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“Untold”, la storia del tennista Mardy Fish che ruppe il tabù dell’ansia da prestazione nello sport

New York, 3 settembre 2012. All’Arthur Ashe Stadium di New York, Roger Federer (numero 1 del ranking mondiale) è già nei corridoi off-court a firmare autografi prima di disputare l’incontro dei quarti di finale degli Us Open di tennis in attesa dell’avversario, l’americano Mardy Fish, ottavo al mondo. Dopo qualche minuto riceve una notizia: Fish è negli spogliatoi ma non scenderà in campo, ha appena dato forfait. “Ero arrivato al limite. Boom! L’intero peso dello stress mi aveva inondato interiormente”. È proprio Mardy a confessarlo nel documentario a lui dedicato: “Fish vs Federer” diretto da Chapman Way e Maclain Way della serie originale Netflix “Untold” (che ha già raccontato la pugile Christy Martin e il campione di decatlon Caitlyn Jenner) disponibile da oggi sulla piattaforma.

Tuttavia, il mancato scontro tra i due tennisti è solo il culmine di un lungo racconto che ha il suo centro d’attrazione altrove, nella mente dell’atleta. Per secoli, infatti, si è creduto al diktat “mens sana in corpore sano” – in realtà un’invocazione agli dei del retore romano Giovenale, che però lo sport ha distorto, appropriandosene – secondo cui essere un atleta equivale a essere un eroe che la gloria pone al di sopra dei propri limiti. Per questo, ha stupito la giapponese Naomi Osaka quando sabato scorso 4 settembre – dopo aver perso al terzo turno degli US Open – ha comunicato di voler prendere una pausa dalla pressione sportiva e di non sapere quando tornerà a giocare a tennis; come pure il ritiro della ginnasta statunitense Simone Biles dalla quasi totalità delle gare nel corso delle Olimpiadi di Tokyo non più tardi di un mese fa, e le sue dichiarazioni riguardo alla tensione psicologica causata dallo stress da prestazione.

È, infatti, questo il focus del documentario: quanto pesano le aspettative? Mardy Fish, oggi che è diventato allenatore del team USA della Coppa Davis, ripercorre con filmati d’epoca e immagini inedite la sua carriera, che sboccia già sotto il peso di un’aspettativa enorme. Negli anni Ottanta e Novanta, infatti, il tennis mondiale era stato dominato da atleti a stelle e strisce: John McEnroe, Pete Sampras, Andre Agassi. Nel 1988, la United States Tennis Association è preoccupata di cosa verrà dopo tali leggende e si chiede: si può creare un campione? Così, indice un programma di reclutamento per ragazzi: solo i migliori arriveranno alla famosa Saddlebrook Academy. Tra questi nel 1993 a dodici anni anni c’è Mardy Fish insieme al fraterno amico e rivale Andy Roddick, anche lui presente nel documentario. Vengono allenati fisicamente, tecnicamente e anche psicologicamente. Due volte a settimana, un mental coach gli insegna come mantenere la solidità mentale, e cioè “lavorare a testa bassa” e “niente piagnistei, proteste, o scappatoie”.

Inesperto ma talentuoso, il debutto da professionista arriva nel 2000. Fish ha una carriera ondivaga: nel 2003 è tra i primi 20 al mondo, ma nel 2005 è alla posizione 225. Con infortuni e posizionamenti negativi, inizia a disattendere le speranze di pubblico, commentatori e spettatori. Su di lui grava un’enorme delusione. “Prima il campo era il mio paradiso – racconta Fish nel documentario – ma poi ho iniziato ad avere tanti pensieri, e il cuore mi iniziava a battere più veloce. Ho iniziato a cercare su Google: disturbi d’ansia, attacchi di panico, malattia mentale”. A queste prime crisi da stress, Mardy grazie al suo team riesce a reagire. Si rimette in campo e in modo graduale (47° nel 2006, 37° nel 2007, 24° nel 2008), giunge ad essere 8° nel biennio 2010-11, battendo anche Nadal all’ATP Master di Cincinnati.

L’ansia e il panico, però, non sono scomparsi della sua vita e torneranno in quei famosi quarti di finale contro Federer. Mardy racconta di aver preso la sua decisione in macchina con la moglie, mentre si dirigevano allo stadio. “Poi sono crollato. Il tennis mi era stato portato via completamente”. Dopo settimane di clausura domestica, Mardy decide di vedere uno specialista che gli diagnostica un grave caso di disturbo d’ansia. Con una lunga psicoterapia, coadiuvata da farmaci e meditazione, lo aiuta ad fronteggiare i suoi problemi e, ancora più importante, a parlarne in pubblico, cosa che lo renderà un’icona dello sport mondiale. È stato, infatti, tra i primi a denunciare i danni che la pressione e lo stress possono causare in uno sportivo: “Mostrare debolezza e paura – dichiara – è una parte enorme dell’essere atleta”. Anche perché l’ansia non si sconfigge definitivamente. “È una lotta giornaliera, che però vinco ogni giorno”.

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Scrivere è il modo migliore per capire (e cambiare) il proprio mondo

La psicoterapia aiuta ad affrontare molteplici problemi, disturbi e difficoltà personali. Attraverso il colloquio e altri strumenti, gli psicoterapeuti cercano di innescare il cambiamento. Uno strumento molto utilizzato nella terapie psicologiche è la scrittura.

Nei compiti a casa, gli homework, il paziente deve svolgere una serie di esercizi che amplificano il lavoro fatto durante la seduta. In particolare, gli esercizi di autosservazione e la trascrizione dell’autosservazione stessa costituiscono l’asse portante di molte psicoterapie di stampo cognitivista e cognitivo comportamentale.

È riconosciuto da più parti che la scrittura ha un ruolo importante nel favorire uno stato di equilibrio nell’individuo. Per sua natura, la mente umana cerca costantemente di comprendere quello che le accade. Siamo ossessionati da un’esperienza negativa proprio per il costante tentativo di comprenderla. Il modo migliore per farlo è trasformarla in parole. Al contrario il non farlo porta più facilmente a pensarci in continuazione, con un dispendio di energie mentali non impiegabili in altri progetti (Pennebaker e Joshua).

Con l’invenzione della scrittura qualche migliaio di anni fa, i segni perdono il rapporto con le cose per legarsi ai suoni e il linguaggio comincia a essere visualizzato. Con la visualizzazione avviene la separazione tra conoscente e conosciuto, tra la persona che pensa e il prodotto del suo pensiero.

Lo spazio tra chi parla e quello che dice permette la crescita di un sé, di un senso di identità. Se prima dell’alfabeto e della scrittura il problema principale era quello di immagazzinare e gestire l’informazione, con la scrittura il problema principale diventa quello di comprenderne il significato perché quello che una persona scrive rimane scritto, indipendentemente dalla persona stessa. Con il problema del significato nasce una sorta di condivisione comune.

Il linguaggio introduce la capacità di strutturare l’esperienza in sequenze, cioè di costruire un racconto con il susseguirsi di fenomeni, di sequenziare. La concatenazione ordinata di fatti diventa cronologica e il tempo diventa un fattore causale dello svolgersi delle cose. Ogni passaggio determina il successivo e si crea una distinzione tra il mondo interno e il mondo esterno.

Lo spazio del Sé, che si crea con la scrittura, permette lo sviluppo di un linguaggio mentale in grado di articolare il mondo interno, mondo che però è sprovvisto di descrizione: diventa necessario dare un nome a emozioni, sensazioni, attitudini, interessi, metterli in relazione tra loro e costruire categorie concettuali astratte, adatte a ogni epoca (Guidano).

In conclusione, lo scrivere in generale favorisce la presa di distanza dai propri pensieri e sentimenti, la ricostruzione di sequenze in ordine cronologico e con queste la causalità del tempo nell’accadere delle cose. Tutti elementi centrali nel percorso del cambiamento personale.

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