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Corpus, il teatro che sopravvive al Covid si esibisce in piazze e carceri: “In un momento così difficile, teniamo alta l’immaginazione”

Mentre i luoghi della cultura sono deserti, gli eventi dal vivo sospesi e i lavoratori dello spettacolo fanno i conti con una produzione azzerata, c’è un teatro che continua ad esibirsi pur nel rispetto delle restrizioni dettate dal Covid-19. E porta in scena Corpus, progetto di ArteStudio, avviato il 20 novembre e in corso fino al 21 dicembre. Coinvolge circa dieci associazioni romane, si inserisce nel palinsesto culturale “Romarama 2020” promosso da Roma Capitale ed è realizzato in collaborazione con Siae. Non ha spettatori, ma un pubblico attivo e come palcoscenico usa strade, piazze, carceri, strutture sanitarie quali le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e altri spazi extrateatrali, incluse le piattaforme di streaming. Obiettivo: scoprire con quale corpo siamo al mondo oggi. “Nel nostro tempo, quello della protesi tecnologica del computer – spiega Riccardo Vannuccini, direttore artistico di ArteStudio e attore– ci siamo chiesti che fine fa il nostro corpo: dopotutto è lui che soffre i colpi della vita ed è lui che rimonta l’esistenza”. E’ stato ideato come il primo tassello di un progetto triennale per l’avviso pubblico ‘Contemporaneamente Roma 2020-21-22’, ma il momento storico che stiamo vivendo ha imposto una rimodulazione di tutti gli spettacoli e una riflessione sul ruolo profondo che la manifestazione può assumere ora che siamo costretti a stare distanti. “A volte si pensa alla nostra categoria come agli attori che declamano Molière, ma il teatro è più che altro uno strumento per comprendere gli accadimenti della vita e risolverli – racconta Riccardo Vannuccini – il teatro è chiamato a capire il mistero della vita e della morte. Quindi proveremo a riflettere anche sulla pandemia”.







Il progetto nasce dalla volontà di rappresentare il corpo dall’esterno: “Non è una rassegna – chiarisce l’associazione – è una pista fatta di luoghi, scene, documenti e figure che raccontano l’immagine del nostro corpo mentre ci doppia e ci osserva, occupando gli spazi urbani di Roma”. Le performance sono molte e diverse tra loro: donne in burqa nero che camminano avanti e indietro per Villa Borghese, attori che si esibiscono con guanti gialli igienizzati o respiratori ma anche tributi a Piero Manzoni, letture sceniche, laboratori sul Frankestein e workshop che mettono al centro il corpo. ArteStudio lavora con l’anatomia da molti anni e da sempre porta il teatro anche fuori dalle sale con le poltrone rosse. Opera in sei istituti penitenziari del Lazio, realizza attività artistiche anche nei centri di igiene mentale, nelle strutture sanitarie, nei centri di accoglienza per rifugiati e nelle zone di guerra. “Il teatro secondo noi non è una terapia, non è che se reciti tre volte Amleto da delinquente diventi una persona perbene né entriamo in strutture come il carcere per giudicare. Molte di queste persone, però, non hanno mai capito e visto altra possibilità se non quella di delinquere. Noi cerchiamo di mostrare loro che non hanno solo questo destino. Dopo di che ciascuno decide se seguitare a delinquere, nel caso del detenuto, oppure no”. Per i cittadini fragili, colpevoli di reato ma anche senza tetto o malati psichiatrici, attività come la loro permettono concretamente di scorgere un’alternativa a chi non ne vede nessuna. Tanto più in periodo Covid-19, quando nelle strutture detenitve è precluso quasi ogni altro ingresso dall’esterno per ragioni sanitarie. “Nella mia esperienza – racconta Vannuccini, che fa questo lavoro da trent’anni – ho visto persone scontare pene importanti, che avevano commesso reati gravi, ma ora hanno ricominciato, hanno costruito qualcosa fuori e insegnano inglese o yoga. Come c’è chi continua a delinquere: non ci assumiamo la responsabilità di salvare nessuno ma facciamo un percorso insieme, imbarcati tutti nella stessa barchetta”.

Alcuni lo chiamano “teatro del possibile”, altri “alla Deleuze”: nei fatti, in tempi di pandemia, è quasi uno strumento di sopravvivenza e di conservazione dei tratti fondamentali della specie umana. “L’uomo è l’unico essere vivente che si guarda vivere, disegna nelle grotte non per fare il ritratto al toro ma per dire con chi vive, ed è la sua immaginazione che lo mette al mondo. Quindi quello che vogliamo fare in un momento così difficile, oltre a sostenere il lavoro dei nostri attori, è tenere alta l’immaginazione, salvaguardare questo potere che è una caratteristica essenziale dell’essere umano: noi siamo al mondo attraverso l’immaginazione”.

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Coronavirus, in Marocco oltre 5600 amnistiati. Ma attivisti, blogger e rapper restano in carcere

Mentre crescono le preoccupazioni per la diffusione della pandemia da Covid-19 nei centri di detenzione del paese, Amnesty International ha sollecitato il governo del Marocco a rilasciare urgentemente e senza condizioni tutti i prigionieri che stanno scontando condanne per aver preso parte a manifestazioni pacifiche o aver espresso le loro opinioni: tra questi, gli esponenti del movimento Hirak el-Rif, rapper, blogger e giornalisti.

L’organizzazione per i diritti umani ha anche chiesto che i detenuti anziani e quelli che manifestano problemi di salute siano sottoposti a misure alternative e che viga la presunzione d’innocenza per quelli sospettati di aver commesso un reato e ancora in attesa di giudizio.

Negli ultimi sei mesi le autorità marocchine hanno mostrato una crescente intolleranza nei confronti di coloro che esprimono opinioni critiche: tra novembre 2019 e gennaio 2020, almeno 10 persone – tra cui un giornalista e due rapper – sono state arrestate per “offesa a pubblico ufficiale o alle istituzioni” e sette di loro stanno scontando condanne a pene detentive.

Per questi reati, oltre che per quello di “incitamento all’odio”, i blogger Moul El Hanout e Youssef Moujahid sono stati condannati a quattro anni dopo che avevano espresso le loro opinioni in una serie di video pubblicati online.

Abdelali Bahmad (alias Ghassan Bouda) è stato condannato a due anni, dimezzati in appello, per “offesa alla monarchia” dopo che aveva manifestato appoggio alle proteste di Hirak el-Rif sui suoi profili social.

Ci sono poi i 43 militanti di Hirak el-Rif, giudicati colpevoli di una serie di reati a seguito di processi irregolari segnati da denunce di tortura e le cui condanne sono state confermate in appello alla fine del 2018.

Il 22 febbraio due di loro, Nabil Ahamjik e Nasser Zefzafi, hanno intrapreso uno sciopero della fame per chiedere il rispetto del diritto di visita e migliori cure mediche. Lo hanno sospeso solo il 17 marzo, per il timore che le loro critiche condizioni di salute li esponessero al rischio di contrarre il coronavirus.

Secondo l’Associazione marocchina per i diritti umani, alla fine di marzo i prigionieri in carcere per aver espresso le loro opinioni erano 110.

Le prigioni del paese sono sovraffollate, anche a causa dell’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio, circa il 40 per cento del totale.

Lo scorso novembre il ministro per i Diritti umani e per i rapporti col Parlamento, Mustapha Ramid, aveva riferito che alla fine del 2018 la popolazione carceraria era di 83.747 persone, con un tasso di sovraffollamento del 138 per cento.

Il 5 aprile, per decongestionare le carceri come misura di contrasto al Covid-19, re Mohammed VI ha amnistiato 5654 detenuti. Tra loro però non vi è alcun prigioniero di opinione.

Nel frattempo, ai sensi dello stato d’emergenza, sono state arrestate almeno 450 persone per aver violato le norme sul confinamento e la quarantena. Rischiano da uno a tre anni.

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