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Recovery fund, difficile che Ungheria e Polonia si oppongano fino in fondo

di Luigi Manfra*

Dopo numerosi tentativi negoziali, il Consiglio e il Parlamento europeo hanno finalmente trovato un accordo sul prossimo bilancio pluriennale da 1.074 miliardi, e sul pacchetto per la ripresa da 750 miliardi di euro concordato a luglio dai leader europei. Ursula Von der Leyen aveva proposto di aumentare la capacità di bilancio Ue, che è stato incrementato di 16 miliardi, per poi usarlo come garanzia per raccogliere fondi sul mercato, attraverso bond comuni. L’alternativa, cioè aumentare i contributi degli Stati, sarebbe stata respinta sia dai paesi del nord, ma anche dai paesi del sud in difficoltà già prima del Covid-19.

L’accordo raggiunto sul quadro finanziario pluriennale 2021-2027 era indispensabile per consentire al Consiglio di approvare la decisione sull’utilizzo delle risorse proprie, e superare l’opposizione di alcuni Stati. Nell’accordo, però, è stata inserita anche una nota che prevede il rispetto dello stato di diritto, su cui non si è ancora trovata un’intesa con i paesi dell’est europeo.

Il Recovery fund, com’è noto, prevede una quota di prestiti garantiti dall’Unione europea per 360 miliardi di euro, e una seconda quota di 390 miliardi di erogazioni a titolo gratuito. Per quanto riguarda i prestiti, è noto che non verranno richiesti da molti paesi. Belgio, Danimarca, Germania, Irlanda, Francia, Lussemburgo, Olanda, Austria, Finlandia hanno, infatti, rendimenti negativi sui bond che emettono. Inoltre la politica monetaria espansiva della Bce ha portato ad una riduzione generalizzata dei tassi, e forse anche la Spagna ed altri paesi non utilizzeranno i prestiti almeno nell’immediato.

Ad esempio, a fronte del tasso sul bond decennale tedesco che attualmente propone agli investitori un rendimento negativo dello 0,54%, anche quello dei paesi mediterranei si è ridotto. Il bond spagnolo paga lo 0,12%, quello italiano lo 0,64%. Quindi la Spagna ed altri Paesi mediterranei, mentre richiederanno subito i trasferimenti, sono propensi a richiedere i prestiti soltanto se le condizioni monetarie peggioreranno. Di conseguenza, dei 360 miliardi di prestiti previsti dal piano europeo, ne verranno richiesti dagli Stati soltanto 176, oppure 239 se anche la Spagna dovesse richiederli.

I grants, pari a 390 miliardi, saranno, invece, richiesti da tutti gli Stati beneficiari perché l’onere del debito sarà coperto da fondi europei, anche se quest’ultimo aspetto non è ancora stato definito nei dettagli. La restituzione dovrebbe essere coperta con l’introduzione di nuove tasse emesse dall’Europa, ispirate a criteri di protezione ambientale sulla plastica non riciclata, sulle emissioni del trasporto aereo e marittimo, e di equità finanziaria sulle imprese digitali. Com’è noto, la ripartizione dei contributi e dei prestiti non è stata fatta in base alle quote dei singoli stati sul Pil della Ue, ma sugli effetti economici provocati dalla pandemia, seguendo fondamentalmente tre criteri: popolazione, reddito pro-capite, tasso medio di disoccupazione negli ultimi 5 anni.

In base a questi criteri all’Italia sono stati attribuiti 209 miliardi di euro, molti di più del suo peso demografico. Il resto della somma si deve dunque agli altri due criteri, ed è stato attribuito perché l’Italia presenta valori inferiori alla media europea, soprattutto nel Mezzogiorno che con un reddito pro-capite medio di 19 mila euro rispetto ai 36mila del Centro-Nord, e un tasso di disoccupazione del 17% rispetto al 7,6% del resto del paese, si trova in una crisi economica sempre più grave. Equità vorrebbe che la maggior parte di questi fondi fossero investiti in questa parte del paese. Ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2058 per il rimborso dei prestiti. Stessa scadenza anche per la parte delle risorse a fondo perduto.

Come tutti, anche l’Italia dovrà presentare un piano coerente con le raccomandazioni specifiche che la Commissione dà a ogni singolo Paese. Tra gli elementi che incidono sulla valutazione positiva ci sono la crescita economica, la creazione di posti di lavoro, la transizione verde e digitale, condizione basilare quest’ultima per ottenere l’approvazione dell’Europa. Dopo aver vinto le resistenze dei cosiddetti paesi “frugali”, soprattutto alla mutualizzazione del debito, l’opposizione più forte arriva ora dal blocco dell’Est, già in conflitto con Bruxelles per violazioni allo stato di diritto.

L’Ungheria ha minacciato di mettere il veto sull’intero pacchetto del Recovery fund. Stessa posizione ha assunto la Polonia, minacciando un voto contrario all’accordo da parte del parlamento di Varsavia. Dalle minacce ai fatti: gli ambasciatori dei due paesi, secondo notizie recenti, hanno posto il veto sull’approvazione del Bilancio Ue. Ma Ungheria e Polonia sono fra i paesi che più beneficiano dei fondi Ue.

Nel 2019 Budapest ha ricevuto 6,2 miliardi di euro a fronte di appena 1,2 miliardi di euro versati, mentre per la Polonia le cifre sono rispettivamente di 16,3 e 5 miliardi. Con questi numeri, e ancor di più con le risorse che arriveranno dal Recovery fund, è presumibile che i due paesi non avranno nessun interesse a portare la loro opposizione fino alle estreme conseguenze, soprattutto in una situazione come quella che attualmente affronta l’Europa.

* Responsabile progetti economico-ambientali per Centro studi Unimed, già docente di Politica economica presso l’Università Sapienza di Roma

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Gualtieri: “Semplifichiamo regime fiscale degli italiani dal 2021. Giusto che si paghi meno ma che paghino tutti”

“Nel 2021 semplificheremo il regime fiscale degli italiani, applicando il principio sempreverde secondo cui è giusto che si paghi meno perché pagano tutti”. Sono le parole del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che ad Assisi ha annunciato la revisione del sistema fiscale del nostro Paese a partire dall’anno prossimo. Il titolare del Tesoro ha parlato anche di Recovery Fund, ripercorrendo le linee guida presentate dal governo al Parlamento nei giorni scorsi. “La riduzione delle imposte è una spesa strutturale”, ha precisato, “quindi non finisce quando finirà la spinta del Recovry. Quest’ultimo servirà per sostenere e finanziare l’entrata a regime della riforma fiscale, per esempio migliorando il contrasto all’evasione fiscale o la digitalizzazione dei pagamenti”.

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Recovery Fund, Conte: “In pochi ci avrebbero scommesso, gli aiuti arrivino presto”. Zingaretti: “Da Ue finalmente politiche espansive”

Il governo canta vittoria il giorno dopo la pubblicazione della proposta della Commissione europea per un Recovery Fund, ribattezzato ‘Next Generation Eu’, da 750 miliardi di euro, di cui 500 a fondo perduto e 250 sotto forma di prestiti. “Ci abbiamo creduto quando in pochi ci avrebbero scommesso – ha dichiarato a La Stampa il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte – In molti, anche sul piano interno, mi invitavano ad essere cauto e a non espormi dicendo che avrei sicuramente rimediato una cocente sconfitta politica. Ma sono stato sempre consapevole che una reazione europea forte e unitaria era assolutamente necessaria non solo per l’Italia ma anche per il futuro stesso dell’Europa”. Soddisfazione anche dal Pd, con il segretario Nicola Zingaretti felice per la posizione presa dall’Unione europea: “Dall’Europa finalmente politiche espansive“, ha detto a Repubblica. Mentre il vicesegretario, Andrea Orlando, a Omnibus La7 parla di “successo politico del governo che non può avere come presupposto la debolezza”.

Conte esulta, ma adesso c’è da superare lo scoglio del Consiglio Ue
Il capo del governo porta a casa l’appoggio delle istituzioni europee, ma la trattativa con i Paesi rigoristi, Austria e Paesi Bassi in testa, deve ancora cominciare e, come fanno sapere da Vienna e L’Aia, sarà tutt’altro che semplice. Per poter arrivare a un accordo definitivo serve l’unanimità di tutti i 28 Paesi membri dell’Ue che siedono nel Consiglio europeo. “Con i leader europei più contrari o perplessi – continua Conte – mi sono confrontato più volte, anche in modo molto franco, invitandoli a considerare che senza una risposta adeguata avremmo distrutto il mercato unico e compromesso irrimediabilmente tutte le catene di valore. Una risposta buona ma tardiva sarebbe stata inutile”. E riconosce che “ora c’è ancora molto da lavorare. Ci aspetta un Consiglio europeo molto impegnativo e dobbiamo cercare di rendere tempestiva l’attivazione di questi nuovi strumenti”.

Sulla stessa linea il commissario Ue agli Affari Economici, Paolo Gentiloni, che in un’intervista a Radio Anch’io su RadioRai dice che la proposta “è per l’Italia una grande responsabilità, anche perché non credo avrà tante opportunità come questa”. Per il Paese si parla infatti di una disponibilità complessiva di “170-180 miliardi, anche se l’Italia è un contributore netto per 4 miliardi l’anno è tanta roba, come si dice a Roma. Il problema è come spendere queste risorse”.

E su questo è proprio il commissario che, in linea con quanto auspicato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, cerca di tracciare la linea: “La direzione giusta è affrontare le emergenze, puntare sulla transizione verde e digitale, affrontare le inefficienze burocratiche e la lentezza della giustizia civile“. Certo, ammette, “in prospettiva il tema del debito deve essere tenuto sotto controllo, non possiamo dimenticare che siamo troppo indebitati. Ora dobbiamo spendere ma in futuro questo debito dobbiamo metterlo su un percorso più gestibile o fra qualche anno ci troveremo in difficoltà”. E sulla possibilità di un accordo favorevole con Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia dice che è arrivata “una reazione iniziale non di porta in faccia ma di inizio di un negoziato, una reazione che rende possibile un accordo. Non sarà facile ma ci si arriverà”.

Zingaretti: “Finalmente politiche espansive dall’Ue”. Orlando: “Successo del governo”
Soddisfazione anche in casa Pd. Il segretario Zingaretti ha dichiarato che “finalmente abbiamo politiche espansive. Il Recovery Fund apre una stagione di potenti investimenti e dimostra quanto le nostre ragioni fossero più credibili di quelle dei nazional-populisti. L’Europa sta ritrovando la sua visione accanto ai bisogni delle persone. Queste risorse non vanno distribuite a caso ma con una strategia chiara“. E a proposito di questo, anche lui, come Gentiloni, sostiene che ci si debba concentrare su “cinque punti. Sfida digitale, scelte energetiche, centralità dell’università e della ricerca, riforma dello Stato e lotta alla burocrazia. Oltre al protagonismo dell’Europa“.

Adesso, conclude, è necessario che il governo convochi “presto tutte le aziende a controllo pubblico, i colossi mondiali come Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie. Occorre dare una missione-Paese a questi grandi attori che gestiscono centinaia di miliardi di euro di investimenti. Sia chiaro, io rispetto l’autonomia di queste aziende. Ma la competizione è inutile senza una visione d’insieme”.

Parla di “successo politico” Andrea Orlando, complimentandosi con l’esecutivo che “si è mosso bene e anche i ministri Gualtieri e Amendola si sono mossi bene. Questa operazione non è frutto del caso o del fatto che la cancelliera Merkel si sia ravveduta strada facendo. Il fatto è che in Europa si sono modificati i rapporti di forza, proprio grazie alle iniziative del governo e della maggioranza. Con il precedente governo questo non sarebbe stato possibile”.

Monti: “Svolta nell’Ue, occasione da sfruttare”. Letta: “Serve pianificazione”
Anche i due ex presidenti del Consiglio, Mario Monti ed Enrico Letta, parlano di un risultato “molto positivo”. “In ogni paese si calcolano soldi veri e l’Italia questa volta è la più beneficiata – ha detto il senatore a vita a Circo Massimo su Radio Capital – È una svolta nella costruzione dell’Europa. L’Ue si appresta ad avere un bilancio e si appresta ad usarlo”. Questi soldi, sottolinea Monti, “sono un’occasione per realizzare tanti miglioramenti nell’economia e nell’amministrazione che avremmo sempre voluto fare. Bisogna usarli bene e in tempo”. E poi lancia un messaggio ai cosiddetti sovranisti: “Vedranno questa svolta, saranno costretti a trovare altri difetti all’Europa che verrà incontro alle esigenze dei cittadini e delle nuove generazioni”.

Positivo anche Letta, che ha parlato ad Agorà su Rai3, anche se più cauto nel giudizio: “Si potranno fare diverse operazioni, come ad esempio ridurre le tasse e in particolare tagliare il costo del lavoro. Credo che sia assolutamente possibile, almeno è quello che farei io. Vorrei sottolineare che stanno arrivando dall’Europa così tanti soldi che l’Italia non ha mai avuto prima. Ora l’importante è pianificare l’utilizzo di tutte queste risorse per i prossimi dieci anni, in modo tale che non si trasformino nel ‘regno delle marchette’, ossia che a ognuno che chiede qualcosa questa cosa poi gli viene data”.

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Piano Sud 2030 e Recovery fund: speriamo che queste risorse siano cospicue e ben spese

Per anni, su questo spazio, ho denunciato la totale (o quasi) assenza di una politica di ampio respiro per il Sud. È un dato di fatto che la spesa ordinaria in conto capitale abbia raggiunto nelle regioni meridionali, in valore assoluto, i 6,2 miliardi nel 2018, ossia solo il 22,5% dell’impegno su scala nazionale; lo rimarca ora il nuovo Piano Sud 2030, che contiene gli impegni del Governo e del ministro Peppe Provenzano, giovane e preparato intellettuale di area Svimez. Il Piano progetta politiche specifiche su scala temporale decennale.

Vi si riconosce che attribuire al Sud investimenti che non rispettino neanche il suo peso in termini demografici (34% della popolazione) è uno sfregio non solo al buon senso ma al futuro del Paese. Tutto questo, da anni, comporta l’effetto inevitabile di vanificare le politiche di coesione, sia quelle europee che quelle nazionali.

D’altronde, per chi abbia approfondito letture sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno, “è ben noto che le risorse straordinarie per il Sud abbiano sempre funzionato da salvadanaio per risparmiare sulle spese ordinarie da farsi al Sud, come nel resto d’Italia”. Dal Piano Sud 2030 apprendiamo addirittura che “le risorse aggiuntive rappresentano mediamente più della metà della spesa in conto capitale complessiva”.

Questo comporta la convenienza, per certi esecutivi, di mantenere in piedi un’area di sottosviluppo, per risparmiare sugli investimenti nel Mezzogiorno, al fine di dirottare altrove le spese ordinarie. E talvolta anche quelle straordinarie: la storia insegna parecchio, in proposito. È pur vero che non stiamo scoprendo nulla: il giochino poco virtuoso della spesa straordinaria era stato svelato, in primis, da Pasquale Saraceno e più recentemente da Adriano Giannola, due pilastri del pensiero neo-meridionalista, sorto dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, per la ricostruzione del Paese e della sua dignità.

Il Piano per il Sud aggiunge un ulteriore tassello: le spese europee rischiano ormai di diventare “doppiamente sostitutive”, ossia sostitutive non solo di quelle ordinarie, ma anche di quelle distribuite dalle politiche nazionali di Coesione.

Dal governo Gentiloni, l’attuale esecutivo ha ereditato la cosiddetta clausola del 34%, rafforzandone la “cogenza normativa”: il 34% delle risorse di qualsiasi investimento nazionale deve rispettare questa clausola di ripartizione che rispetti il dato demografico. Per intendersi bene: “i fondi europei non devono essere utilizzati per garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep)”, introdotti dal Titolo V della Costituzione.

Si tratta di un dovere da assolvere mediante spesa ordinaria, non tramite quella straordinaria, che invece deve essere destinata alle progettualità e all’ammodernamento. Sembrerebbe ovvio, ma certi approcci localistici alla politica economica ne hanno impedito di fatto l’attuazione, trasformando il rispetto della clausola in una “conquista”.

Il Piano Sud 2030 prevede l’incremento delle risorse destinate al Fondo di Sviluppo e Coesione nel periodo 2021-2027 (dallo 0,5% del Pil sarà portato allo 0,6%), con una dotazione complessiva di 73,5 miliardi. Questo fondo, va ricordato, ha un vincolo di destinazione dell’80% alle aree di sottosviluppo.

“Istruzione”, “infrastrutture”, “ecologia”, “Mediterraneo”, sono le parole chiave del Piano, che è utile leggere in quanto pare che, finalmente, il vuoto di politica di coesione nazionale, persistente almeno dagli Anni Novanta, sembra potersi colmare. Bisognerebbe lavorarci, con impulso ed entusiasmo, in quanto il punto di partenza di questo progetto di respiro decennale è la constatazione dell’interdipendenza tra le aree del Paese. L’intento è quello di parlare di Sud, ma nell’interesse del Paese intero.

Ogni area d’Italia dipende dal comportamento e dai risultati delle altre. La pandemia Covid-19 ci ha insegnato che nessuno si salva da solo. Che sanità e ricerca devono essere la prima preoccupazione di un Paese avanzato. Che le politiche che riguardano la tutela dei diritti fondamentali degli Italiani, come sanciti dalla Costituzione, non possono essere delegati a enti locali.

Gli ultimi venti anni hanno denunciato un gravissimo ampliamento delle disuguaglianze territoriali in Italia, accompagnato da un drammatico indebolimento del nostro welfare. La sanità pubblica nazionale è in questi giorni al centro dello sforzo colossale di medici, infermieri e operatori sanitari, per fronteggiare il coronavirus. Le nazioni con poco welfare pagheranno più delle altre in vite umane il guado della pandemia. Lo dimostrano i dati.

Inoltre, le risorse europee del cosiddetto “Recovery fund”, voluto soprattutto dal Governo italiano, saranno fondamentali per sostenere i paesi più colpiti dal Covid-19 in area euro: Spagna e Italia in testa. Se funzionerà bene, sarà un’opportunità di “rigenerazione”, dopo la sciagura, in seno a una strategia europea.

Dobbiamo sperare che queste risorse siano cospicue e ben spese, sapendo che è fondamentale, come insegnava Saraceno, ricordare che “bisogna sempre mettere i numeri accanto ai problemi”.

Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli impegni del nuovo responsabile economia del Pd, Emanuele Felice, in un articolo apparso sul web. Anch’egli sottolinea l’importanza di lavorare a un Paese meno diviso, che viva un nuovo senso di comunità nazionale, ripartendo da imprese, lavoro, terzo settore e mondo della scienza e della ricerca.

È condivisibile l’idea di porre l’innovazione al servizio dell’ambiente e della lotta alle disuguaglianze, proprio ora che sta emergendo l’esigenza di un nuovo patto tra scienza e società. Felice propone un nuovo, ambizioso modello di sviluppo: da molto tempo non sentivo parlare di “sblocco dell’ascensore sociale”, di liberazione del potenziale produttivo.

Confido che sia giunto il momento di disporre davvero le cifre accanto alle disuguaglianze sociali, territoriali e di genere. E di porre mano ai divari. Di superare l’approccio pluridecennale degli “interventi a pioggia” così come di quelli concentrati in poche “aree locomotiva”. Sono due facce della medaglia del fallimento a cui hanno candidato l’Italia.

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