora il provvedimento dovesse rimanere limitato ai 10 giorni appena decretati, la sospensione della didattica non dovrebbe ragionevolmente rappresentare un problema, tanto più che è in gioco la salute della collettività e la tenuta del Ssn. Altro è dire un periodo più lungo. A questo proposito è stata pubblicata una nota del Ministero dell’Istruzione. La normativa prevede che l’organo competente per la didattica siano il Collegio docente e le sue articolazioni.

Essendo il Dpcm norma di secondo livello, subordinata alla legge, il richiamo al collegio è implicito, per forza di legge. Questo significa che nessun dirigente può prevedere accelerazioni unilaterali né imposizioni che non siano contemperabili in tale quadro.

Da questa mattina io, come credo la maggior parte dei docenti italiani, siamo stati subissati da mail che proponevano materiali per la didattica a distanza da parte delle case editrici (piatto ricco…). Penso però che i docenti italiani siano già attrezzati a sufficienza per concordare e condividere pratiche adeguate per mantenere un contatto significativo e una continuità che contemperi il diritto allo studio, anche a distanza, e il rispetto della legge.

3. La questione al momento più spinosa posta dalla chiusura delle scuole è certamente quella che riguarda le difficoltà cui le famiglie italiane si sono improvvisamente trovate a far fronte. In questo senso – e prima di ogni altra cosa – occorrono provvedimenti urgenti, che non possono che concretizzarsi in agevolazioni per i genitori lavoratori in termini di permessi retribuiti e sostegno economico per l’assistenza ai minori. E’ qui prima di tutto che si salda la prioritaria questione sanitaria con gli aspetti economici posti dalla chiusura, cercando anche in questo campo un equilibrio che l’allarmismo delle prime ore e la marcia indietro di qualche giorno dopo non sono riusciti a contemperare.

4. Infine due considerazioni: in questi anni la scuola – con i pochi fondi che le sono arrivati – ha investito prioritariamente sul proprio “ammodernamento”, troppo spesso coinciso con una entrata a gamba tesa sul “cosa” attraverso il “come”. L’emergenza di questi giorni ci rivela che le sempre nuove tecnologie sono uno strumento utile, utilissimo in questo momento, ma non sufficiente a sostituire la relazione, che sola può produrre sapere significativo. Uno strumento, appunto, da affinare per far fronte a situazioni inimmaginabili, come quella che stiamo vivendo. E non il fine e la mediazione irrinunciabile della nostra professione, come – con una tendenziale violazione della libertà di insegnamento – si è tentato di fare negli ultimi 15 anni.

E poi: il Covid-19 passerà, i sistemi di istruzione e sanitario nazionali (speriamo che) rimarranno. Il progetto di autonomia differenziata, che li devolverebbe insieme a tante altre importantissime materie alle Regioni, ha trovato in questa emergenza nazionale la prova concreta dell’iniquità e inefficacia di quel progetto.

E poi: cosa sarebbe accaduto se – anziché nelle sviluppatissime tre regioni del Nord – la zona rossa fosse stata (o, malauguratamente, sarà) in Basilicata e Calabria o in altre delle regioni i cui
sistemi sanitari stentano a sopravvivere? L’esigenza di una gestione centralizzata di questa emergenza significa rispetto dell’interesse generale della collettività nazionale. Potenziare (e non depauperare, come si è fatto costantemente negli ultimi 20 anni) questi presidi di democrazia e uguaglianza che configurano la possibilità di tutte/i di accedere a diritti universali significa prendersi cura di un Paese, della sua identità, della possibilità di accedere per ciascuno di noi, ovunque si sia nati, a quei diritti.

La sensazione è che stiamo passando uno di quei momenti trascorso il quale nulla sarà più come prima. I nodi sono venuti al pettine, attraverso un virus che – più o meno di un’influenza che sia, non sta a me dirlo – ha portato alla luce la nostra globalizzata fragilità. Solo una riflessione sugli errori fatti potrà evitare che il dopo abbia un volto peggiore del prima.

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