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Coronavirus, dire che l’assistenza ai più fragili è essenziale non basta: vanno create le condizioni

di Lelio Bizzarri *

L’assistenza alle persone con disabilità e alle persone anziane è un’attività essenziale. Non lo dicono solo i diretti interessati. Ad affermarlo è stato il Presidente del Consiglio dei Ministri che con il Dpcm del 22 marzo 2020 ha elencato le attività che devono essere garantite. Il Decreto ha fatto salve tutte le forme di assistenza anche durante la gestione dell’emergenza Coronavirus: l’attività del personale sanitario (medici, psicologi, infermieri, fisioterapisti, ecc.,); l’assistenza domiciliare e residenziale, ivi compresa quella fornita in forma indiretta per il tramite dell’assunzione di collaboratori domestici e badanti, nonché l’attività degli educatori professionali.

Basterebbe questo per comprendere quanto siano importanti le funzioni svolte da queste figure professionali per la salute e la sopravvivenza stessa di persone con disabilità e dei familiari.

Affermare, però, che l’attività assistenziale non si deve fermare a causa delle restrizioni di movimento imposte dal contrasto al Covid-19 non basta. Bisogna creare le condizioni perché detti servizi vengano erogati continuativamente, altrimenti il rischio è quello di far esplodere un’emergenza psicosociale nell’intento di gestire quella pandemica.

Se in tempi di gestione ordinaria ci si lamentava da più parti che l’insufficienza del supporto assistenziale metteva a rischio la salute e la qualità della vita di persone con disabilità e familiari, ora che, l’emergenza Covid-19 ha imposto la sospensione delle attività dei centri diurni e delle strutture residenziali, senza adeguati e tempestivi correttivi, si moltiplicheranno le situazioni di abbandono e di sovraccarico assistenziale per le famiglie.

Si pensi alle persone completamente dipendenti per ogni atto della vita quotidiana, a quelle con minorazione plurima che necessitano di una sorveglianza continuativa dei parametri vitali, alle persone con disabilità psichiatrica o a quelle con deficit intellettivo, demenza o disturbi dello spettro autistico che presentano anche iperattività, condotte di fuga, autolesionismo e difficoltà nel controllo dell’aggressività. Si pensi, infine, alle persone non autosufficienti che non hanno familiari che possono prendersi cura di loro perché venuti a mancare o perché troppo anziani.

Per tutte queste persone devono scattare misure immediate di compensazione del supporto che trovavano nei centri diurni e nelle residenze sanitarie, le cui attività sono state sospese per l’evidente impossibilità di garantire le condizioni per la prevenzione del contagio. Il decreto legge 17 marzo 2020 n. 18 ha stabilito la possibilità di attivare interventi, indifferibili, nei luoghi delle attività sospese oppure presso il domicilio degli utenti. Ci sono, tuttavia, alcuni problemi organizzativi che devono essere affrontati perché questo intento non rimanga lettera morta.

Il primo è il rapporto operatori-persone con disabilità. In un centro diurno di solito è di 1 operatore per 5 utenti (o anche di più). L’attuazione di interventi domiciliari comporta inevitabilmente la necessità di ampliare il numero di operatori per consentire agli utenti di poter avere un operatore a domicilio almeno per una porzione del tempo che di solito passava nella struttura. Va da sé che si rende necessario immettere risorse economiche al fine di consentire alle cooperative appaltanti e alle famiglie di assumere personale, anche temporaneamente, per rendere possibile l’implementazione di un servizio che inevitabilmente deve essere più capillare.

Il secondo è quello di dotare gli assistenti di presidi sanitari atti a prevenire il contagio. Ciò a tutela della loro salute, di quella delle persone che assistono e dei familiari. Nonché è fondamentale fornire l’accesso ai tamponi in via prioritaria per monitorare il loro stato di salute fin dai primi sintomi. È fondamentale, vista la particolare vulnerabilità dell’utenza al virus, ridurre al minimo la possibilità di contagio. Anche, ove necessario, ricorrendo alla quarantena con adeguato indennizzo da parte degli enti previdenziali.

Il terzo è quello di facilitare l’accesso degli operatori al supporto psicologico per elaborare ansie per la propria salute, quella degli utenti e dei propri familiari. Perché se di guerra si tratta, non sarà lampo e ci si deve preparare a resistere a lungo.

* Psicologo e psicoterapeuta

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Odisseo, l’eroe del giusto limite: un monito per i paladini della deregulation

Il secondo poema omerico è una fonte inesauribile di insegnamenti filosofici. Tra questi spicca, in primissimo piano, il valore della pazienza e della conseguente capacità di resistere alla seduzione del piacere immediato e senza norma, da quello del canto delle Sirene a quello della maga Circe.

L’intero poema dell’Odissea è attraversato, in effetti, dalla tensione tra Odisseo dal multiforme ingegno, da una parte, e dalla dissolutezza sfrontata dei Proci, dall’altra. Emblema del Padre e della Legge, della nostalgia della patria e della famiglia, Odisseo è colui il quale molto sopporta, in vista del ritorno nella rocciosa Itaca. Egli resiste al godimento mortifero che in più occasioni gli si para dinanzi e al quale pure cedono molti tra i suoi compagni.

In maniera diametralmente opposta, gli sfrontati Proci sono tratteggiati, dall’inizio alla fine del poema, come in balia dell’eccesso e del godimento anomico e senza regole: essi violano, insieme, la legge della patria e quella della famiglia, imponendo la sregolatezza del piacere smodato e fine a se stesso. Tale è la natura dei “pretendenti superbi” (I, 106).

In assenza del Nomos rappresentato da Odisseo, prevale la sola legge della dismisura e dell’eccesso, incarnata dallo sfrontato contegno dei Proci: “sgozzano bovi e pecore e floride capre, / gozzovigliano e bevono il vino lucente / senza pensiero. Molto si perde. Perché non c’è l’uomo / ch’era Odisseo per cacciare il malanno di casa” (II, 56-59). Nel libro XIV (vv. 94-95), il porcaio Eumeo spiega a Odisseo come la dismisura sia la cifra dell’agire dissennato dei pretendenti che gli hanno insediato la moglie e la patria: “mai sgozzano solo una vittima o due; / il vino finiscono, senza misura attingendone”.

È questa la scena della lunga notte dei Proci, alla quale si contrappone il Nomos della patria e della famiglia simboleggiato, oltre che da Odisseo, dalla moglie Penelope – che in ogni modo alla sfrontatezza dei Proci si oppone – e dal figlio Telemaco, che operativamente va alla ricerca del padre a Pilo arenosa e a Sparta. È, in fondo, la lezione che viene condensata nelle sagge parole di Alcinoo, re dei Feaci: “meglio avere in tutto misura” (VII, 310).

Sotto questo riguardo, si potrebbe verosimilmente intendere Odisseo, oltre che come il paladino della sopportazione e dell’astuzia, del sapere pratico e dell’inganno, anche come l’eroe della giusta misura: la quale si determina, in concreto, come lotta contro l’eccesso dei Pretendenti e come sforzo di ripristinare il Nomos della patria e della famiglia, per vent’anni sospeso da quando egli salpò glorioso alla volta di Ilio.

Vero è che anche Odisseo commette, talvolta, la hybris dell’eccesso: come quando, accecato il Ciclope, assume, ripartendo sula nave veloce, un contegno superbo e infierisce contro di lui già vinto. Ma, nell’essenziale, Odisseo è e resta l’eroe del giusto limite. Colui il quale, mediante la strage dei Proci, ripristina la giusta legge della misura e dell’equilibrio.

Ed è in questa luce che si spiegano le parole, sul finale dell’opera, che Odisseo rivolge al figlio, esortandolo alla giusta misura e al sempre vigile rispetto per la stirpe dei padri: “Telemaco, ormai questo devi sapere, avanzando / là dove, tra gli uomini in lotta, i migliori si giudicano, / di non far onta alla stirpe dei padri: noi sempre / per forza e bravura brillammo su tutta la terra” (XXIV, 506-509).

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Coronavirus, niente sarà più come prima: ben presto avremo imparato la lezione

Niente sarà più come prima. Solo un nemico esterno, ad esempio un nemico proveniente da Marte, avrebbe potuto insegnare agli esseri umani che fanno parte di un’unica grande meravigliosa specie, vulnerabile, creativa, bisognosa, che può coltivare il suo bisogno di star bene solo insieme. Le differenze nazionali sono risultati della storia: una storia intrisa di sangue e disastri per difendere confini che non sono che astratte linee su di un pianeta comune, l’unico a disposizione.

Questo modo bellicoso di stare al mondo finisce ora. Questo nemico è infatti arrivato, è un’altra specie, il Virus, il re dei Virus con la sua Corona, che ha sconvolto le nostre piccole certezze e comodità, ci ha dichiarato guerra – la Natura sembra ci voglia rimettere al nostro posto, le abbiamo mancato di rispetto davvero troppo. Si rivolta contro di noi. E’ una guerra mondiale, la terza: quella tra l’Umanità e il Virus. E la natura non conosce confini o nazioni. Vuole che accettiamo di vivere in equilibrio col pianeta, e che ci prendiamo cura: di noi tutti, della natura, del pianeta. E’ la condizione che ci pone per lasciarci vivere in pace con lei, e non contro di lei. Se non lo capiamo con le buone, ce lo impone con il Virus.

Ma noi siamo una specie animale straordinaria: impariamo, siamo consapevoli. Ne uscirà quindi una nuova umanità mondiale, solidale, una sorta di democrazia del prendersi-cura, terapeutica, o del diritto al bene, alla benevolenza, alla compassione per una vulnerabilità che non va più nascosta, ma che è la bandiera di tutti noi, piccoli nuovi umani, principianti. Siamo invincibili se siamo consapevoli della nostra vulnerabilità, del nostro bisogno di star bene, che ci caratterizzano. Siamo orgogliosi di essere vulnerabili e di occuparci gli uni degli altri – anzi, non si dice più “gli altri”: gli altri siamo noi, noi umani.

E quindi dopo, e ben presto, avremo imparato la lezione: non hanno alcun senso, sono contrari ai bisogni dell’umanità e verranno proibiti in particolare investimenti in arsenali militari; gli stessi investimenti si faranno semmai in macchinari per ospedali: le industrie si riorganizzeranno in questo senso. Da chi verranno proibiti: dalle nazioni che si riorganizzeranno e avranno la loro ragione di essere trasformandosi in amministrazioni del benessere delle persone, cooperando internazionalmente per riuscirci – come coopera la scienza. Il bisogno di star bene, un bisogno di tutti, diventa un diritto naturale, proprio perché condiviso da tutti, senza eccezioni e senza limiti di nazionalità. Gli eserciti si trasformeranno in corpi di pace, sostenendo il lavoro di polizia, protezione civile e vigili urbani.

Ogni cosa contraddica questo bisogno dell’umanità di vivere in pace e in salute non ha più senso. Per prime saranno ben presto vietate le armi di distruzione di massa, e quindi le armi nucleari, le testate atomiche e gli aerei che le dovrebbero trasportare; l’industria bellica si riciclerà, per fornire macchinari agli ospedali – e case per tutti, e pannelli solari per ogni tetto.

Nella piccola vecchia Europa finalmente ci si sarà resi conto che solo uniti si può realizzare la vita che vogliamo: gli Euro-Bonds distribuiranno sulle spalle di 500 milioni di persone (sul risparmio di tutti gli Europei) il carico del debito necessario alla riconversione dell’economia in una direzione compassionevole, solidale, benevola, davvero umana. Sul lungo periodo (in 30-40) anni questi Euro-Bonds pagheranno le pensioni dei trentenni di oggi, investendoli attualmente nella nuova economia della Rinascita.

La pace si inizia nelle menti delle persone: per cui in tutte le scuole si imparerà da subito la mente della pace: con corsi su come gestire emozioni negative, come risolvere conflitti, come comprendere l’altro. Sarà chiaro a tutti che chi insulta o è in preda all’ira sta male, è in balia di una forma di pazzia, più o meno passeggera, e va aiutato.

In una economia solidale non ci sarà spazio per la paura: reddito di cittadinanza (a livello europeo inizialmente, e poi mondiale) e simili accorgimenti renderanno possibile a tutti lo studiare per tutta la vita, coltivando le risorse nascoste nei desideri di tutti, distribuendo competenze. Artisti e piccoli artigiani e altre categorie con reddito incerto godranno sostegni economici per mantenere viva la cultura, anzi le culture.

La nuova umanità impara a voler bene alla vita cosi come è: accettando i problemi e risolvendoli insieme, con razionalità, scienza, ragionevolezza, conoscenze di esperti e studiosi. La nuova indicazione universale che si aggiunge alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (non a caso stilata dopo l’ultima grande catastrofe mondiale, la seconda Guerra Mondiale) è: non danneggiare. Né il pianeta, né gli umani, né la natura.

Una Costituente Universale si preoccuperà di implementarla in passi concreti, semplici, realizzabili da ognuno in ogni campo. C’è molto da fare, non c’è tempo da perdere in polemiche. Si ricostruisce qualcosa di meglio. L’emergenza di oggi è un feedback della natura che ci avverte in tempo: possiamo capirlo e smettere di danneggiare il pianeta e quindi noi tutti.

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Coronavirus, quando torneremo alla nostra vita normale ricordiamoci di chi non lo può fare

Ormai esiste solo una notizia e si chiama coronavirus. Come nei film di fantascienza il mondo occidentale si sgretola, crollano tutte le certezze dell’era del benessere infinito, della salita inarrestabile degli indici, delle vacanze perenni, delle navi da crociera-grattacieli e del consumo vorace di tutto, dai social media alle series di Netflix, dal cibo gourmet ai selfie davanti alle opere d’arte.

E’ bastato un microscopico virus a porre fine alla baldoria del secolo. Solo negli Stati Uniti si continua a ballare sul Titanic che affonda. Qui nella terra dell’impero trumpista ancora si pensa di essere nel 2019, quando all’orizzonte c’era il simbolo del dollaro più luminoso anche del sole. Ma presto anche questa spensieratezza svanirà.

Forse è arrivato il momento di fare una riflessione esistenziale, ed è bene che la facciano per primi gli italiani, chiusi in casa come animali feriti nella loro tana. Non siamo noi i primi in questa era di infinite possibilità ad assistere alla distruzione delle certezze ad essere travolti da un nemico micidiale.

Prima di noi è successo agli afghani, ai siriani, a chi ha avuto la sfortuna di nascere in Somalia, nell’Africa occidentale e in quella orientale, a chi è stato rapito dai jihadisti, dai trafficanti di droga dell’America centrale, a tutti coloro che hanno bussato incessantemente alla nostra porta e che abbiamo trattato come una notizia. Se è vero che oggi, davanti al coronavirus, tutti sono italiani, è anche vero che ieri tutti dovevano essere profughi, immigrati illegali e migranti economici.

La pandemia è il prodotto della globalizzazione, su questo nessuno può muovere alcuna obiezione. Il virus si muove con una rapidità agghiacciante perché noi tutti ci muoviamo incessantemente e lo portiamo con noi. E’ uno stile di vita che il pianeta non ha mai avuto e questo è il momento per capire che è innaturale.

Poiché viviamo nel villaggio globale la pandemia ha colto i nuclei familiari in posti diversi impedendo loro di ricongiungersi. Figli, genitori, nonni chiusi in casa in città ormai scollegate, in nazioni senza più contatti. Quando li rivedremo? E li rivedremo?

Ma anche i profughi siriani, gli immigrati illegali, i migranti economici sono vittime della globalizzazione. Il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno lasciato immense regioni del mondo in balia dei signori della guerra, dei jihadisti, dei trafficanti di droga, ha fatto piombare nazioni come la Somalia nell’anarchia perenne. Chi viveva in queste regioni è diventato vittima di un virus molto più micidiale, che dopo trent’anni continua a mietere vittime. Anche costoro sono lontani dai loro cari, spesso non sanno neppure dove siano o se sono ancora vivi.

Non è così che l’homo sapiens ha conquistato il pianeta. Lo ha fatto potenziando la famiglia estesa, il gruppo, la tribù, la specie.

Poco tempo fa ho riletto il Dottor Zivago, in quel libro c’è la descrizione magistrale del lungo viaggio in treno nella Russia congelata della famiglia di Zivago verso un luogo caro e amato, dove nascondersi e attendere che il peggio passi. Allora si scappava dai Bolscevichi e dal tifo che decimava la popolazione. Le epidemie politiche e sanitarie ci sono sempre state e sono sempre state vinte dalla coesione, dalla generosità, dall’altruismo. Anche quelle che stiamo vivendo possono essere vinte con gli stessi strumenti.

Quando si riapriranno le nostre porte e torneremo a vivere una vita normale non dimentichiamoci di chi questo non lo può fare. Debellare il coronavirus per riprendere la corsa pazza verso il benessere individuale, per celebrare l’ascesa degli indici di borsa, per riabbracciare con entusiasmo l’economia canaglia getterà le basi di un’altra epidemia, e la prossima volta non è detto che non sia l’ultima.

Che la riflessione esistenziale di noi italiani, 60 milioni di persone in prima fila nelle trincee della pandemia, ci porti a salvare il pianeta dall’estinzione dei ghiacciai, che fermi l’impazzimento del clima, che porti la pace, la stabilità e la speranza nelle regioni destabilizzate, che ci faccia tornare ad essere ciò che siamo stati all’inizio della conquista del mondo, un specie cosciente, intelligente, sensibile, superiore, una specie che sa gestire la tremenda responsabilità di guidare questo meraviglioso pianeta.

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Il mio amico Chicco ha conquistato l’Aconcagua: con la tenacia i sogni si realizzano davvero

di Derek

Il mio amico Chicco ha conquistato la vetta dell’Aconcagua, che con i suoi 6962 metri è la montagna più alta delle Americhe. Lo scorso anno aveva scalato il Kilimangiaro. Lo so, un grandissimo “esticazzi” a questo punto me lo sono guadagnato.

Il fatto è che Chicco, all’anagrafe Christian di Solarolo, un piccolissimo comune della Romagna, benzinaio presso un autogrill, un paio di anni fa, alla vigilia dei 50 anni, ha deciso di voler conquistare le seven summits, le montagne più alte dei sette continenti. Risparmiando tutto l’anno per programmare la prossima impresa ha già smarcato le prime due della lista.

Conosco Chicco fin da quando eravamo piccoli e passavamo le estati in un campo estivo nei nostri Appennini; già allora era un amante del trekking per il quale evidentemente aveva una predisposizione naturale. Ricordo come fosse ieri quella volta in cui facemmo la solita passeggiata all’Acquacheta e avremmo dovuto incontrarci con un gruppo di scout che avrebbe raggiunto la cascata attraversando i crinali orientandosi con mappe e bussole, mentre noi avremmo fatto il solito pezzo in pulmino prima del solito sentiero.

Il parroco disse a Chicco di andare con gli scout, perché “non si sa mai”. Al punto di incontro aspettammo parecchio oltre il tempo stabilito, e dopo una lunga attesa eccoli arrivare: a guidarli c’era Chicco. Perché loro con le loro mappe e le loro bussole non sarebbero mai arrivati, finché lui prese il comando: “io vado, ho fame, se volete seguitemi”.

Chicco da Solarolo è salito sull’Aconcagua senza una preparazione specifica. Non è un alpinista esperto, non passa le sue giornate a prepararsi intensamente alle sue faticose imprese. E’ una persona comune, come chiunque di noi, con un obiettivo ben chiaro in testa e una forte passione. Non proprio comune: è romagnolo e si sa, noi romagnoli siamo “ignoranti” (per il significato di ignoranza vi rimando a un monologo di Giuseppe Giacobazzi facilmente trovabile), non molliamo di un centimetro. Ed è un romagnolo di Solarolo. Un piccolo paese di 4000 anime del faentino che ha prodotto personaggi di un certo peso come Davide Cassani (ct della Nazionale di ciclismo) e Laura Pausini, a cui, mi sia concesso, proprio l’ignoranza di cui parlo non fa certamente difetto.

Chicco da Solarolo non è un supereroe, sia chiaro. Lui come tutti noi ha i suoi difetti, per esempio lui è milanista (lo so, c’è di peggio) e pure un renziano della prima ora (visto?), ma in quello che ha fatto c’è qualcosa di epico e grandioso.

Sono sicuro che tutti possiamo trovare tra le nostre conoscenze esempi di persone apparentemente comuni che nel loro piccolo hanno compiuto una grande impresa e quindi omaggiando Chicco, il mio eroe di paese, voglio rendere omaggio a tutti loro. A tutte quelle persone che compiono piccole grandi gesta, dandoci l’esempio e insegnandoci l’importanza e la bellezza di voler inseguire i propri sogni e dimostrandoci che con la tenacia si possono realizzare davvero.

Auguro a Chicco (tutti noi dovremmo) di riuscire a concludere anno dopo anno il suo sogno, di conquistare un giorno anche la cima più alta di tutte (ma non sarà facile perché i costi di certe imprese sono proibitivi), così anche a me in una piccola, infinitesima parte sembrerà di esserci stato anche solo per un minuto.

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La rigenerazione urbana passa dai cittadini: servono città-persone, non città-vetrine

È un peccato che le amministrazioni comunali e regionali sul tema del riuso dell’esistente siano così ottuse e miopi. Ancora oggi quando si parla di rigenerazione urbana ci si ferma in particolare a interventi di privati, ma senza dare un senso strutturale e di riappropriazione da parte delle città di luoghi o immobili inutilizzati che diventano buchi neri, mentre potrebbero diventare occasione di risposte al fabbisogno abitativo, culturale e sociale dei cittadini.

Shakespeare nel Re Lear scrisse: ” Che altro sono le città se non persone?”. Nelle città i luoghi, gli immobili vuoti sono dei non luoghi ovvero una “non città” nella città, senza pathos, senza vita. Pensare a quei “buchi neri” come occasione di valorizzazione a solo vantaggio di privati mercifica quei luoghi, realizza una città vetrina, buona per una turistificazione mordi e fuggi, ma non ne fa una “città persona”.

Eppure esiste anche un riuso possibile e sociale di spazi e luoghi inutilizzati che oggi sono solo ed esclusivamente “non città”. Su questo il dibattito è ancora arretrato; prima che politico e amministrativo, temo sia un problema culturale di un ceto dirigente incapace di pensare alle città come luoghi di persone, pubblici e fruibili a tutti, destinati quindi ad aumentare il benessere dei cittadini, anche dentro un contesto di economia circolare che realizza posti di lavoro e nuove possibilità di reddito.

Gli attuali “buchi neri” degli spazi e luoghi abbandonati delle nostre “non città” nelle città potrebbero e dovrebbero essere l’occasione per tornare a pensare alla città bella. Le città sono belle se non ci sono spazi e luoghi abbandonati, se non ci sono buchi neri e se questi vengono ripensati e riutilizzati per rispondere alle esigenze delle persone ai bisogni abitativi, sociali e culturali che gli abitanti esprimono.

Abbiamo bisogno di un nuovo ceto politico e amministrativo, ma prima ancora di fare un percorso culturale fuori dai percorsi di valorizzazione privata delle città. Abbiamo bisogno di città-persone, non di città mercantili che diventino città-vetrina. Saremo in grado di percorrere questa strada?

Possiamo verificarlo presto. La legge di bilancio 2020, all’articolo 1 comma 85, destina al green new deal fino al 2023 4,240 miliardi di euro. Tra gli obiettivi anche la rigenerazione urbana, programmi e progetti innovativi con elevata sostenibilità ambientale, che tengano conto degli impatti sociali.

Se avviassimo nei comuni percorsi partecipativi per sostenere programmi di rigenerazione urbana finalizzati al loro impatto sociale, per esempio rigenerare un immobile per destinarlo a case popolari, sarebbe un bell’inizio.

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Coronavirus, la nave da crociera in quarantena segna lo stop al mito del turista-per-sempre

Tra le grandi navi da crociera bloccate in seguito al coronavirus – se ne parla tanto anche in Italia, per via dei nostri connazionali fermati sulla Diamond Princess al largo di Yokohama – dovrebbe riprendere liberamente la via del mare da Hong Kong un colosso da 151mila tonnellate, dal nome evocativo, “World Dream”. Sogno del mondo, appunto, per una nave-monstre che da due anni offre ai cinesi crociere brevi nel vicino Oriente, Filippine e Vietnam, nonché weekend nello stesso Pearl River Delta, la baia che va da Hong Kong a Macao, dove il regime comunista-capitalista del Presidente Xi ha costruito la mega-city dei record.

Parliamo di un’area che movimenta più di un quarto delle esportazioni cinesi, 56mila km quadrati (appena l’1% del territorio della Repubblica Popolare), abitati da una sessantina di milioni di persone (ovvero poco più del 4% del miliardo 367 milioni e 820 mila persone censite nel 2015).

E la nave va, forse, ma il Sogno del mondo sembra quasi cancellato dall’allarme per il 2019-nCoV. Il mercato delle crociere, punta di diamante del turismo anni Dieci, aveva già battuto ogni record lo scorso anno e per il 2020 gli operatori delle Cruise Line prevedevano 32 milioni di passeggeri, su 278 città oceaniche galleggianti, tra cui 19 in via di varo. Ma nel nostro mondo ricco e maturo i cambiamenti viaggiano velocissimi, se non all’istante: e per molti osservatori il coronavirus potrebbe segnare il compimento della globalizzazione.

Nel sistema finora dominante il turismo di massa – che si potrebbe chiamare direttamente “distrut-turismo”, per l’impatto ecologico e sociale negativo – era lo straordinario volano di affari e di ideologia, in grado di offrire a tantissime persone l’esperienza diretta del movimento delle merci, coinvolgendo cioè tutti noi in prima persona nel consumo di un pianeta ormai dominato dal pensiero unico ordoliberista e dal dio-mercato.

Le navi da crociera, in fondo, sono un simbolo arrogante delle diseguaglianze, sono l’altra faccia delle carrette del mare con i profughi della miseria che inseguono – loro sì – il Sogno del mondo. Ma sono anche il paio dei 237 milioni di container di merci che ogni anno avvolgono i mari, stipati dentro alle 93mila navi commerciali operative.

Difficile pensare che tutto resterà come prima: è bastato un nuovo virus per mostrare la fragilità estrema di questo nostro mondo post-globalizzazione e la navi con i croceristi bloccati dentro introducono platealmente al tema del livellamento socio-economico dinanzi al destino. Gli effetti a lungo termine di una possibile epidemia di nCoV, che segna uno stop imprevisto al nostro mito del turista-per-sempre, sono ancora tutti da immaginare. Qualche spunto di riflessione può venire magari dopo un salto molto indietro nel tempo.

In proposito, quasi per spirito di contraddizione, verrebbe voglia di suggerire un’altra bella gita turistica vecchia maniera, sotto le poderose cime delle Dolomiti di Brenta, con sosta obbligata alla chiesa cimiteriale dopo l’abitato di Pinzolo. In quel di Sorano, per oltre venti metri sulla fiancata esterna si può osservare lo sviluppo di una grandiosa Danza macabra affrescata nel 1539 da Simone Baschenis, che oggi è una sorta di opera prototipo del suo stesso genere post-peste, di fine del Medioevo, quando le opere d’arte nelle chiese erano una sorta di mass-media.

Della dinastia dei pittori frescanti Baschenis di Averara, due famiglie originarie della bergamasca, restano anche altri affreschi nella vicina Santo Stefano di Carisolo, suggestiva chiesa che poggia su un’altura a 826 metri, dove si vedono ancora sulla parete esterna, una storia del Santo Vigilio e un’altra Danza macabra.

Uno straordinario esempio precedente si può trovare a Clusone, nella Valseriana, sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini, con gli affreschi dipinti nel 1485 da Giacomo Borione de Buschis: l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, il Trionfo della Morte e la Danza macabra. A queste opere sono stati dedicati ponderosi saggi, che legano addirittura questi soggetti forti penitenziali all’invenzione del Purgatorio, e anche tante altre riflessioni, tra cui l’interpretazione suggerita dal sociologo Mc Luhan.

Per l’inventore della mass-mediologia, le danze macabre dei Baschenis, oltre che della peste in chiave apocalittica, parlavano in qualche modo anche della fine dell’epoca degli stessi pittori frescanti, incalzati dalla nascita della stampa. Chissà se un giorno qualche brillante studioso rileggerà con altrettanta disinvoltura intellettuale i diari di bordo da Yokohama di Allegra Viandante su Facebook o gli album di foto su Instagram dei turisti prigionieri delle navi bloccate per il coronavirus… Ma questo è un altro discorso.

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Un paese (normale) ci vuole

Nord e Sud. Al nord il decennio è finito a Sondrio, ridente cittadina alpestre, dove al locale ospedale i medici non sono riusciti a salvare una bimba di cinque mesi ricoverata d’urgenza. La madre si mette a urlare e a piangere disperatamente. E gli altri ricoverati la scherniscono: “Ma fatela stare zitta!”, “Basta con ‘sti riti tribali!”, “Silenzio, scimmia!”. La povera donna è nigeriana, e quindi insultarla è normale.

Al sud è finito a Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria; anzi in una località ignota dove un’adolescente violentata segretamente vive, protetta dalla polizia, per salvarsi dalle minacce e dagli scherni dei compaesani. “Si sono messi tutti con gli stupratori – sussurra il padre – Loro liberi in giro per le strade e noi qui, nascosti”. Il capo degli stupratori è il figlio del boss del paese e questo, nella normalità di Melito, spiega tutto.

Ehi, ma non siamo a febbraio? Che c’entrano ‘ste storie dell’anno scorso? Perché non pensi ai cantanti, al festival e alle dichiarazioni, alle cose di ora? Il fatto è che le cose di ora, nel Paese Felice, durano molto poco. Nel giro di pochi giorni son digerite, entrano nell’abitudine e restano a farne parte tranquillamente, senza che ci si pensi più. Sono “normali”.

La cosa più importante di tutte, nei medioevi – e questo evidentemente è un medioevo – è di segnare pazientemente i confini della “normalità”. Nei paesi civili – ad esempio – gli abitanti si chiamano cittadini, hanno dei diritti, son chiamati col “lei”, votano addirittura ogni tanti anni. Qui, uno su dieci, no: vota solo chi è chiaro di pelle eppure questa elezione – chiaramente incivile – vale lo stesso.

L’elezione appassiona moltissimo questo paese, quasi quanto Sanremo o il campionato. L’ultima volta, guarda un po’, ha messo interesse persino a me; il che è strano, perché io so benissimo che i veri governanti (i Cianci, i Benettoni, i Messina i Denari, e compagnia bella) non li vota nessuno. Però in questo caso si trattava di Bologna, la capitale civile, su cui le colonne fasciste si concentravano ferocemente sghignazzando e urlando. Io – ora posso dirlo – lì a votare ci sarei andato, e avrei votato per chiunque, buono o cattivo, fosse contro l’invasor. L’idea è venuta in mente pure a tanti ragazzi di lassù, che si sono riuniti, si sono scelti un nome (buffo) per distinguersi e hanno cacciato i barbari dalla loro terra. Bello. Il passo successivo è stato di allargarsi fuori, di trovare altre imprese e cose utili da fare e di chiamare gli altri a dare una mano.

Ed è sempre così: si comincia a Torino e si fa il Sessantotto, si comincia a Palermo ed eccoti la Pantera, si comincia a… Basta, queste cose nascono sempre in posti piccoli e per poco e si allargano svelte a tutto e per tutto quanto; la fata Cambiamo-tutto svolazza allegramente sopra di loro e ciò che era normale appare fulmineamente stupido e infelice, e ciò che era strano possibile e normale.

Purtroppo, oltre che le fatine simpatiche e ridenti, nel cielo s’affaccia ben presto anche un puntino nero: s’avvicina, s’abbassa, fa cerchi sempre più stretti sopra la folla dei ragazzi che, intenti alla loro allegria, neanche ci fanno caso.

E’ la Brutta Strega Cattiva, il cui nome è Politikè Politikànt. “Sei un vip! Un lìder! – sussurra alle fanciulle e ai giovinetti – Sei una persona importante! Parla con gli altri vip e lìder! Che aspetti?”. E ahimè gli ingenui (noi speriamo che siano ingenui) giovinetti e fanciulle non cacciano la fattucchiera ma per un istante le danno ascolto.

Questa vita “normale” non è normale affatto. Catania non è più Catania, né Roma e Milano sono Milano e Roma: sono città diverse da quelle che abbiamo vissuto prima. Sono Berlino Est, sono Johannesburg o Norimberga, sono luoghi di Weimar in procinto di farsi Reich. Non per forza così: è ancora possibile uscire da questo film orribile e tornare nel nostro mondo; ma bisogna svegliarsi, stropicciarsi gli occhi, scuotersi dalla “normalità” fasulla, tornare persone reali. “Normalità”, in un posto come Catania San Cristoforo o Verona o Scampia, significa radunare i giovani e gettarli alle fauci dell’autodistruzione e dell’orrore. Chi questa “normalità” non la denuncia, ogni giorno e ogni volta e a gran voce, tradisce quei giovani e aiuta la loro distruzione.

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Le esigenze dei pazienti devono venire prima del guadagno delle aziende sanitarie

Ho scritto tante volte che per essere accreditati con il Servizio sanitario nazionale occorre per prima cosa avere un Pronto soccorso nella struttura. Il Pronto soccorso è costoso, impegnativo e rischioso. Se vogliamo salvare il nostro Sistema sanitario occorre ridistribuire i costi fra le strutture che partecipano a qualunque livello alla “torta”. Le aziende sanitarie che hanno solo interessi risparmiando i rischi e i costi devono essere cassate.

In questa ottica occorre leggere lo studio che stabilisce che “il 91,5% degli accessi in pronto soccorso grava sugli ospedali pubblici”. Il dato varia da Regione a Regione: in 11 Regioni le strutture private accreditate non hanno il Dipartimento emergenza-urgenza e Pronto soccorso, in 17 non hanno il Pronto soccorso pediatrico, in 8 non hanno l’Unità di terapia intensiva, in 12 non hanno l’Unità di terapia intensiva coronarica, in 15 non hanno la Terapia intensiva neonatale e in 18 non hanno i servizi immuno-trasfusionali. Nelle strutture pubbliche l’offerta degli stessi servizi per l’emergenza-urgenza è presente in tutte le Regioni.

Bisogna prendere in carico i cittadini secondo le loro esigenze, non secondo le esigenze di guadagno delle aziende sanitarie. Altrimenti si rischia di arrivare a situazioni estreme come è avvenuto all’ospedale Maggiore di Bologna: 19 ore in Pronto soccorso con cambiamento di colori di priorità senza risolvere nulla, divenendo codice bianco e dovendo versare 135 euro di ticket!

Per ridurre il tempo di attesa occorre aumentare le possibilità di accesso, coinvolgendo tutti i soggetti accreditati, e come dico da anni far turnare 7 giorni su 7, 24 ore su 24, nelle strutture tutti i medici di base convenzionati che aiuterebbero e ritornerebbero a fare i medici a contatto con la medicina vera, quella ospedaliera. Altro che le scuse del Direttore del Pronto soccorso e della medicina d’urgenza per il troppo lavoro e del fatto che si rivaluterà la posizione della paziente!

Per questi motivi non sono d’accordo con il gruppo sanità del Movimento 5 Stelle del Piemonte che vuole mantenere pubblico un servizio che anche in Piemonte è al collasso: il problema, cari grillini rimasti, non è fare barricate contro il privato ma cancellare il convenzionamento al privato senza Pronto soccorso che fa concorrenza sleale al pubblico. Questi sono argomenti. Il resto solo parole inutili, con il rischio che il privato vinca e faccia quello che vuole della salute dei cittadini.

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Voglio fare gli auguri alla categoria più odiata: i politici. E vi spiego perché

In questi giorni di festività natalizie, vorrei fare i miei auguri e lanciare un pensiero affettuoso alla categoria più bistrattata, odiata e svilita che esista in Italia. Un gruppo di persone che si occupa dal mattino fino a notte inoltrata dei problemi degli altri (le cronache ne sono piene), che deve correre in aereo in treno o in auto da un meeting a una riunione per poi, finalmente, finire in qualche convegno: mi riferisco ai politici.

Ci riflettevo in questi giorni: devono avere un gran fisico e un’organizzazione mentale molto strutturata. Sul piano fisico reggono sforzi notevoli. Non è raro sapere dalle cronache che al mattino sono in una certa parte del mondo per catapultarsi poi, al pomeriggio, in un luogo estremamente distante dal primo. Le riunioni a cui partecipano mi paiono impossibili da affrontare, così come immagino siano le innumerevoli telefonate, i suggerimenti, le richieste. Ogni giorno qualcuno vuole pranzare o cenare con loro per esporre questo o quel problema. Forse non sono lasciati in pace neppure quando sono in bagno.

Sul piano psicologico sanno di essere odiati da un minimo di 70 fino al 99% della popolazione, che imputa loro tutte le nefandezze, ritiene che siano ladri, approfittatori, incapaci. Quando fanno un discorso sanno già che alcuni giornalisti che distorceranno le loro parole per farli apparire “dei pirla”. Per non parlare dei comici che aspettano solo una piccola gaffe, un’incertezza, una contraddizione per amplificarla a dismisura e costruirci sopra una macchietta che li perseguiterà per anni. Quello che in Italia viene perdonato ai comuni cittadini (ad esempio un poco di evasione fiscale, qualche abuso edilizio, una scappatella sessuale), se scoperto diviene per settimane al centro del dibattito. Alcuni magistrati per apparire sui giornali e in televisione sanno che devono attaccare un politico, meglio se di “grossa stazza” elettorale, per cui la caccia al politico è costantemente aperta. Spesso queste inchieste decadono nel nulla e il malcapitato verrà assolto ma, nel frattempo, è stato inchiodato e svillaneggiato per anni.

Certo, si sono scelti da soli questo mestiere e hanno indubbi vantaggi economici e di immagine ma forse, quando hanno iniziato, pensavano che, cercando di essere onesti e bravi, avrebbero avuto le folle acclamanti. Hanno presto scoperto che le folle sono volubili: un giorno ti elevano e nel giro di pochi mesi o anni ti massacrano. L’onestà spesso non basta mai, anche perché il potere richiede compromessi, abbisogna del sostegno del denaro e quindi rimanere “illibati” è difficile. La competenza e le capacità si scontrano con prassi consolidate, interessi contrapposti, corporazioni che vogliono mantenere dei poteri di veto, per cui se anche l’uomo politico credeva di aver partorito il progetto più bello del mondo, ci sono subito stuoli di demolitori che trovano mille pecche. Ci sono molte persone con lavori più tranquilli e meno esposti che guadagnano più di loro, mentre i politici paiono doversi vergognare per lo stipendio che prendono.

Un capitolo doloroso della loro vita credo sia l’ingratitudine, per cui sanno che il loro miglior amico e alleato domani può divenire il loro peggior nemico. Giulio Andreotti affermava che quando promuoveva qualcuno creava un ingrato e dieci insoddisfatti. Per questo motivo devono imparare presto ad essere a loro volta ingrati, “a non fare prigionieri”, a distruggere i loro nemici per timore che domani questi distruggano loro. Le pacche sulle spalle, le profferte di amicizia, il sostegno elettorale, i sorrisi alle cene sono da “prendere con le molle” perché sotto c’è la fregatura.

Credo che i politici siano fondamentalmente soli. Circondati da moltitudini, ma soli di fronte alle decisioni più rilevanti e alle responsabilità. Io mi sentirei tremare nel dover prendere certe decisioni che riguardano il lavoro di migliaia di persone, implicano miliardi di euro di investimenti o addirittura possono incidere sulla vita e sulla morte di persone. Per non parlare della possibilità di essere coinvolti in guerre come quella in Libia.

Per tutti questi motivi, mi sento emotivamente vicino, in questi giorni natalizi, a tutti i politici.

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