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Il cambiamento climatico inizia a infastidirci, ma l’umanità si comporta come la rana che bolle

Il “principio della rana bollita” è la metafora che Noam Chomsky (Media e potere, Lecce: Bepress, 2014) usa per descrivere le società e i popoli che accettano passivamente la propria deriva. Sono quelli che affrontano bellamente degrado e soprusi, adattandosi di buon grado alla scomparsa dei valori e dell’etica. Come la rana che cuoce a fuoco lento senza reagire, questo tipo di individui e società si adeguano in modo apatico alle situazioni spiacevoli senza mantenere la capacità né lasciarsi la possibilità di un colpo d’ala, prima che sia troppo tardi.

Al Gore, il candidato democratico sconfitto da Bush nel 2000, usò questa metafora sotto una diversa luce, presentando il film An Inconvenient Truth nel 2006 sul New York Times. E la rana bollita è anche l’archetipo con cui una mia giovane collega introduce agli studenti la questione climatica. Aiuta a comprendere la strategia che l’umanità ha finora adottato nell’affrontare il riscaldamento globale e il rapido cambiamento dei climi che ne deriva.

Una attitudine che, nel concreto, non è cambiata – aggiungo – nonostante le buone intenzioni di ogni consesso internazionale. Con l’età, mi sto convincendo che l’umanità, forse, non può fare altro. Non può che comportarsi come il simpatico animale immortalato dal filosofo americano, dal presidente mancato e da molti altri, prima e dopo di loro.

Ecco una breve sintesi della storiella, zoologicamente controversa, con la premessa che non mangio le rane. Per cuocere una rana, viva, bisogna evitare di gettarla in una pentola d’acqua molto calda, diciamo a 60 gradi o più. In questo caso, l’animale salta rapidamente fuori e scappa via. Se, invece, la mettete in un pentolone d’acqua fredda e aumentate molto lentamente la temperatura cosa succede? Se di buona indole, la rana rimane tranquilla, il suo corpo si adatta al tepore della nuova temperatura mano a mano che questa aumenta. Allorché la bestiola scopre che sta bollendo, è troppo tardi, ahimè, poiché ha impiegato tutte le sue forze per regolare la propria temperatura corporea, equilibrando quella del mezzo in cui è immersa. È talmente debole che non ce la fa più a saltare via.

La rana crepa perché l’acqua bolle? Certamente sì. Ma muore anche per la sua incapacità di capire che la temperatura si sta alzando.

I primi effetti climatici del riscaldamento globale che stiamo sperimentando oggi sono il prodotto di attività umane vecchie di un secolo. In un libro pubblicato quasi 30 anni fa, scrivevo che “facendo capo alla fine degli anni Ottanta, il mondo è già stato condannato a un ulteriore surriscaldamento di 0,3-1,9 gradi Celsius, anche senza ulteriori variazioni della composizione atmosferica”. Non era stato necessario ricorrere all’aiuto di Cassandra per avventurarsi in questa profezia, che si è in gran parte già avverata.

Alla fine degli anni Ottanta, il consenso scientifico su questo tema era già consistente, pubblicato sulle migliori riviste scientifiche. Rispetto ad allora, le emissioni sono raddoppiate (vedi Figura 1) alla faccia di ogni fioretto, devotamente enunciato al mondo nella serata conclusiva di ogni consesso internazionale. E accantonato in silenzio la mattina dopo.

I cambiamenti del clima iniziano sì a infastidirci, ma l’umanità continua a comportarsi come la rana. E varrebbe finalmente la pena di capire perché rispondiamo alla sfida come una rana in pentola a fuoco lento.

Molte sono le ragioni dalla parte della rana. Prima di tutto, siamo sensibili agli eventi estremi – l’aspetto che più colpisce la gente – in modo diverso da estremo a estremo, da paese a paese, da cultura a cultura. Realizzare, accorgersi, convincersi del clima che cambia non è così semplice come sembra a prima vista.

La capacità di capire gli effetti del cambiamento climatico sugli incendi e i cicloni extra-tropicali è tutto sommato molto bassa, così come la fiducia nell’attribuire questi eventi agli effetti del cambiamento climatico di origine antropica. Solo per le ondate di freddo e caldo, capacità e fiducia crescono molto e crescono assieme (vedi Figura 2).

Come la rana, cerchiamo di adattarci, al freddo e al caldo, alle alluvioni e alle frane. L’adattamento attivo è indispensabile, ma non basta. Purtroppo.

Non c’è soltanto la difficoltà a realizzare la portata della sfida, però. L’umanità si comporta come la rana anche per altre ragioni. Per esempio, economia e finanza, così come sono declinate ai nostri giorni, sono compatibili con la mitigazione? Durante la pandemia, le ragioni dell’economia non sono state certo messe in secondo piano. Come può convivere la società dei consumi con modelli frugali che, per limitare le emissioni, potrebbero diminuire i consumi stessi?

Inoltre, la geografia dei cambiamenti è variegata. Il cambiamento del clima non è né sarà lo stesso ovunque: ci sono regioni del pianeta che possono avere grandi benefici da un pianeta più caldo, prima di tutto sotto il profilo strategico.

E ancora, le decisioni di oggi, qualunque esse siano, avranno pochissimo peso su quanto sta accadendo oggi o domani, ma sono proiettate su un orizzonte di molti lustri. Chi oggi ha facoltà di decidere non vedrà mai gli effetti di queste decisioni. Né otterrà un convinto consenso popolare se queste decisioni hanno un impatto economico negativo o promettono di ridurre, oggi e domani, il benessere della gente.

L’umanità non è certo una rana, né un branco di rane. Non scomparirà a causa del clima che cambia. Sono molto più pericolosi i giochi di guerra, se scattasse il grilletto nucleare. Ma la nostra specie può subire un impatto simile a quello che la gente europea subì dalla peste del Trecento o a quello che soffersero i nativi americani per via della colonizzazione europea.

Il peggio non lo vedrà Greta, ma la sua prole e la prole della sua prole. L’inerzia del clima è anche maggiore di quanto pensavano i pionieri della climatologia, da Arrhenius a Callender. Sfogliando la storia antica e moderna, ho cercato invano esempi di società che abbiano preso concrete decisioni simili a quelle che dovremmo prendere ora, risoluzioni capaci di penalizzare la contemporaneità a favore del lontano futuro, del benessere di generazioni molto più avanti della nostra. Sarò grato ai lettori che, arrivati tenacemente fin qui, ce lo suggeriranno nei commenti.

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Cambiamenti climatici, ai media dico: se dovete parlarne così, meglio non dire più nulla

Visto il lavoro che faccio, sono obbligata a leggere la mattina parecchi giornali. Articoli sul tema del riscaldamento climatico, e sulle sue conseguenze, ce ne sono pochissimi – parlo dei giornali italiani – tanto che alcuni giorni non ne trovo nessuno, pur sfogliando cinque o sei quotidiani. Ogni volta penso che ciò abbia dell’incredibile, visto che sul clima ci vorrebbe una cronaca costante, incessante, una cronaca che finisca sempre in prima pagina, vista l’importanza dei fatti, come ho avuto altre volte modo di scrivere.

Ma peggio dell’assenza di articoli, secondo me, fa l’articolo allarmistico e sporadico sull’emergenza climatica. Quello che compare ogni tanto, francamente a casaccio, riportando un’emergenza vera con tanto di titoli da panico. È capitato di recente, ad esempio, sul quotidiano la Repubblica, che a differenza di molti ha dato la notizia dei 18 gradi in Antartide. Per carità, un bene, ma dopo giorni e giorni in cui non parlava di cambiamento climatico e continuando, dopo, a non parlarne. Il fatto è che questi pezzi rimangono così appesi, quasi sempre infatti non sono accompagnati da spiegazioni di esperti – che dovrebbero essere tante e copiose, ora spiegherò come – e isolati nel tempo.

Questa mancanza di continuità è grave per tutti i temi importanti. Ma nel caso del clima lo è ancora di più. Perché le notizie che vengono date sono talmente allarmanti, sono di una gravità così inaudita che se lo si fa malamente si rischia veramente di gettare le persone nella disperazione più totale. O provocare in loro un rigetto verso questi temi, e una conseguenze rimozione con effetti negativi. Lo stesso vale d’altronde per i siti meteo, specie alcuni, sui quali non mi stancherò di scrivere. Non puoi annunciare un’estate dalle temperature insostenibili, tanto da bruciare (riportava sempre Repubblica ieri intervistando una persona de ilMeteo.it), senza accompagnarla da una spiegazione del perché questo può accadere, ma soprattutto di cosa possiamo fare noi. E per difenderci e per arginare ciò che accade.

E proprio questo è il punto. I fatti tragici legati al clima non possono essere dati da soli, tanto più in maniera intermittente e sporadica, sganciati come bombe a orologeria nella mente delle persone. No. Un’informazione vera, seria, li riporterebbe, ma darebbe massimo spazio a un altro tipo di informazione: anzitutto, grandi, grandissimi spazi a esperti che spieghino in dettaglio perché ciò sta accadendo e cosa possiamo aspettarci.

Ma poi, soprattutto, in ogni articolo di questo tipo occorrerebbe riportare, anche in un box, il tema delle necessità del taglio delle emissioni, con una piccola spiegazione di cosa si sta facendo e di cosa no, delle tappe sugli accordi internazionali in arrivo. Non solo. Ci vorrebbe sempre un piccolo box che ricordasse cosa noi possiamo fare come cittadini. Ma poi, ancora più importante, le notizie andrebbero girate a legislatori e politici: e dunque se è saltato l’inverno e le temperature sono estremamente anomale, è al governo che bisognerebbe rivolgersi. Tutte le autorità andrebbero allertate, a tutte andrebbe chiesto: cosa state facendo? Come intendete proteggerci? Questo dovrebbe fare un giornale, un talk show, un tg.

E invece niente. I giornali parlano di tutt’altro, salvo poi, sporadicamente, piazzare qua e là qualche articolo apocalittico, proprio quando non possono fare a meno di dare la notizie. Questo si chiama fare disinformazione, far andare nel panico le persone. Nessuno si sognerebbe di parlare di coronavirus senza sentire esperti su esperti e senza spiegare cosa possiamo fare per difenderci e cosa dobbiamo aspettarci. Invece sul clima sì. E sinceramente non capisco il perché.

E allora io dico: non datele proprio, le notizie sul clima. Perché date così non servono a nulla. Anzi fanno peggio, come ho detto, seminano panico senza dare risposte, creano rimozione. Non mi stancherò di ripeterlo: tra silenzio e cattiva informazione, la stampa e i media hanno una responsabilità enorme nella crisi climatica, esattamente come la politica. Quando accadrà qualcosa di gravissimo daranno tutti la colpa alla politica. Ma sbaglieranno. Perché la colpa è anche la loro, anche la nostra.

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