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Donald Trump contro l’Oscar a “Parasite”: “Ridateci Via col vento”. Poi attacca il “saputello” Brad Pitt

Il concetto di “America First” applicato all’Oscar. Al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non è piaciuta l’assegnazione del premio di quest’anno come miglior film al sudcoreano “Parasite“, entrato nella storia dell’Academy: per la prima volta, infatti, un film non in lingua inglese è stato premiato con il massimo riconoscimento. E non ha nascosto le sue perplessità durante un comizio a Colorado Springs, in Colorado.

Quanto sono stati mediocri gli Academy Awards quest’anno?“, ha chiesto Trump alla folla scatenando un coro di disapprovazione. “Avete visto? Il vincitore è un film della Corea del Sud! Che diavolo è questa cosa?“, ha proseguito il presidente sottolineando che “abbiamo avuto abbastanza problemi con la Corea del Sud per il commercio. Oltre a questo gli danno il miglior film dell’anno?“.

Trump ha quindi ammesso di non aver visto ‘Parasite‘. “E’ stato bello? Non lo so”, ha ammesso il capo della Casa Bianca che ha evidenziato una certa nostalgia per i classici di Hollywood. “Torniamo a ‘Via col Vento‘ per favore? A ‘Sunset Boulevard’. Grandi film“, ha insistito Trump. Le critiche del presidente hanno suscitato la replica piccata della Neon, la casa di distribuzione del film, che ha fatto riferimento su Twitter alla presunta avversione del presidente per i sottotitolo: “Sono comprensibili, non può leggere”. Poi il Presidente Usa ha lanciato una stoccata anche contro Brad Pitt che ha sostenuto l’impeachment: “È un piccolo saputello!”.

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1917, tanto rumore per nulla. Il film di Sam Mendes è un bluff di proporzioni esagerate

Tanto rumore per nulla. Ma proprio nulla. Se 1917 è un lungo piano sequenza, chi scrive è Stanley Kubrick. Da vivo. Mica siamo qui a giocare a chi la sa più lunga. Alfred Hitchcock, che nel film viene citato a sproposito due volte, anche se una basterebbe e avanzerebbe, ci aveva già spiegato con Nodo alla gola che il virtuosismo stilistico è, paradossalmente, fumo negli occhi. 1917, quindi, montato qua e là almeno sette, otto, nove, dieci, cento volte, ma spacciato maldestramente per un unico take è intanto una penosa furbata commerciale priva di ogni possibile giustificazione cinematografica come non ne vedevamo da tempo.

Seconda questione. La forma. Per analizzare questo aspetto però un piccolo passo indietro. Prima guerra mondiale. Retrovie del fronte inglese in terra francese. Due caporali (David MacKay e Dean-Charles Chapman) a riposo temporaneo in un prato vengono gettati in missione tra le linee nemiche. Quindici chilometri corsi tutti d’un fiato in nemmeno 24 ore, tra terra di nessuno, trincee, cadaveri, cunicoli, topi, bombe, ruderi, cecchini, aeroplani nemici, per avvisare la seconda divisione del colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch), composta da 1600 uomini, della trappola tesa loro dai tedeschi. Orbene, sappiatelo subito. 1917 è formalmente un videogame. Sì, un lungo susseguirsi di livelli guadagnati a suon di imprese militari. Spara al tedesco, dieci punti. Salta il fosso, meno un punto di energia. Bevi il latte di mucca, più cinque barrette di energia. Accarezza il neonato, bonus vita. Ogni livello è connotato da un set completamente diverso come se la differenza esagerata cromatica e spaziale tra l’uno e l’altro fosse l’unico motivo trainante per proseguire la visione. Così al campo in luce di cadaveri seguono i cunicoli bui, al paesello distrutto notturno illuminato dai razzi e dagli incendi segue il fiume impetuoso con tanto di altissima cascata modello Niagara (sic), al boschetto tranquillo la terribile trincea cava di gesso. Non parliamo di verosimiglianza storica ma di opportunità di significato. Davvero l’unico modo di costruire una drammaturgia è quello di affastellare ambienti naturali differenti? Cos’è l’album di foto dell’asilo nido o che altro?

Andiamo avanti. A forza di simulare uno sparatutto di classe, una pantomima tecnicamente accurata sia mai, come può esserlo un qualsiasi 007, ma non quelli di Sam Mendes, specifichiamo, i protagonisti, che poi lo sanno anche i sassi ne rimarrà solo uno, si tramutano in marionette così spersonalizzanti che basta l’inquadratura di spalle di una giubba per dire che stiamo seguendo un inglese. Spiace dirlo, ma qui lo spessore umano dei/l fuggitivi/o diventa piatto come quello del protagonista di una barzelletta. C’erano un inglese, un tedesco, un italiano… Inutile che Mendes ci appiccichi ogni tanto una citazione e/o un canto biblico tra commilitoni oscillanti tra il patetico e il solenne. Il carotaggio in profondità per registrare il battito cardiaco delle truppe è sottozero. Non c’è anima dentro a 1917 ma solo smunto delirio performativo.

E se in Dunkirk, per dire un capolavoro che armeggia con il tema della guerra, del patriottismo, e in fondo della tanto vilipesa pace, il dispositivo del cinema unificava gloriosamente uno sparpagliamento del fato, in 1917 c’è tanto, estenuante calligrafismo ma senza un barlume di sentita visione umanitaria accentratrice. Il messaggio pacifista e antiautoritario di film che ancora si sporcavano nell’orrore della trincea 15-18, titoli come Orizzonti di gloria o Uomini contro, anelito politico che nel film di Rosi (il secondo, ok?) diveniva perfino anticlassista, qui si assottiglia fino a scomparire, venduto come sobbalzante eroismo ginnico. 1917 candidato a ben 10 Oscar – è un bluff di proporzioni esagerate. Buono per chi non si è mai fatto una partita a Call of duty. Frame stop: il sopravvissuto del duo sballottato come un passante in metropolitana dagli urlanti soldati che escono all’attacco dalla trincea e che letteralmente non si accorgono di lui. La messa in scena di una impressionante sciocchezza che fa a pugni, e qui le vette di tristezza e imbarazzo sono superate, con la storia.

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1917, il cinema diverso di Sam Mendes: mesi di prove e 65 giorni di riprese che non potevano essere ripetute

Potrà piacere o meno, ma 1917 di Sam Mendes in uscita il prossimo 23 gennaio offre l’occasione di assistere a un cinema diverso, non accondiscendente a quel montaggio “usa e getta” di stampo para-televisivo a cui siamo troppo abituati. La sua forma parla per il suo contenuto, al punto che “non sarebbe stato fatto se non in questo modo” ha dichiarato più volte il cineasta che, scrivendolo e dirigendolo, ha riportato in vita i ricordi del nonno combattente sul Fronte occidentale. Se all’origine c’è l’intenzione di far immergere lo spettatore nel devastante percorso dei due caporali poco più che teenager “messaggeri” di un dispaccio salvifico per 1600 loro commilitoni, in mezzo c’è la sapienza di Roger Deakins, ad oggi fra i due o tre migliori autori della fotografia cinematografica esistenti che, ça va sans dire, è il favorito alla vittoria dell’Academy Award a cui è candidato. Costui, 70enne britannico già premio Oscar per il Blade Runner 2049 di Villeneuve dopo esser stato candidato ben 13 volte, sodale del regista canadese ma anche dei fratelli Coen e dello stesso Mendes, può a ben dirsi coautore di 1917 al pari del cineasta suo connazionale.

Il film doveva essere realizzato come un “apparente” unico long-take, cioè piano-sequenza (inquadratura senza stacchi di montaggio), grazie alla giustapposizione invisibile di alcuni piani-sequenza: la necessità di unire alcune delle inquadrature poteva essere nascosta attraverso stratagemmi classici e consolidati (la storia del cinema è ricca di esempi, a partire da quel inimitabile e reale piano-sequenza Nodo alla gola di Hitchcock che ovviava la fine della pellicola cambiandola su fondi neri..o dal memorabile Arca russa di Sokurov girato invece in digitale) con l’aggravante che si tratta di un film di guerra, composto da un percorso al 99% in esterni.

La principale delle difficoltà da risolvere – dopo mesi di prove – era infatti che nessuna ripresa poteva essere ripetuta, cioè nessun doppio ciak con il diktat assoluto del “buona la prima!” perché unica. Tale metodo di lavoro, durato 65 giorni di riprese appunto in esterni, ha obbligato tutto il reparto della cinematografia (digitale) guidata da Deakins ad avere un piano di lavorazione pressoché perfetto e pianificato al millesimo in tempi, spazi, movimenti: bastava sgarrare una volta ed era finita.

Tante le prove necessarie, realizzate anche in enormi teatri di posa dove venivano contati addirittura i passi che gli attori dovevano fare (dopo accuratissimi storyboard, calcoli minimali..), e un’attrezzatura inventata ad hoc. Questa, difatti, doveva essere agile abbastanza da seguire il percorso dei caporali nella Terra di Nessuno nel nord della Francia, ma anche avanzata e accuratissima da tenere omogeneità in ogni fase, considerando che le riprese – quasi tutte – necessitavano l’ampiezza totale sull’oggetto da filmare, cioè 360° e quindi nulla poteva essere in scena. Se qualcosa poteva essere cancellato in post produzione, è chiaro che il set doveva per lo più rimanere sgombro. Deakins si è recato personalmente alla nota fabbrica tedesca di materiali video-fotografici Arri per mettere a punto una nuova versione ridotta della sua Alexa LF, chiamata appunto Alexa Mini LF 4,5K: questa è stata utilizzata sul set di 1917 (scenografato dal talento di Dennis Gassner, anch’egli candidato all’Oscar per 1917) su attrezzature variegate, usate e velocemente modificate a seconda delle esigenze: Trinity, Steadicam, StabilEye, Dragon Fly, Wirecam. Parole arabe per chi non se n’intende, certo, ma necessarie a fornire la portata tecnica (e tecnologica) di questo film in cui non si poteva sbagliare, proprio come in una battaglia.

Alcuni backstage mostrano le difficoltà qui verbalizzate: cameramen che salgono su jeep e poi saltano su carrelli, riprendono la videocamera quasi volante a mano e poi la rimontano su steady di diverse dimensioni. Senza, naturalmente, parlare della luce naturale che doveva sempre identica per continuità narrativo/scenografica essendo – ovviamente – il film girato in ordine cronologico: “Dovevamo girare sempre quando era nuvoloso. Quando c’era il sole e non potevamo girare, ne approfittavamo per fare le prove”. L’effetto di tutto questi tecnicismi, si diceva, è funzionale a una forma indissolubilmente legata al contenuto. Un contenuto non privo di emozioni (e commozioni) che lo spettatore è chiamato a provare insieme ai protagonisti: come accadeva ai soldati in guerra, anche il pubblico non può mai staccare,ma rimanere visceralmente attaccati alla tragedia mostrata oppure uscire dalla sala.

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1917, Sam Mendes è riuscito in un’impresa quasi impossibile

Nel 1924 il grande maestro sovietico Dziga Vertov (alias David Abelevič Kaufman) teorizzava e realizzava il suo Kino Glaz, il cineocchio, onnipresente sulle conquiste imperiture della Rivoluzione d’Ottobre. Non a caso Dziga Vertov in ucraino significa ‘trottola’.

Per un caso del destino, quella rivoluzione che Dziga Vertov celebrava girando in treno per tutta la Russia era proprio iniziata nel 1917, titolo dell’ultimo film di Sam Mendes. Cosa c’entra Dziga con Sam? A parte che entrambi sono dei geni del cinema di tutti i tempi, apparentemente nulla; ma il secondo deve al primo l’ideologia di questo film. 1917 infatti è girato ‘in tempo reale’ con quello che in gergo si chiama unico ‘piano sequenza’. Una storia di 24 ore, condensata in due, ma con l’impressione di viverle tutte e 24.

Il più famoso esempio di piano sequenza fino ad oggi era stato quello del film Nodo alla gola di Alfred Hitchcock, ma il piano sequenza nella storia è diventato un sigillo di bravura per molti registi: Brian De Palma (che di Hitchcock voleva essere l’erede), Martin Scorsese, Robert Altman, Michelangelo Antonioni e, naturalmente, un altro genio come Orson Welles (L’infernale Quinlan, ma non solo).

Con 1917 c’è un salto di qualità perché il piano sequenza diventa il film e se Hitchcock doveva fronteggiare il problema dei caricatori delle macchine da presa, limitati a 400 metri di pellicola, Sam ha dalla sua tutta la potenza della tecnologia digitale e di una produzione multimilionaria.

La magia è stata possibile grazie ad una nuova telecamera digitale della Arriflex, la Alexa Mini LF, prodotta ad aprile dello scorso anno e usata per la prima volta proprio per 1917. Insieme ad altre diavolerie chiamate Trinity (un sistema di stabilizzazione incredibile), droni e lenti Signature Primes, unite a un sofisticato software che ha permesso di collegare le varie scene al singolo fotogramma, la fluidità tra le scene risulta perfetta e lo spettatore non si rende conto di nulla, avendo l’impressione di essere lui stesso sul set anzi, sul campo di battaglia.

La storia del film la riportano tutti i siti che si occupano di cinema e quello che personalmente mi interessa di più è proprio la realizzazione di questo capolavoro che renderà senz’altro un altro Oscar a Sam Mendes, dopo quello agguantato nel ’99 con American Beauty (suo film d’esordio!). Tra l’altro, non si può non pensare proprio ad American Beauty quando nel gelido aprile 1917 in quella che è rappresentata come la campagna nei dintorni della cittadina di Ecoust, in Francia, una inaspettata pioggia di fiori si riversa sul protagonista della storia.

Autocitazioni e reminiscenze inevitabili. Vivendo la storia di 1917 vengono in mente Salvate il soldato Ryan di Spielberg e Orizzonti di gloria di Kubrick; ma ci pensate solo dopo che 1917 è terminato, perché durante il film non riuscite quasi a respirare tanto siete risucchiati nel gorgo della storia. Una storia che – dichiara Mendes – origina dalle memorie di suo nonno Alfred, milite della Grande Guerra. Una guerra crudele come tutte, ma forse più disumana per la sua statica inesorabilità.

Ebbene, Sam Mendes è riuscito in una impresa quasi impossibile: rendere dinamica e multiforme una guerra di trincea. I colpi di scena sono continui, la meraviglia di quello che dovrebbe essere cinema, pure. Ne sono sicuro: per fare 1917 Dziga Vertov avrebbe dato un cineocchio.

1917 e tutti i suoi bravissimi attori li potete vedere al cinema dal 23 gennaio.

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Scoprono in diretta di essere candidati agli Oscar: la sorpresa e la gioia dello studio di animazione

Tre giorni fa sono state ufficializzate le candidature agli Oscar 2020, con le cinquine per ogni categoria. I dipendenti dello studio di animazioni SPA Studios, guidato da Sergio Pablos (ideatore per la Universal di Cattivissimo me) stanno seguendo la diretta in tv. Esilaranti le reazioni del personale quando vengono nominati i film di animazione concorrenti. Poi viene fatto il nome del loro film, Klaus, ed è un tripudio di gioia.

Video Youtube/SPA Studios

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La ragazza d’autunno, il prodigioso racconto che ha meritato di entrare nella shortlist degli Oscar 2020 ed è stato premiato a Cannes

Ha vinto molto eppure ancora troppo poco il prodigioso La ragazza d’autunno, opera seconda del giovane Kantemir Balagov, un 28enne dal talento assoluto e non a caso discepolo e pupillo del grande Alexandr Sokurov. Presentato a Cannes in Un Certain Regard – dove si è meritato il riconoscimento alla regia – e presente nella shortlist tra i film “internazionali” ai prossimi Oscar, il film in originale titola Dylda ovvero “spilungona” o “giraffa”, raccontando la storia di una giovane infermiera assai alta alle prese con le rovine materiali e spirituali della Leningrado post assedio. Siamo infatti nel 1945, sopravvivere è ancora la parola chiave di chi è scampato allo strazio bellico, ma il prezzo da pagare è altissimo, da ogni punto di vista lo si osservi. Iya, questo è il nome della “giraffa”, e la sua amica Masha rappresentano due approcci diversi a tale battaglia quotidiana, una lotta all’ultima briciola, una guerra fra miserabili pronti al compromesso più meschino pur di continuare a sperare, e a dare un senso a ciò che è rimasto. Opera radicale e dirompente per come informa i dettagli raramente raccontati di una tragedia maiuscola, sancisce la conferma dello sguardo straordinario di questo cineasta, dopo il suo altrettanto formidabile esordio del 2017 a soli 26 anni – Tesnota– anch’esso selezionato a Un Certain Regard sulla Croisette.

Seppur La ragazza d’autunno si ispiri a un testo letterario (La guerra non ha un volto di donna della scrittrice bielorussa Svetlana Alexievich, Premio Nobel nel 2015) ciò che Balagov ha compiuto è un’elaborazione totalmente originale e squisitamente cinematografica. La sua “materia” infatti, è più nella forma che nei contenuti, per quanto questi siano di primissimo piano e perfetti al dibattere sul trauma subito dagli assediati dell’odierna San Pietroburgo. Ciò che vuole veicolare il regista al suo spettatore non si lega tanto ai fatti in sé, quanto alle loro conseguenze talvolta visibili e tangibili, altre volte e più frequentemente rilasciati al fuori campo, non per ultimo nei silenzi, nelle dilatazioni fra domande e risposte lungo i dialoghi, nelle scelte apparentemente estetiche degli accostamenti cromatici, ed infine nei perdurati primi (se non primissimi) piani sui corpi, volti, oggetti, sensazioni ed emozioni. Se la composizione inquadrata rimanda costantemente all’arte pittorica (non è un caso ci muoviamo nei territori di Sokurov…), il senso profondo dell’intera operazione si lega indissolubilmente al mondo femminile, rimasto sospeso senza il Tempo e lo Spazio, orfano e infecondo, sintomo della tentazione a disperare che – suo malgrado – ha ancora qualcosa a cui aggrapparsi.

Quasi superfluo sottolineare quanto il film di questo giovane russo implichi una visione attenta ed impegnativa: ma è proprio questo a renderla necessaria e carica di soddisfazione, specie in settimane in cui l’offerta cinematografica risente del disimpegno natalizio. Da cercare nei migliori cinema dal 9 gennaio.

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