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Bnpl: strumento finanziario suicida se non disciplinato immediatamente

Tutti parlano di povertà in aumento (anche dopo aver visto i dati di Eurostat) ma nessuno affronta il ragionamento di disciplinare alcuni strumenti che alimentano il fenomeno del sovra indebitamento, quella difficile situazione di coloro, consumatori o piccole imprese, che non riescono a pagare i propri debiti a causa di uno squilibrio tra le disponibilità economiche e i debiti da pagare. Ovviamente qui parliamo di azioni “preventive” per non aumentare il numero dei cittadini sovra indebitati perché come azione correttiva ex post, fortunatamente, esiste già una legge che prevede, al fine di porre rimedio alle situazioni di sovra indebitamento, che sia consentito al debitore di concludere un accordo con i creditori che possa prevedere una soddisfazione parziale del debito o anche una dilazione del pagamento. E’ la legge 3/2012 detta anche “legge salva suicidi”, nickname che conferma (si ricorre al suicidio quando il dramma è consolidato) la natura di tutela a posteriori del provvedimento.

Nessuno si sofferma, invece, su uno strumento finanziario, allo stato assolutamente non disciplinato, che inizia a diffondersi in maniera capillare e che, se non regolamentato adeguatamente, continuerà a sostenere la crescita della popolazione sovra indebitata. Si tratta del Buy Now Pay Later (Bnpl), che ha rapidamente conquistato importanti quote di mercato a discapito dei tradizionali strumenti di credito al consumo. Uno strumento creditizio che consente ai consumatori di ripartire in più rate (solitamente tre o quattro) i propri acquisti in negozio e online e che risulta più conveniente rispetto ai tradizionali strumenti di credito (anche della similare e micidiale carta di credito revolving) poiché in molti casi non prevede l’applicazione di tassi d’interesse (se il commerciante decide di sostenere quella spesa per conto dei suoi clienti), non impatta il credit scoring del consumatore né richiede il superamento di controlli stringenti del proprio merito creditizio.

Ecco proprio la facilità con cui poter accedere ai servizi di Bnpl deve far preoccupare, non perché faciliti l’inclusione finanziaria (che sostengo da tempo), ma perché tende a stimolare gli acquisti impulsivi soprattutto da parte dei più giovani (il segmento più debole e finanziariamente instabile) e di una sempre più vasta gamma di beni con prezzi medi contenuti quali abbigliamento, accessori e prodotti per la casa e per la cura personale.

Secondo l’analisi condotta da Piplsay, il 61% degli utenti negli Usa utilizza il Bnpl per l’acquisto di prodotti troppo cari che superano il proprio budget o per i quali non si dispone di fondi sufficienti, con conseguenti ritardo nel pagamento delle rete (42%). Inoltre secondo un’indagine di Crif, oltre il 20% dei clienti Bnpl ha più linee di credito attive, e gli stessi clienti sono più rischiosi dei richiedenti prestiti classici di 1.7 volte. In altre parole, oltre a far dubitare dell’effettiva necessità di ricorrere con quotidianità a forme di credito, specie per l’acquisto di prodotti e servizi a basso ticket, l’utilizzo continuo del Bnpl rischia di mettere in ombra la natura creditizia di questo strumento e di compromettere la capacità di giudizio del consumatore che non percepisce la dimensione finanziaria che si cela dietro i suoi acquisti. “Basta Non Pagare L’inutile” potrebbe essere la traduzione etica dell’acronimo.

Per quanto riguarda poi la mancata applicazione di un tasso di interesse finora adottata dai principali players, la pacchia sta per finire per l’aumento dei tassi e dell’inflazione che hanno prodotto una drastica (anche oltre il 90%) riduzione della valutazione di mercato dei principali players, che devono quindi trovare un modo per mantenere l’attività redditizia continuando a fare i conti su una sempre maggiore pressione fiscale. Immaginate come e a danno di chi? Facile.

Mi chiedo come mai nessuno schieramento politico accenni ad una legge che disciplini il fenomeno. Potrebbe essere un argomento oggetto di un programma di governo da presentare in campagna elettorale. Ma si sa che il mondo della finanza serve moltissimo in campagna elettorale.

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L’inflazione non è un grave pericolo: parola di Krugman. Ma poi arriveranno i problemi veri

È lo stesso Krugman a sollevare il dubbio posto nel titolo. Ma lo fa in modo largamente propedeutico nel suo articolo del 23 agosto sul New York Times, dal titolo: Must we suffer to bring inflation down? (“Dobbiamo proprio soffrire per tenere l’inflazione bassa?”).

Il solo fatto che lui ne parli per chiarire è già indice del fatto che “…non tutti sanno…”, e che, per non sbagliare, è meglio chiarire. Ma già lo aveva fatto appena pochi giorni fa e proprio con una attenzione particolare a noi, cioè all’Italia. Che è davvero una cosa non comune per un economista del suo livello (a parte le critiche sul nostro debito pubblico: nonostante i numerosi cambi di governo, non n’è uno che riesca a mettervi ordine. Eppure, privatamente, siamo tra i migliori risparmiatori al mondo! A inizio anni ’60 abbiamo anche vinto l’Oscar dei migliori al mondo!).

Il “vizietto del debito” diventa però particolarmente pesante quando arrivano i tempi duri, come quello che, proprio ora, dobbiamo attraversare a causa dei costi, ormai quasi triplicati, del gas e del petrolio, originati dalla criminale guerra della Russia in Ucraina, per la quale non è purtroppo ancora possibile prevedere la fine a breve termine. È chiaro che un aumento così ingente sul costo del gas e del petrolio in Europa induce un generale aumento dei prezzi, assorbe elevati livelli di liquidità, produce tensione sui mercati (specialmente europei), genera crisi e disoccupazione e può scatenare un grave periodo di recessione in tutta l’economia dell’area interessata.

Krugman però in questa occasione se ne occupa proprio per dire quasi il contrario, ovvero per scaricare un po’ la tensione. Naturalmente in questo caso si riferisce all’andamento dei prezzi negli Usa (o globali) nelle aree non interessate direttamente dalla guerra in Europa. È probabile che la Fed debba mantenere ancora per qualche tempo la strategia “ortodossa” di qualche leggero rialzo sui tassi (anche se questo avrebbe un immediato riscontro negativo sull’occupazione), ma dalla lettura degli indici globali del comparto alimentare (vedasi grafico allegato) appare un netto segnale di ripresa in giugno-luglio, rispetto al periodo di questa primavera quando la guerra in Europa ebbe inizio.

Però, sostiene Krugman, è davvero necessario proseguire con ulteriori “strette monetarie” potendo invece seguire strategie “eterodosse” alternative? In questo modo si eviterebbero inutili sofferenze nel comparto dei salariati, ma anche minori probabilità di cadere nel tuttora possibile “giogo” della recessione.

“Ci sono due modi – dice Krugman – per domare l’inflazione senza costringere l’economia ad avvilenti sacrifici su chi è colpito”. Il primo (incomes policy) è il classico intervento ‘interno’ del governo, con severi controlli sugli abusi speculativi e con ‘moral suasion’ sugli operatori interni di settore. Il secondo (hold prices down) è quello di espandere direttamente l’offerta del prodotto (ove possibile), impedendo al prezzo di salire.

La strategia dell’incomes policy ha dato ottimi risultati in Israele nel 1980, ma è lo stesso Krugman ad ammettere che quel caso aveva condizioni molto particolari, difficilmente replicabili in una situazione globale come questa. È sempre lui ad ammettere che questo caso è “Probably just a classic case of too much money chasing too few goods” (il classico caso dove troppo denaro è in caccia di merce carente, provocando forti rialzi sui prezzi). E’ però proprio quello che possono (e devono) fare soprattutto la Federal Reserve Usa e la Banca Centrale Europa: alzare i tassi per diminuire la liquidità circolante. Infatti entrambe stanno già operando proprio in questo senso.

Oppure sarebbe possibile aumentare l’offerta globale dei prodotti che scarseggiano. Ma, su questo punto, tutta l’Europa e la Bce sono ancora stese a terra dopo il terribile gancio al mento subito il 24 febbraio dalla Russia di Putin. Krugman dice però che è possibile agire anche in modo indiretto, per esempio nelle infrastrutture. Gli investimenti drenano liquidità e occupano persone. Il denaro che circola in questi investimenti (già avviati anche in funzione della crisi indotta dalla pandemia) riduce la disponibilità degli investitori globali nel campo energetico e toglie un po’ di pressione da questo settore. Naturalmente non basta a risolvere il problema per l’Europa, ma potrebbe bastare almeno a tener lontano lo spettro della recessione.

Tuttavia c’è un problema ancor più serio per tutta l’Europa, che Krugman ovviamente nemmeno sfiora: l’America ci aiuta e ci protegge per ora dalle nuove ambizioni egemoniche di Russia e Cina, ma ha già problemi molto seri in casa sua (li sappiamo già, ma ne parleremo un’altra volta): per quanto tempo ancora vorrà o potrà farlo? È suonata l’ora della sveglia: chissà se i nostri leader, super impegnati a mettere la faccia nelle peggiori elezioni di legislatura dall’inizio della nostra Repubblica, se ne rendono conto?

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Elezioni, le proposte per la scuola del M5s tra comunità energetiche ed educanti

Concordo con quanto afferma Tuttoscuola, che da 40 anni cura l’informazione educativa italiana con il suo ricco sito online e con la sua rivista cartacea mensile. I programmi sulla scuola di ogni partito rischiano di essere un libro dei sogni, non solo in queste elezioni ma da sempre. Secondo le stime dello studio sono necessari tra i 12 e i 15 miliardi di euro all’anno per mantenere tutte le promesse, una cifra a cui ci siamo avvicinati solo durante gli stanziamenti del governo Conte II che ha affrontato la pandemia da Covid-19, scegliendo di rilanciare gli investimenti nella scuola. Nel 2020 si avvicinammo alla spesa di 9 miliardi di euro, riducendo le classi pollaio a sole 9000 unità grazie ad organico aggiuntivo e interventi di edilizia scolastica ad hoc. Caduto quel governo il problema delle classi sovraffollate è andato in soffitta con Draghi e le scuole sono tornate ad avere circa 14mila classi sovraffollate, secondo le stesse stime della rivista Tuttoscuola.

Il M5S e Giuseppe Conte hanno già dimostrato con i fatti, prima di qualsiasi programma elettorale, che la volontà è stata di aumentare le risorse nella scuola finché il lavoro non è stato interrotto dal governo Draghi. L’impegno economico è tuttavia più cospicuo e necessita di una vera rivoluzione delle regole europee del patto di stabilità. È qui che Tuttoscuola e le altre testate che si occupano di istruzione troveranno la vera novità nel programma integrale, in via di pubblicazione, che ho redatto insieme ai membri del comitato Istruzione e cultura costituito da Giuseppe Conte.

In generale, è la spesa per l’educazione che in Italia resta ridicola. Secondo i dati di Eurostat siamo il Paese europeo che, in percentuale rispetto alla propria spesa pubblica, investe appena l’8% in educazione posizionandosi all’ultimo posto in classifica in Europa. Una vera contraddizione per un Paese che ha ricevuto i maggiori fondi per un programma di Ripresa e Resilienza. Sebbene per i fondi del Pnrr abbiamo stabilito una percentuale rilevante per il comparto, questi fondi, se non accompagnati da finanziamenti in conto capitale nazionali e strutturali, rischiano di cadere nel vuoto. Quindi, per incidere realmente nella spesa dell’istruzione sul Pil, il futuro governo dovrà lottare per ottenere all’interno della riforma del patto di stabilità quella flessibilità di spesa in conto corrente per l’istruzione. Parliamo di spesa ordinaria che serve per aumentare gli stipendi e il personale necessario a sdoppiare le classi troppo affollate, ridurre le reggenze dei dirigenti e aumentare il personale Ata con l’aumento del numero di classi. Temi ampiamente sviluppati nel programma integrale del M5S.

Il comitato Istruzione e cultura del M5S vuole istituire una dote educativa in sinergia con i patti di comunità educanti, varati durante il Conte II, destinata principalmente alle scuole di quartiere e di periferia che, più di tutte, devono garantire servizi educativi e culturali personalizzati per la fascia di alunni svantaggiati per contrastare la dispersione scolastica. Il tutto in stretta collaborazione con gli uffici delle politiche sociali degli enti locali. Le comunità educanti possono diventare una misura strutturale di contrasto alla povertà educativa e culturale, con esperienze dirette di outdoor, con le discipline sportive, le competenze artistico-creative, educazione civica e professionale. Per promuovere la cultura del benessere scolastico il M5S vuole creare equipe di psicologi, educatori e pedagogisti a scuola che, dismettendo la loro funzione a sportello, diventeranno figure strutturali a supporto della comunità scolastica, in un momento storico dove i problemi individuali di depressione, violenza, di relazione si sono acuiti.

Con i 2,2 miliardi del Pnrr e i fondi del RePower EU il comitato Istruzione e cultura ha proposto la costituzione di Comunità energetiche, sfruttando gli oltre 8000 tetti degli istituti scolastici e ciò non può che incidere in una nuova didattica e formazione diffusa sui temi della transizione ecologica. Abbiamo previsto il tempo prolungato come offerta standard su tutto il territorio nazionale, investimento in mense ed educazione alimentare, con l’aumento di laboratori che utilizzino materiale didattico innovativo, frutto delle esperienze pedagogiche più avanzate secondo la carta di avanguardie educative di Indire.

Ci impegniamo con la massima determinazione a potenziare il tempo pieno in tutto il territorio nazionale, amplificando l’offerta outdoor ed esponenziale pomeridiana e rendendo gratuito l’intero percorso scolastico (da 0 a 18 anni) per gli studenti provenienti da famiglie con redditi medio-bassi. Le strutture scolastiche, universitarie e altri spazi pubblici e privati vanno messi al servizio di un’offerta di lifelong learning con finalità di reskill e upskill, a partire dalle ore 17.00. Il tutto con finalità culturali e sportive da svolgere nel tempo libero per tutte le fasce di età. Tutto questo sarà possibile se nel Paese si muoverà anche un movimento culturale in grado di lottare per la riforma del patto di stabilità, che chieda l’esclusione della spesa corrente per l’istruzione. Dopo le cure dimagranti imposte da Berlusconi, Tremonti e Gelmini, ce lo meritiamo.

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Crisi climatica: il settore vinicolo potrebbe guidarci verso un’agricoltura sostenibile

Chissà se il 2022 sarà ricordato come la prima di una serie di annate estremamente siccitose oppure stagioni irregolari si alterneranno di qui in avanti. “Mai visto niente del genere”, dice il presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella. Si stima una produzione in calo di circa il 10% e si rincorrono titoli che parlano di allarme ed emergenza. Sono passati 25 anni dal protocollo di Kyoto e tanti di più dai primi studi sul riscaldamento globale, e siamo ora a interrogarci su soluzioni puntuali in mezzo a crisi annunciate che dureranno decenni, di cui abbiamo responsabilità.

E perché non proprio il vino a guidare un cambiamento netto in agricoltura? È la domanda che arriva dal sito JancisRobinson.com (Jancis Robinson è una delle principali giornaliste e critiche di vino al mondo, dirige il sito citato e scrive sul Financial Times), in una riflessione del produttore Dudley Brown, che Robinson stessa introduce come “un pezzo fondamentale. Forse l’articolo più impegnativo e d’indagine che ho letto finora sulla sostenibilità nell’industria del vino”, Over the rainbow – sustainability and farming systems. L’articolo introduce i diversi approcci alla viticoltura (conventional, organic, biodynamic and regenerative), per poi analizzare perché potrebbe essere proprio il settore vinicolo a trainare, gradualmente e pragmaticamente, la transizione verso una sostenibilità reale e non di facciata.

“Al riscaldamento del clima si risponde lavorando sul singolo particolare (il gene, il portainnesto ecc.) distogliendo lo sguardo dall’ecosistema nel suo complesso, dalla visione complessiva di questa natura sempre più ibrida e spacciata”, scrive Corrado Dottori nel libro bellissimo Come vignaioli alla fine dell’estate. L’ecologia vista da una vigna, per l’editore Derive e Approdi. Al di là dei sovesci e del cover crop per mantenere l’umidità nel suolo, della maggiore resistenza e memoria delle vigne vecchie, della sostituzione dei varietali o dello spostamento in alto dei vigneti, dell’irrigazione necessaria (ma con quale acqua?) e dei portainnesti più idonei, la domanda è: per quanto ancora si potrà andare avanti adattandosi e tamponando anziché prendere atto che, così come è oggi, l’agricoltura (soltanto l’agricoltura?) non è sostenibile, le bottiglie più leggere non bastano, ed è necessario sviluppare – ed esigere – un’agenda politica con la crisi climatica tra i primissimi punti?

Questo video di Will Media, della giornalista Silvia Lazzaris, cerca di spiegare “come il cambiamento climatico favorisce la siccità” e alcune conseguenze pratiche future.

“Quello che si sta osservando e a cui andremo sempre più incontro è l’alternanza pericolosa di periodi in cui si ha assenza di precipitazioni e poi quando piove, piove in maniera troppo abbondante”, nota Serena Giacomin, meteorologa, climatologia e presidente dell’Italian Climate Network. L’agricoltura impiega circa il 70% dell’acqua utilizzata per le attività umane e contribuisce al 24% delle emissioni di gas serra globali, con gran parte delle colture destinate alla produzione di mangime per il bestiame, pascolo e allevamento. Ogni anno consumiamo sempre più risorse di quanto la terra sia in grado di generare. Queste cose si sanno, ma voglio ripeterle: non si parla di utopie, si parla di egoismo giustificato da necessità e racconti.

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Nuove tessere sanitarie senza microchip: eppure basterebbe un dito per accedere ai nostri dati

Ho letto che il ministero dell’economia e delle finanze ha deciso dal 1 giugno di sostituire le tessere sanitarie scadute con nuove tessere senza microchip. Senza spiegare siamo tornati a spendere soldi solo per avere un codice fiscale in tasca. Nessuna delle utilità quali i servizi online collegati al lettore usb, che molti hanno acquistato, potranno essere usati. Penso alla lettura degli esami, penso alla firma elettronica. Milioni e milioni di euro spesi per un servizio al momento fermo per la mancanza di microchip. Passi indietro nella tabella della semplificazione e della tecnologia. Ma non tutto vien per nuocere.

Cerco di spiegare da anni l’importanza di History Health a tutte le forze politiche senza trovare consenso e tanto meno risposta. Ci vorrebbe un interlocutore politico che capisse, in questo momento di campagna elettorale, l’importanza di gestione soggettiva dei dati sanitari, non racchiusi in un microchip ma nella nostra impronta digitale unica e irripetibile. Visite, esami, cartelle cliniche, farmaci tutti raccolti nel nostro armadio digitale, ognuno nel proprio cassetto. Visionabile sia dal cittadino che dall’operatore sanitario anche in momenti di inerzia: basta alzare il dito del paziente. Solo gli operatori sanitari possono, autenticandosi con la propria impronta, scrivere nel nostro diario della salute.

Come mai la politica, che gestisce la nostra salute e la nostra malattia, non ascolta e non diffonde questo metodo che ci saremmo ritrovati come arma di combattimento utile contro il Covid? Quanti ne avremmo salvati se avessimo saputo almeno le patologie e le terapie di tutti quelli arrivati ai Pronto Soccorso? Certamente i dati sanitari sono importanti per le aziende farmaceutiche e per le assicurazioni ma anche per i singoli governi che possono veicolare la loro politica e influenzare la vita dei cittadini. Oggi più che mai, come è accaduto nel Regno Unito, e il Guardian lo ha pubblicato.

Io credo invece che i dati sanitari possano essere utilizzati per il bene comune, ma previa autorizzazione da remoto all’accesso per un periodo limitato al proprio database soggettivo, non in silenzio da un microchip. Ora nemmeno da quello. Ho creduto negli anni alle nuove forze politiche che si sono affacciate sotto il sole della politica che potessero capire, implementare e usare. Spesso ho avuto delusioni dettate dallo scambio di favori politici ed economici mai dalla parte dei cittadini che sono sempre stati sudditi. Riuscirà prima o poi qualcuno a capire che l’unico modo di essere è esistere, per gli altri? Un bel dì vedremo. Forse.

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Questa campagna elettorale mi ricorda il 2008: anche il Pd di Letta è chiamato alla resistenza

di Andrea Taffi

Elezioni politiche 2008. Da una parte il centrodestra a monarchia assoluta Silvio Berlusconi, re (in)discusso di un modo di fare politica destinato a permeare di sé il futuro modus operandi dei politici a venire. Dall’altra parte dello schieramento lui, Walter Veltroni, leader non del centrosinistra, ma della sinistra, di tutti coloro che si fasciano di un’unica bandiera attorno alla quale si stringono con l’orgoglio della resistenza. Quella bandiera è quella del Pd, appena nato, partorito e battezzato proprio da lui, da Veltroni.

Le speranze sono tante, le forze un po’ meno, ma il desiderio di un’Italia nuova, di un’ultima barriera prima del baratro, è forte e spinge tanta gente al voto. Il nome di Berlusconi, dell’avversario non viene mai citato: è una battaglia contro un sistema, non contro un uomo. Non è una demonizzazione è una ristrutturazione dopo la presenza a palazzo Chigi di un inquilino non troppo attento alle cose pubbliche. Veltroni è eroico (almeno così è parso a me), ma non ce la fa: perde.

La berlusconizzazione del Paese, già iniziata nel 1994 trionfa e si completerà, polverizzando quel poco di morale politica che si era riusciti a mettere da parte. Ecco, questa campagna elettorale estiva mi ricorda quella del 2008. Non ci sono più quei protagonisti, Berlusconi conta molto, molto meno di allora (ma attenzione: è ancora lì). Adesso il Pd è quello di Enrico Letta e la destra quella della Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. Eppure anche adesso, come allora, mi sembra che ci sia una sorta di chiamata alla resistenza.

Perché mentre nel 2008 la berlosconizzazione definitiva era il problema, oggi il dramma è la deriva fascistoide del paese. Una destra che strizza l’occhio a un nuovo ordine mondiale trasversale che parte da certi oligarchi russi finanziatori di un ultraccattolicesimo radicale statunitense. Una destra in tailleur che rischia di portare a galla certa destra in mimetica dalla quale solo a parole vengono prese le distanze. Non è più, quella della Meloni, la destra di Almirante, fascista e basta.

No, è una destra apparentemente moderna, che però rischia infiltrazioni fascistoidi nel senso ampio del termine, una sorta di pensiero autoritario subdolo, ma non meno violento del manganello. Non si tratta più di semplice politica, ma di pensiero politico, di filosofia politica direi. Un pensiero, una filosofia che non è possibile fronteggiare con la teorica di carta velina degli schieramenti, delle agende politiche e delle alleanze, ma con un pensiero politico profondo capace di contrapporsi a quello delle attuali destre, non solo italiane. Nel 2008 Veltroni cercò di combattere un pensiero simile, anche se meno subdolo e nascosto. Allo stesso modo, oggi Letta e gli altri dovrebbero capire la deriva che ci aspetta, lasciar perdere quello che è stato e occuparsi di quello che sarà.

Ecco, forse è questa sfida la vera unità nazionale, quella che mira a unire un pensiero politico apertamente democratico in contrapposizione a un altro subdolamente e nascostamente autoritario. E questo compito, ancora una volta, spetta al Pd. Letta, citando uno dei tanti Rocky, ha parlato di una campagna elettorale da fare con gli occhi della tigre. Non basta (mi permetto di dire): ci vogliono anche il cuore, la forza, la determinazione della tigre, ci vuole quella istintiva intelligenza di un animale che lotta per la sopravvivenza.

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Giovanni Melillo dice parole sante: serve nuova collaborazione tra legislatore, magistrati e servizi

Nelle parole del procuratore nazionale antimafia ed anti terrorismo, Giovanni Melillo, trovo l’urgenza di riannodare un filo che forse negli ultimi anni è andato assottigliandosi pericolosamente. Quello della leale collaborazione tra legislatore e magistratura sul terreno degli strumenti necessari a proseguire nello sforzo per la liberazione dell’Italia dalle mafie. Infatti in uno dei passaggi più interessanti della intervista concessa a Bianconi su il Corriere, Melillo, riferendosi al ruolo di Spatuzza nel fare chiarezza sulla strage di Via D’Amelio, osserva:

“Anche per non rischiare di perdere di vista l’importanza, assolutamente fondamentale nel contrasto alle mafie, dello strumento dei collaboratori di giustizia, per cui tanto si spese Giovanni Falcone. Anzi, da tempo è matura l’esigenza di assicurare al sistema di protezione dei collaboratori reali standard di modernità ed efficienza; ancora oggi, ad esempio, per un’inerzia legislativa davvero incomprensibile, manca una disciplina dei documenti di copertura che impedisca, come purtroppo è accaduto, che una cosca mafiosa rintracci il collaboratore che ne ha svelato i delitti attraverso mirati accessi abusivi alle informazioni dei sistemi sanitari, previdenziali e fiscali”

Parole “sante” e come sappiamo l’altra grande smagliatura è quella relativa alla protezione da riconoscere alle donne che con i loro figli, intendono rompere con le famiglie mafiose di provenienza, pur non potendo diventare collaboratrici di giustizia. Nella passata legislatura, quella conclusasi nel 2018, sono stato il presidente del V comitato della Commissione parlamentare antimafia, quello che si occupava proprio di testimoni, di collaboratori e di vittime di mafia, negli anni nei quali il dott. Melillo era impegnato al ministero della Giustizia, abbiamo avuto quindi modo di conoscerci e di confrontarci su questi temi. Ecco perché, per me, hanno un valore particolare quelle affermazioni sui collaboratori: allora riuscimmo, grazie alla sintonia tra governo e Parlamento, ad approvare all’unanimità una riforma del sistema tutorio dei testimoni di giustizia (che andrebbe oggi sottoposta a verifica e sicuramente più puntualmente attuata), ma non arrivammo a rivedere le norme relative ai collaboratori, sull’importanza dei quali ci siamo più volte soffermati.

Ma l’intervista a Melillo è importante per almeno altre tre ragioni, che mi pare descrivano un programma di azione. Il richiamo forte alla deontologia professionale dei procuratori, che a detta di Melillo, hanno talvolta peccato di superficialità, vanità e persino di approcci autoritari ed autoreferenziali, al fine di difendere al meglio l’indipendenza dei procuratori stessi, evitando di prestare il fianco a “falli di reazione” (li chiamo io così!) da parte della politica, che abbiano come conseguenza l’appiattimento pericoloso del lavoro dei pm. Il riferimento preciso alla collaborazione con il Dis e cioè con il dipartimento incardinato presso la presidenza del Consiglio dei ministri che coordina il lavoro dei due servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica, l’Aisi e l’Aise, al fine di accedere ordinatamente a materiali utili alla comprensione delle “pagine più oscure” (cit. Bianconi) del nostro Paese.

Sono convinto che potrà essere una collaborazione utile ora che, essendo passati da quei fatti circa trent’anni, ed essendo cambiati in modo sostanziale le mappe geopolitiche, gli assetti di potere e financo i servizi segreti stessi, qualche speranza di fare le domande “giuste” ed ottenere qualche risposta, c’è. Infine per quella frase:

Per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage

Quando a chiedere pubblicamente scusa è un rappresentate dello Stato credibile, come in questo caso, c’è da pensare che le scuse siano la manifestazione evidente di una volontà rinnovata ad andare fino in fondo, senza pagare un dazio ancora una volta troppo alto alla sostenibilità del sistema. Le parole di Melillo, mi hanno fatto pensare ad altre, analoghe, quelle pronunciate da Gabrielli sulla mattanza al G8 di Genova. Quando Gabrielli pronunciò quelle parole era capo della Polizia, oggi è il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega alla sicurezza della Repubblica, cioè è il capo del capo del DIS. Se son rose…

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Uber e taxi, i motivi per cui il servizio online sbaraglia la concorrenza

di Derek

Viaggiando da anni per lavoro, specialmente negli Stati Uniti, ho una certa dimestichezza con Uber. Iniziai ad usarlo durante una fiera a Las Vegas. Arrivato a notte fonda in aeroporto presi il taxi per l’hotel. Il solito tragitto tra terminal e Strip, una decina di chilometri, che già diverse volte avevo fatto. A destino l’autista mi chiese 38 dollari come mostrava il tassametro. Solitamente ne spendevo tra i 15 e 20; mi ero accorto che aveva allungato la strada, turista straniero, notte fonda: ci ha provato. Ero talmente stanco che non persi tempo a discutere inutilmente, pagai con la carta di credito (almeno quella la prendono sempre), entrai in stanza e complice il jet-lag scaricai l’applicazione e creai l’account. Da quella volta raramente quando è presente Uber uso i taxi.

Chi ha usato il servizio può facilmente capire la serie di motivi:

1) La cosa principale è che sai prima di prenotare la corsa quanto spenderai (potendo scegliere tra diversi servizi tra cui alcuni davvero super economici come le corse condivise). Questo assicura anche, tra l’altro, che l’autista faccia sempre la strada più breve;

2) Si paga con la carta di credito associata all’app, non c’è scambio di denaro, pretesa di mance (che puoi dare sempre tramite l’applicazione) o sorprese dell’ultimo;

3) Si prenota la “presa” con l’app nel punto in cui ci si trova;

4) Quasi sempre ho trovato auto più nuove e pulite;

5) Il sistema delle recensioni che incentiva l’autista a essere cordiale e veloce;

6) Report dei viaggi via mail, molto utile per esempio quando si viaggia per lavoro per la compilazione delle note spese. (Credo tra l’altro che sia disponibile l’integrazione con i servizi on line usati da molte aziende per le note spese).

Viaggiando molte volte da solo mi è capito di chiacchierare con agli autisti e indagare come la comparsa di Uber sia stata vissuta nel loro territorio, scoprendo che, come sempre, c’è stata la rivolta dei taxi; cosa che ovviamente non ha impedito l’introduzione del servizio (compresi i concorrenti come Lyft) e la convivenza. Mi è addirittura capitato di conoscere anche driver che lavoravano per le compagnie dei taxi e arrotondavano con Uber. Ovviamente non sarà tutto rose e fiori, ma mi sono sempre sembrati contenti di come venivano trattati e pagati.

Qualche soluzione per privilegiare i taxi in America è stata adottata. Per esempio la zona pick-up negli aeroporti non è la stessa dei taxi (che è immediatamente fuori dal terminal), spesso devi camminare un po’ per arrivarci, magari fino al parcheggio multipiano; stessa soluzione che ho visto anche in molti hotel e centri commerciali.

Si deve certamente lottare per i propri diritti, specialmente se si è pagata una licenza molti soldi, tuttavia la storia insegna che non ci si può opporre al progresso. La strada credo debba essere quella di cavalcarlo, rendendosi a propria volta concorrenziali in termini di servizio, professionalità e, se possibile, innovando a propria volta.

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Greta Beccaglia: quand’è che le donne possono ricevere solidarietà ed empatia da noi uomini?

di Jakub Stanislaw Golebiewski

Ieri pomeriggio ho assistito a una polemica tra Marco, un mio conoscente, e sua figlia adolescente sulla manata inflitta dal tifoso dell’Empoli alla giornalista Greta Beccaglia. Il padre le spiegava che quella “semplice” pacca sul sedere era certamente frutto di maleducazione, ma non era poi un fatto così grave perché “c’è di peggio”. Continuando con tono pacato le diceva che quell’uomo, comunque, avrebbe pagato amaramente la sconsideratezza del gesto col Daspo, non avrebbe potuto seguire la squadra del cuore per tre anni e avrebbe persino subito un processo rischiando dai 6 ai 12 anni di carcere. Per di più stava subendo una gogna e tutto questo per una semplicissima pacca sul sedere.

La figlia controbatteva: “Voi uomini dite così perché non sapete cosa significa avere le mani addosso“.

Mi è sembrato che Marco fosse abbastanza indifferente alle parole e alla rabbia della figlia. Se fossi stato al suo posto mi sarei preoccupato e avrei chiesto se per caso fosse capitato anche a lei di subire palpeggiamenti o altre forme di aggressione verbale per strada o a scuola.

Tra quel noi (le donne) e quel voi (gli uomini), nelle parole concitate di quella adolescente, stava tutta la distanza tra la condizione maschile e quella femminile. Tra chi camminando per strada può essere apostrofata, palpeggiata e molestata e chi può camminare tranquillo perché non sarà mai trattato come una preda sessuale. Il catcalling o molestie sessuali sono un fenomeno tutt’altro che banale, che condiziona la vita di milioni di donne nel mondo.

Un paio di anni fa, il gruppo americano “Hollaback!”, in collaborazione con la Cornell University, ha condotto una ricerca coinvolgendo 22 Paesi sull’impatto delle molestie sessuali sui comportamenti delle donne che le subiscono. È emerso che l’84% delle donne intervistate ha ricevuto molestie dalla strada prima dei 17 anni con conseguenze psicologiche negative. Le vittime hanno raccontato di provare sentimenti di rabbia e umiliazione. L’Italia è risultata essere tra i Paesi con la più alta percentuale di donne che hanno scelto di cambiare strada per tornare a casa dopo aver subito episodi di catcalling.

Non possiamo quindi minimizzare come ha fatto Marco che, come tanti altri, pensa: “Che cos’è poi una pacca sul sedere, uno strusciamento, qualche parola lasciva? Le violenze sono ben altre”.

Eppure, anche quando le violenze sono ben altre e si tratta di stupri e abusi che le donne denunciano, noi uomini non ci troviamo mai immersi in una corale e comune indignazione a sostegno alla vittima. Ci sono sempre dei “se” e dei “ma”, ci sono le giustificazioni per gli stupratori, ritenute attenuanti, e i giudizi sommari sulle donne che hanno subito lo stupro a significare (per loro) che è la stessa donna la causa dello stupro. O non si crede alle vittime, dubitando della loro parola, o le si denigra per essersi messe in quella situazione, per aver bevuto, per essere andate in giro di notte in minigonna e autoreggenti, per le loro scelte sessuali, per aver provocato. Ma allora quand’è che le donne possono dire no a una violenza, che sia una pacca sul sedere, un commento volgare o uno stupro, ricevendo solidarietà ed empatia da parte di tutti, e mi riferisco soprattutto a noi uomini?

In fondo l’ipocrisia del benaltrismo cela malamente il fastidio per un silenzio che è stato rotto. I tifosi che hanno innalzato lo striscione nello stadio la domenica successiva all’aggressione di Beccaglia – “Razzisti, sessisti mai giornalisti” – hanno addirittura sbandierato un orgoglio misogino e maschilista, come del resto ha fatto anche il giornalista Filippo Facci dopo essere stato bannato da Facebook per aver ironizzato sull’aggressione a Greta Beccaglia.

C’è chi si sarebbe sentito molto meglio se quest’ultima avesse sorriso e fatto finta di niente. Quando invece le donne rompono il silenzio e dismettono la maschera del sorriso perché un uomo pensa di poterle trattare come “pali della luce da prendere a calci”, in troppi reagiscono con stizza e rancore. Forse, e ne sono fermamente convinto, hanno qualche scheletro nell’armadio o temono prima o poi di averlo.

Cari maschietti alfa, svegliamoci da questo incantesimo cercando di essere civili, sempre e con chiunque.

L’articolo Greta Beccaglia: quand’è che le donne possono ricevere solidarietà ed empatia da noi uomini? proviene da Il Fatto Quotidiano.

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