Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Repubblica Ceca. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli che fischia l’Argentina, Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Azeglio Vicini ha una voce di pietra e un’espressione incredula stampata sul volto. Parla lentamente, senza neanche sforzarsi di nascondere il suo disappunto. Perché ha provato davvero a rintracciare una briciola di logica in quello che sta succedendo fuori dal ritiro degli Azzurri a Coverciano, ma si è dovuto arrendere quasi subito. “Capirei questa contestazione se giocassimo male – dice ai giornalisti – ma vorrei sapere cosa c’entrano certe cose con la Nazionale. Rischiamo di vincere già il Mondiale dell’imbecillità“. Perché sono due giorni che i tifosi si accalcano davanti al centro federale. E sono due giorni che scandiscono i loro cori contro i bianconeri.

Baggio senti che puzza, senti che puzza”, urlano. “Ritira la firma, Baggio ritira la firma”, gridano. Mancano più di due settimane all’inizio del Mondiale italiano, ma Azeglio Vicini è già stanco. Così il 21 maggio chiede alla sicurezza di mettere a tacere quelle grida. Tutte. Anche quelle di incitamento. Solo che ormai è troppo tardi. La voce si è già trasformata in notizia. Il conte Pontello ha ha venduto Roberto Baggio. E l’ha ceduto alla Juventus. A meno di dieci chilometri di distanza Firenze brucia di rabbia. Un amore tradito che puzza di gas lacrimogeni e di cassonetti incendiati. Fino alle tre di notte la città è in subbuglio. Scendono in strada in mille. Abbattono semafori, distruggono auto, rovesciano bidoni dell’immondizia. Sputano frasi agghiaccianti come “Uccidere Pontello non è reato”, come “Pontello devi morire”.

Qualcuno ha in mano una spranga, altri si arrangiano come possono. E quando la polizia prova a caricarli, ecco che dai balconi piovono giù vasi contro le teste degli agenti. Alla fine in cinquanta finiscono su un’ambulanza, quindici su una volante della polizia. Notti drammatiche che precedono le Notti Magiche. Perché nel maggio del 1990 l’Italia è attraversata da una scarica elettrica continua. Da nord a sud. Un giorno dietro l’altro. Una cicatrice dietro l’altra. È il 9 maggio quando nell’abitazione palermitana del ministro della Pubblica Istruzione Sergio Mattarella inizia a squillare il telefono. A rispondere è il figlio. Ha appena venti anni ma ha già conosciuto la ferocia della mafia. Perché dieci anni prima suo zio Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, era stato ucciso in un agguato. Il ragazzo ha giusto il tempo di dire ‘pronto’ prima che il cuore inizi a rimbombargli nel petto. “Lei farà la morte che diremo noi”, sentenzia una voce anonima dall’altro capo della cornetta. Una minaccia che ha il suono sinistro di una promessa.

Poco prima, alle 8,30, un uomo compra un quotidiano in via Alessio Di Giovanni. Si chiama Giovanni Bonsignore ed è un funzionario dell’assessorato alla Cooperazione che con la sua inflessibilità si è fatto più di un nemico a Palermo. Soprattutto a causa delle sue obiezioni al finanziamento del mercato agroalimentare di Catania. Bonsignore sta andando a prendere la macchina in garage quando viene centrato da cinque proiettili. Sangue che bagna un marciapiede, bossoli che trasformano un uomo in un simbolo. Ma c’è un’altra lotta che unisce tutto lo Stivale. Ed è quella per il lavoro. La lista delle categorie pronte a scioperare è sterminata. E tutte si dicono disposte a farlo durante il Mondiale. Impiegati di banca, assicuratori, tabaccai, guardie mediche, medici di famiglia e ambulatoriali, autoferrotranvieri minacciano di incrociare le braccia e di scendere il piazza.

Addirittura, a Milano, metalmeccanici e operai chimici hanno annunciato di voler sfilare in corteo fin sotto ai cancelli del Meazza prima della gara inaugurale fra Argentina e Camerun. La situazione più pesante è quella dei trasporti. I Cobas dei capistazione, dei capigestione, del personale viaggiante e dei manovratori hanno indetto una decina di scioperi fra l’8 e il 25 giugno. E senza treni su cui far viaggiare turisti e tifosi, il Mondiale rischia di trasformarsi in un clamoroso e costoso flop. I macchinisti chiedono due giorni di riposo consecutivi almeno due volte al mese, la bonifica dei locomotori dall’amianto e, per la sicurezza dei passeggeri, la presenza di due operatori alla guida delle motrici. Ma, soprattutto, presentano un dato inquietante. Perché lo stress accumulato in una vita fatta di turni da 14 ore al giorno senza la possibilità di conoscere in anticipo i turni ha fatto crollare la loro speranza di vita a 64 anni.

Il ministro dei Trasporti Bernini, però, non ha nessuna voglia di cedere. Anzi, parte al contrattacco precettando 100mila lavoratori delle FS. E non è ancora finita. Perché mentre a Roma circa 5mila poliziotti assediano il Viminale per protestare contro la mancata applicazione del contratto firmato nel 1989, la Pinacoteca di Brera chiude i cancelli addirittura per qualche giorno. Colpa della mancanza cronica di personale che costringe i custodi a svolgere anche altre mansioni non di loro competenza come staccare i biglietti e custodire il guardaroba. E se prima i dirigenti potevano obbligarli ad obbedire tramite un ordine di servizio quotidiano, ora il Tar ha dato ragione agli impiegati. La tensione si trasforma in violenza alla fine del mese. E per motivi molto diversi.

Il 28 maggio, a Genova, un tunisino di 31 anni che da tempo dormiva su una vecchia 132 in via San Donato afferra una mannaia e aggredisce 9 persone. La più grave è una bambina di 2 anni e mezzo che viene portata al Gaslini con il cranio aperto. La folla prova a linciare l’aggressore, che qualche mese prima era uscito dal manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, poi si riversa nelle strade. Qualcuno urla “Morte al nero”, altri rispondono con un “Chi non salta marocchino è” e “Arabo infame”. Una delegazione di 15 persone riesce a farsi ricevere dal prefetto Mario Zirilli e, senza troppi giri di parole, spiega che il centro storico sta per esplodere, che la gente è pronta a organizzarsi in squadracce. Altri passano direttamente all’azione. Alcune bande di ragazzi pestano degli immigrati, mentre altri stranieri vengono picchiati addirittura con un pezzo di grondaia. Tutti si dicono esasperati, tutti giurano di non essere razzisti.

Il 30 maggio, invece, Napoli diventa un campo di battaglia. La mattina, quando gli abitanti dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni hanno aperto l’acqua hanno visto una melma marrone e maleodorante uscire dal rubinetto. La municipalizzata che gestiste l’acquedotto di Napoli dice che si tratta di un guasto alla conduttura, prontamente riparato. Eppure dopo tre giorni la situazione è sempre la stessa. Così gli abitanti esasperati hanno detto di essere pronti a bloccare il Mondiale. In alcune zone della città il costo di una bottiglia di minerale è raddoppiato. Qualcuno conserva per la sera l’acqua in cui ha cotto la pasta a pranzo. Per le strade inizia una vera e propria guerriglia. E dura giorni interi. Il 1° giugno cinquanta dimostranti entrano un un deposito e sequestrano due autobus. Dopo una ventina di minuti sono sotto il palazzo del Comune. E il primo cittadino Pietro Lezzi decide di ricevere venti rappresentati del commando improvvisato. “Sindaco lo vedi questo pane? – urla una donna – è fatto con l’acqua nera te lo mangi tu e tua moglie”. Il sindaco si infuria e risponde: “Io servo lo Stato!”. Ma la donna continua: “E il pesce puzza dalla testa!”. Tutti gli occhi sono fissi sul primo cittadino che grida: “La testa mia profuma”.

In un Paese così lacerato e contraddittorio, la squadra di Azeglio Vicini finisce per caricarsi sulle spalle un significato che va oltre il calcio. Deve incarnare l’unità nazionale, dimostrare (o almeno diffondere l’idea) che l’Italia è pronta a rilanciarsi, a ritagliarsi un ruolo ancora più di peso nella geopolitica internazionale. Diventa uno spot in maglietta e calzoncini, un manifesto animato capace di conquistare ogni città. Anche perché gli azzurri arrivano al Mondiale casalingo con l’etichetta di favoriti. Solo un paio di settimane prima i club tricolori si erano aggiudicati le tre coppe del Vecchio Continente: la Juventus aveva battuto la Fiorentina nella finale di Coppa UEFA, la Sampdoria aveva conquistato la Coppa delle Coppe (battendo l’Anderlecht grazie a una doppietta di Gianluca Vialli) e il Milan aveva messo in bacheca la Coppa dei Campioni. Un tris che aveva acceso le speranze di una popolazione intera. Forse anche oltre il lecito.

Baggio e Schillaci sono la coppia più bella del Mondo. Vialli e Mancini la coppia più bella d’Italia”, dice il commissario tecnico in un’intervista. Eppure nelle ultime sette partite internazionali prima del Mondiale gli azzurri hanno segnato soltanto due gol (Serena contro l’Algeria e De Agostini contro la Svizzera). Un paradosso che però diventa la cifra di una squadra ricca di contraddizioni, dove Baggio e Schillaci partono dalla panchina per poi diventare protagonisti assoluti, beniamini di una Nazione che insegue un gol. “Dopo ogni partita che abbiamo giocatore nella Capitale – ha raccontato Vicini – lungo tutto il percorso che facevamo in pullman viaggiavamo in mezzo a due ali di folla che ci applaudiva. Una cosa mai vista, considerato che arrivavamo in albergo dopo l’una di notte”. Una squadra troppo amata per essere anche vincente, una Nazionale che è riuscita a trasformare in una favola un Mondiale che doveva far finire sotto al tappeto molti problemi del Paese. Anche senza lieto fine.

L’articolo Italia ’90, 30 anni dopo – Così il Paese arrivava all’evento: omicidi, scioperi, sommosse e tensione. La nazionale di Vicini doveva unire proviene da Il Fatto Quotidiano.

 – Leggi