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Non ho mai avuto problemi a trovare lavapiatti a 9 euro netti all’ora, in regola

Paga chi lavora e vedrai che li trovi. E se offri paghe da fame ti devi vergognare! Per molti imprenditori la moda del momento è lamentarsi perché non trovano lavapiatti, camerieri, manovali, raccoglitori di frutta. E la colpa la danno al Reddito di cittadinanza, che con i 780 euro al mese che offre toglierebbe del tutto la voglia di lavorare ai fannulloni che se ne stanno stesi sul divano, magari anche frugolando con altri fannulloni e fannullone, dal mattino alla sera. Poi di notte vanno in discoteca a ubriacarsi grazie a questo Reddito di cittadinanza da nababbi.

Non gli viene in mente che se pagassero decentemente le persone che lavorano per loro i dipendenti li troverebbero?

Io gestisco la Libera Università di Alcatraz da 40 anni e di problemi non ne ho mai visti. Certo ne hanno avuti certi imprenditori della zona perché, visto che io rispetto abbondantemente i minimi sindacali, poi magari diventa più difficile pagare le persone 3/5 euro l’ora, in nero. Quando nel 1981 iniziai a riparare i ruderi di Alcatraz alcuni muratori, grandissimi artigiani, mi chiesero 10mila lire al giorno e gli arnesi li portavano loro da casa. Erano le paghe correnti in Umbria, 40 anni fa. Io dissi che mia madre mi avrebbe scuoiato con il cric (che fa più male) se avessi pagato una cifra simile. E fissai la paga a 30mila lire. Mi presero per scemo per chilometri. Poi però alcuni si rifiutavano di lavorare per 10mila lire al giorno. E io mi guadagnai l’odio imperituro dei latifondisti della zona. Che me la fecero pagare cara in tutti i modi a loro disposizione. Che si fottano.

Molti mi rispondono che gli imprenditori non possono pagare 9 euro netti l’ora per via delle tasse che sono spaventose. È vero, da noi le tasse sono ingiuste ed eccessive. Perché ci sono 100 miliardi minimo di evasione fiscale all’anno. Perché la burocrazia è per le piccole imprese una tassa aggiuntiva e sadica che costa il 10% del fatturato. Perché gli sprechi idioti e quelli della corruzione rubano allo Stato miliardi e miliardi… Ma non potete scaricare il problema affamando i lavoratori.

Iniziate un po’ a protestare veramente, smettete di sostenere chi pratica la politica corrotta… 9 euro l’ora (comprendendo in questa cifra tredicesima, quattordicesima, ferie e trattamento di fine lavoro) non sono una cifra che può far crollare un’azienda. Certo con il fatto che poi devi anche pagare i contributi aumentano i costi; questi si aggirano intorno al 35% della paga netta che il lavoratore percepisce e comprendono tasse, pensione che andrà al lavoratore e contributi per la sanità, aggiungi il commercialista e le spese della contabilità e superiamo i 110 euro per 8 ore. E faccio notare che quando molti dicono che un dipendente in regola costa il doppio per via dei contributi, dimostrano che non sanno fare i conti.

Ma quel che pochi imprenditori hanno capito è che il costo orario del lavoratore è solo la metà del problema: l’altra metà è la qualità del lavoro. La differenza di rendimento tra chi lavora male, chi lavora bene e chi lavora molto bene è enorme. Un dipendente di qualità, che lavora con intelligenza e passione, produce molto più del doppio di un lavoratore che non si impegna e non ha passione. Certo questo non vale per mansioni elementari che anche una macchina poterebbe realizzare. Ma se parliamo di muratori, camerieri, cuochi, lavapiatti (e rompipiatti), receptionist e simili, la qualità è essenziale per il successo dell’impresa. Ed è chiaro che le persone pagate il giusto e trattate con rispetto e gratitudine sono quelle nelle migliori condizioni di eccellere e di determinare con le loro capacità il successo di un’impresa.

Una persona pagata il giusto, quando appoggia un piatto di lasagne sul tavolo dell’ospite lo fa producendo un impatto decisamente diverso da quello prodotto da un cameriere che riceve una miseria e lavora 12 ore di seguito. E poi il cameriere pagato il giusto quando sorride lo fa in modo diverso e questo aumenta la gradevolezza del cibo che l’ospite porta alla bocca, ed è più appagante del semplice impiattamento dei cuochi alla moda. Ma vallo a spiegare a certi ristoratori incattiviti dal pessimo olio che servono in tavola e che usano anche per condire l’insalata che mangiano loro. La grettezza d’animo e di palato corrompe e corrode.

In 40 anni la differenza che fa la qualità del lavoro l’ho vista continuamente. In special modo nei momenti di emergenza che nei decenni è ovvio che ti capitino. Vogliamo aggiungere che pagare il giusto le persone ti permette di instaurare migliori rapporti umani? Avere rapporti buoni con le persone che lavorano per te lo giudico un lusso più rilevante che avere la Ferrari.

P.s. Con questo non voglio negare che ci sia il problema della formazione dei lavoratori. C’è un gran numero di persone che non sono proprio capaci di lavorare. Esiste anche una massa di gente che non ha passione per niente e non vuole impegnarsi. La mancanza di passione per il lavoro è figlia di una scuola che impone lo studio con la paura invece di risvegliare passione e desiderio. Ed esistono molte famiglie che non trasmettono il gusto di fare le cose, di saper modificare la realtà e la vita. Ma questo, che è il padre di tutti i problemi sociali, non lo affronti affamando chi lavora per te.

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Recovery plan, che cosa c’è per il lavoro. “Sulle politiche attive pochi dettagli, si rischia di non riuscire a spendere i soldi”. E per donne e giovani risorse insufficienti

“Prevedere più fondi per la formazione e le politiche attive, di per sé, serve a poco. Finora i soldi, anche europei, destinati alla formazione sono stati spesi poco e male e le politiche attive sono decenti in alcune Regioni e inesistenti in altre. Il Piano non spiega come si intende cambiare le cose”. Andrea Garnero, economista alla direzione per l‘Occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse, ha più di un dubbio sul capitolo del Recovery plan dedicato alle misure – oggi del tutto inefficienti – per riqualificare e reinserire chi rimane senza un posto. Fronte caldissimo in un Paese che nell’anno del Covid ha perso 900mila occupati, concentrati tra dipendenti a termine e autonomi. “Tutto dipende dall’effettiva attuazione, ma per le riforme sono indicati solo obiettivi generali, senza dettagli su come si intende cambiare le cose. C’è il rischio serio di non riuscire a spendere i soldi, come successo negli ultimi decenni, o di riuscirci solo nei territori dove già oggi le cose funzionano”. Non va molto meglio sul fronte delle politiche per la parità di genere e tra generazioni, che sulla carta sono “priorità trasversali” e dunque non hanno capitoli dedicati. Luciano Monti, docente di Politiche Ue alla Luiss Guido Carli, su lavoce.info ha calcolato che le risorse ad hoc per i giovani si fermano al 7,2% del totale contro il 12% del Pnrr spagnolo. E non c’è nulla per stimolare l’imprenditorialità. Mentre Alessandra Casarico, docente di Scienza delle Finanze all’università Bocconi e studiosa dei divari di genere, spiega che per gli asili nido – il principale intervento in favore dell’occupazione femminile – c’è “meno di quanto strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo europeo di offrire un posto almeno al 33% dei bambini”.

Il nodo delle politiche attive – Il lavoro ricade nella Missione 5 del Pnrr, “Inclusione e coesione”. Lì ci sono 4,4 miliardi per politiche attive del lavoro e formazione, 600 milioni per potenziare i centri per l’impiego, 400 per la “creazione di impresa femminile” e altri 600 per rafforzare il sistema duale scuola-lavoro. Sei miliardi complessivi a cui ne vanno aggiunti altri 6 a valere sul fondo React Eu con cui saranno finanziati la decontribuzione al Sud (4 miliardi), il fondo nuove competenze (1,5 miliardi aggiuntivi per pagare ai dipendenti le ore dedicate alla formazione) e i bonus per chi assume donne o giovani (500 milioni). Ma la descrizione delle riforme previste è assai vaga: sulle politiche attive, per esempio, il governo si limita a promettere l’adozione, d’intesa con le regioni, di un Programma nazionale per la garanzia occupabilità dei lavoratori che “intende imparare dall’esperienza di questi anni, cercando di superare l’eccessiva eterogeneità dei servizi erogati a livello territoriale”. Nulla si dice sul come si intende farlo. “Non abbiamo ancora in mano le schede progetto con i dettagli degli interventi previsti”, premette Garnero, che è tra gli autori dell’Employment Outlook dell’Ocse. “E forse la risposta ai dubbi è lì. Certo è che leggendo il testo di presentazione non si capisce come sarà gestito il coordinamento tra Stato e Regioni sulle politiche attive, posto che non è prevista una riforma del titolo V“. Infatti, dopo il fallimento del referendum costituzionale di Renzi che puntava ad attribuire tutte le competenze all’Anpal, i centri per l’impiego sono rimasti in capo ai governatori, con cui il governo deve negoziare ogni mossa a partire dalle oltre 11mila assunzioni previste di qui a fine anno.

Il piano, non a caso, rinvia agli enti locali le decisioni sulla formazione degli operatori e sulle altre priorità di intervento. “L’unica possibilità che vedo”, commenta l’esperto, “è stabilire livelli minimi nazionali da garantire ovunque, con sanzioni – cioè lo stop ai fondi supplementari – per chi non li garantisce. Arrivare al commissariamento da parte dello Stato? E’ un’opzione possibile, ma se poi il commissario è l’Anpal con tutti i suoi problemi interni…”. L’Anpal, che stando a indiscrezioni il ministro Andrea Orlando intende depotenziare, è citata solo una volta nel paragrafo sul nuovo “Piano nazionale nuove competenze” deputato a formare e riqualificare “lavoratori in transizione e disoccupati” oltre a beneficiari del reddito di cittadinanza. Nessun riferimento alla tanto attesa app per l’incrocio di domanda e offerta, mai realizzata. “Del resto ne esistono tante di aziende private e non risolvono il problema delle politiche attive, che richiedono ascolto e capacità di disegnare interventi su misura in base alle necessità della singola persona”

La sparizione del salario minimo – Quanto alla sparizione del riferimento al salario minimo, secondo Garnero si tratta di una vittoria negoziale dei sindacati – contrari alla misura – ma di peso limitato. Perché la formulazione che compariva nelle bozze (in cui veniva previsto per i “lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale“) era “un compromesso che dal punto di vista giuridico non vuol dire niente: in Italia formalmente tutti i dipendenti sono coperti da un contratto nazionale”. Quindi? “Serve sicuramente una soluzione per il lavoro sottopagato, e non deve essere in opposizione alla contrattazione collettiva. Ma è illusorio pensare che fissare una soglia legata al minimo previsto dai contratti firmati dalle organizzazioni più rappresentative e uguale da Milano a Lampedusa risolva il problema. Il punto di partenza devono essere contratti nazionali più flessibili, che permettono deroghe tramite accordi territoriali e aziendali. Le parti sociali devono trovare la quadra”.

Per l’occupazione femminile 4,6 miliardi su nidi e asili – Le lavoratrici sono state le più colpite dal calo dei posti causato dal Covid. Ma già prima della pandemia il tasso di occupazione delle donne italiane era più basso di oltre 10 punti rispetto alla media Ue: nel dicembre 2019 aveva superato per la prima volta il 50%. Recuperare questo “ritardo storico” è una delle priorità trasversali del Piano, “cosa che ha senso perché sono tanti gli ambiti su cui intervenire per ridurre il divario”, spiega Casarico. “D’altro canto, però, così diventa più complicato capire in quali capitoli ci sono risorse dedicate”. Al netto dei 600 milioni aggiuntivi per stimolare la creazione di imprese femminili, lo stanziamento di gran lunga più consistente è quello per asili nido e scuole materne: 4,6 miliardi, come nel Pnrr del governo Conte, ma i nuovi posti previsti nei nidi scendono a 228mila contro i 622.500 del “vecchio” piano. “Le risorse sono probabilmente sottodimensionate”, commenta la docente. “Ma almeno questa volta il meccanismo di controllo europeo dovrebbe far sì che siano spese davvero per quella voce e non disperse come è avvenuto in passato”. Gli altri interventi previsti? “C’è un piano per lo sviluppo delle competenze Stem, cioè nelle discipline scientifiche e tecnologiche, da parte delle studentesse, perché in quei campi le donne sono sottorappresentate. E si annuncia un sistema nazionale di certificazione della parità di genere nelle aziende, che però sarà volontario. In generale, poi, investire sull’assistenza e la cura dovrebbe fare da volano per l’occupazione femminile, sia liberando il tempo delle donne sia creando domanda di lavoro in quel settore”. In extremis, poi, al piano è stata aggiunta una clausola di condizionalità in base alla quale le imprese che realizzeranno i progetti del Piano dovranno assumere determinate quote di donne e di giovani. Il tutto, di qui al 2026, dovrebbe aumentare l’occupazione femminile di 2,9 punti rispetto a uno scenario senza Recovery. Troppo poco, comunque, per colmare il gap di genere. Idem per il divario “generazionale”: per i giovani la quota di occupati è data in salita del 3,3%. Ma la differenza con la media Ue oggi è di quasi 15 punti.

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L’odissea di chi cerca lavoro nella Milano del Covid. Tra domande umilianti, contratti di 15 giorni e salari sotto la soglia di povertà

Colloqui di lavoro con domande come “Lei è fidanzata?”. Contratti che i tribunali hanno già dichiarato incostituzionali. Stipendi da 800 euro per 54 ore di lavoro a settimana ma “senza pausa pranzo, non c’è il tempo”. Scene dalla Milano del Covid, dove tanti hanno perso il posto nonostante il blocco dei licenziamenti semplicemente perché erano precari e i loro contratti sono andati in scadenza: 110mila i posti persi in Lombardia solo nei primi 6 mesi del 2020, secondo la Cisl. Il crollo dell’occupazione (-2,4% in regione, mai così male dal 2009) dipende da terziario e servizi, settori nei quali tra 2015 e 2019 si sono concretizzati il 73% degli avviamenti al lavoro. Che in tre casi su quattro sono avvenuti con contratti “flessibili“: a tempo determinato (51,5%), in somministrazione con agenzie interinali (15,2%), con contratti a progetto (3,2%) o in apprendistato (3,3%). Più semplici da interrompere, per le aziende. E quando il lavoratore lasciato a casa si rimbocca le maniche per trovare una nuova chance si vede offrire compensi inferiori alla soglia Istat di povertà assoluta per quest’area del Paese.

L’incarico sparito e il Ccnl incostituzionale – L’ultimo colloquio di Valentina, 28enne siciliana laureata in comunicazione e marketing, senza lavoro da marzo quando ha perso il suo stage a 650 euro mensili, sembra uscire da un film dell’assurdo. “Appena riesci mandaci i tuoi documenti così da mandarti il contratto”, le scrive un’agenzia interinale di Milano convocandola per il giorno successivo nella sede di una multinazionale. “Vestita di nero maglioncino/camicia, pantalone elegante nero, scarpa nera (non da ginnastica)” è l’outfit consigliato. “Capelli in ordine, trucco sobrio”. Nemmeno due ore dopo la retromarcia: “Il cliente ci ha revocato l’incarico”. Per “rimediare” le viene proposta una collaborazione occasionale: la svendita di un noto marchio di moda in via Savona. Contratto intermittente di 15 giorni. Significa che in astratto potrebbe lavorarne anche soltanto due. Settore di lavoro e Ccnl? “Servizi ausiliari fiduciari”. È lo stesso della security e dei servizi di sicurezza. Con mansioni che vanno dall’accoglienza alla movimentazione delle merci in magazzino. “Uno dei peggiori dal punto di vista retributivo”, dice al fattoquotidiano.it l’avvocato Lorenzo Venini, giuslavorista dello studio legale Diritti e Lavoro di Milano che segue in cause e vertenze numerosi sindacati e lavoratori di Lombardia ed Emilia-Romagna. “Il Tribunale di Torino“, nella causa intentata da un addetto, “lo ha dichiarato incostituzionale perché prevedeva delle retribuzioni troppo basse”. Ledendo l’articolo 36 della Costituzione in base al quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Il mancato rinnovo comunicato 24 ore prima. E le offerte tutte inferiori alla Naspi – Da quando è iniziata la pandemia Valentina non ha visto un euro, nessun bonus o ammortizzatore sociale. Niente cassa integrazione o Fis perché non è mai stata una dipendente. Niente bonus partita iva perché non è una libera professionista. Niente disoccupazione (Naspi) perché mai assunta per davvero se non a colpi di stage. È andata meglio a Chiara, commessa del centro di Milano. Lavora(va) per conto di ottod’Ame, marchio toscano di moda con target medio-alto. Tutto incentrato, a livello di marketing, sull’empowerment femminile. A cominciare dalle testimonial che il brand si sceglie, in televisione quanto su Instagram, e dal nome della chat di lavoro fra colleghe e manager: “Girl’s power”. Chiara e alcune sue colleghe sotto lockdown sono state avvisate con 24 ore di preavviso che il loro contratto (da trasformarsi obbligatoriamente in tempo indeterminato per effetto del decreto Dignità) non sarebbe stato rinnovato. Da quel momento prende la Naspi: 871 euro per i primi mesi e poi a scendere. Cerca lavoro a Milano. In una dozzina di colloqui realizzati da maggio a ottobre nel settore retail nessuna offerta ha superato per importo la disoccupazione.

800 euro al mese per 54 ore a settimana – Per chi si è ritrovato a casa, il lavoro quotidiano diventa quello di trovarne un altro. Giornate passate al pc a inviare curricula e leggere le recensioni delle aziende su Indeed; al telefono per i pre-screening; a colloquio con addetti delle risorse umane o con i nuovi software che automatizzano e sostituiscono l’HR nell’attività di selezione. Uno spaccato del mondo del lavoro fatto di misere retribuzioni e domande umilianti. Uno showroom di moda a Milano offre 800 euro al mese per 54 ore settimanali (9 al giorno, 6 giorni su 7) senza pausa pranzo “perché spesso non c’è il tempo”. Per le donne è normale sentirsi chiedere in fase di selezione se sono fidanzate, o di mettere “in ordine di gerarchia le voci realizzazione personale e professionale, affetti e famiglia”.

In alcuni franchising del gruppo Gabetti – settore immobiliare e real estate a cui fanno capo Gabetti, Grimaldi e Professionecasa – propongono un rimborso spese da 450 euro mensili per un full time. Pagamenti in ritenuta d’acconto e apertura della partita Iva superati i 5mila euro all’anno. Contattato dal fatto.it Gabetti fa sapere in una lunga mail che “per coloro che svolgono attività commerciali, la formula offerta normalmente è di lavoro autonomo” e precisa che “ogni filiale è un’azienda a parte, con un proprio imprenditore, con potere di scelta sulle politiche retributive”, anche se il gruppo “conta sempre nel buon senso comune per quel che concerne l’organizzazione del lavoro e le dinamiche retributive all’interno delle agenzie”.

Per le “giovani leve della comunicazione” 600 euro – Chi entra ora nel mondo del lavoro parte spesso da uno stage. Da Barabino&Partners, una delle principali agenzie di comunicazione d’Italia, con clienti di peso nel panorama industriale, finanziario e immobiliare, per chi è alla prima esperienza professionale si sono inventati il progetto “La Cantera”. Come il nome che si dà al vivaio del Barcelona Futbol Club. È dedicato ai giovani talenti e “favorisce la nascita e gli sbocchi professionali di giovani leve intenzionate a intraprendere il “mestiere” della comunicazione”, si legge sul sito della società. Per i futuri comunicatori è pronto sulla scrivania anche il biglietto da visita da sfoggiare. La retribuzione però non è quella di Lionel Messi. Ma 600 euro al mese in stage. Il fondatore dell’agenzia, Luca Barabino, difende il progetto nel merito e nei numeri: “In 10 anni ha introdotto nel mondo del lavoro professionale e “vero” oltre 80 ragazzi – dichiara al fatto.it – Riceviamo circa 1.200 candidature l’anno, anche internazionali, con continue richieste di partnership da università e scuole di formazione superiori o master”, dice aggiungendo che secondo statistiche interne chi ha fatto quello stage in seguito trova lavoro in una media di 24 giorni. E i 600 euro non sono “salario o retribuzione alla prima esperienza, questo è un progetto formativo di sei mesi per ragazzi neolaureati che vengono affidati a un tutor dove è molto più il prendere che il dare, da non confondere con i tirocini in altri ambiti”.

Anche nel ristorante stellato per i camerieri c’è il “fuori busta” – C’è infine chi il lavoro non lo ha perso, per ora. Come Stefano, cameriere di un ristorante stellato con menù degustazione da 120 euro a persona. Sono coloro che adesso vanno “ristorati” come da nuova formula della politica nazionale. Guadagna(va) mille euro al mese di stipendio prima del Covid. Compreso il “fuori busta”, il nero, che alimenta il settore del food e non solo: secondo gli ultimi dati Istat nel 2018 sono state 3,6 milioni le unità di lavoro irregolari. La cassa integrazione però non si calcola sul “nero”. Per mesi Stefano ha dovuto vivere con cifre intorno ai 500 euro. E oggi che Milano è prima ripartita per poi – forse – fermarsi di nuovo con il nuovo Dpcm, a parità di stipendio ha dovuto accettare un aumento delle mansioni, sia in sala da pranzo che fuori.

I driver di Enjoy e il contratto cambiato in corsa – Oppure i driver di Enjoy. Una trentina su Milano. Movimentano la flotta di Fiat 500 o Fiat Doblò rosse fiammanti del car sharing di Eni. Durante il regime di cassa integrazione parziale hanno denunciato l’aumento degli obiettivi giornalieri (13 auto a testa) già di per sé in crescita, perché ora le macchine vanno disinfettate da cima a fondo. Non sono lamentele fini a se stesse quelli dei driver. Molti di loro ringraziano di non aver perso il lavoro. Ai sacrifici però ci sono abituati. È passato più di un anno da quando formalmente il loro datore di lavoro è cambiato. Erano assunti a tempo indeterminato da Adecco con contratti di somministrazione per prestare servizio presso Leasys, società nata come joint venture fra Fiat ed Enel e oggi spa del gruppo Fca specializzata nel leasing, noleggio a lungo termine e gestione della flotta per conto di clienti. Tra cui proprio Enjoy. Nel 2019 ai lavoratori viene chiesto (“ imposto” dicono loro) di dare le dimissioni da Adecco. Per essere ri-assunti da Professional Solutions. Che è sempre una società del gruppo Adecco Italia: il ramo d’azienda specializzato nei servizi di outsourcing. Un giochino che ai dipendenti è valso il riconoscimento della quattordicesima ma gli è costato 100 euro di stipendio mensile in busta paga, oltre al premio di produzione Fca (1.350 euro nel 2019) che prima gli veniva corrisposto e oggi non più. Sentito dal fatto.it, il gruppo Adecco fa sapere che gli obiettivi giornalieri per i driver cambiano perché dipendono dal momento e dalla fase di lavoro. Quanto alla retribuzione, spiega che quando nel 2019 c’è stato il cambio di appalto per la manodopera è stato modificato anche il contratto collettivo nazionale di riferimento. È per questo motivo che i lavoratori si sono visti diminuire l’importo in busta paga di circa 100 euro mensili.

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Coronavirus, partono i tagli nel turismo e nell’accoglienza. Precari e partite Iva iniziano a pagare il conto

Primi effetti Coronavirus sul mercato del lavoro. Mentre Covid-19 avanza in tutta Europa, emergono i sintomi del malessere economico che colpisce soprattutto il settore del turismo e dei servizi. Così con le restrizioni su cinema e teatri e le cancellazioni delle prenotazioni in hotel arrivano anche i primi licenziamenti. Tutta colpa dell’epidemia? Non solo. Secondo i sindacati non si deve trascurare il rischio che l’emergenza sanitaria venga cavalcata da alcuni datori di lavoro già in difficoltà con l’obiettivo di tagliare facilmente i dipendenti di troppo.

A lanciare l’allarme è la Camera del Lavoro di Milano che si è schierata dal lato di un lavoratore licenziato da un gruppo che gestisce appartamenti di lusso. Il dipendente è stato mandato a casa “causa impatto da Coronavirus”. “C’è grande preoccupazione per le ricadute dell’emergenza – ha spiegato il segretario generale della Camera del Lavoro di Milano, Massimo Bonini -. Ma c’è attenzione anche su chi potrebbe approfittare di questa situazione già drammatica“. Bonini ha poi ricordato che solo nell’hinterland di Milano sono circa 300mila i lavoratori del turismo e dell’enterteinment (almeno altri 200mila fra indotto dello spettacolo e dell’ospitalità) che stanno soffrendo per l’emergenza sanitaria.

I primi a subire l’effetto Coronavirus saranno inevitabilmente i lavoratori più “flessibili” e cioè le partite Iva, i contratti a chiamata, a tempo determinato e di somministrazione. E il peggio è che gli stagionali non beneficiano di ammortizzatori sociali. In generale, trattandosi di formule lavorative “flessibili”, i datori di lavoro possono infatti facilmente mettere in campo ridimensionamenti finalizzati a far quadrare i conti. Non a caso il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha chiesto l’ampliamento della cassa integrazione ordinaria e straordinaria a tutti i lavoratori. Se l’intervento sul lavoro flessibile non dovesse essere sufficiente alle imprese si passerà poi anche a part-time e contratti a tempo indeterminato, che sono maggiormente tutelati.

La situazione è decisamente delicata: il turismo è un settore strategico per il Paese e vale circa il 13 per cento del prodotto interno lordo (incluso l’indotto) impiegando circa 4,2 milioni di posti di lavoro. Federturismo stima una perdita del giro d’affari da 7,5 miliardi di euro solo nel prossimo trimestre. Ma avverte che il dato è in evoluzione come le denunce di sforbiciate ai lavoratori che si stanno allargando in tutta Italia. Per il presidente di Federalberghi, Bernabò Boccia ha chiesto “alle istituzioni, a tutti i livelli, quindi non solo allo Stato, ma anche alle Regioni e ai comuni, di adottare con urgenza ogni misura utile a garantire liquidità alle aziende e salvaguardare i posti di lavoro, per evitare il tracollo di un settore strategico, in cui operano oltre 300.000 imprese, che offrono lavoro a 1,5 milioni di persone”.

Intanto le imprese stanno già avviando i tagli sui lavoratori. Oltre a Milano, a Pisa l’imprenditore Antonio Veronese ha annunciato che licenzierà 21 dei suoi 25 dipendenti. “In città non ci sono più turisti e questo si ripercuote sulle attività commerciali – ha spiegato -. È dura per me licenziare così tante persone, sapendo che tra di loro c’è chi ha mutui da pagare o famiglie da mantenere. Eppure è una realtà comune a molte aziende”.

In Veneto gli albergatori temono salti l’intera stagione, come rileva la Fisascat Cisl. Con tutte le conseguenze del caso sul mondo del lavoro. In Sicilia si registra il caso dimensionalmente più grave: la procedura di licenziamento collettivo per 898 persone messa in atto dalla Eurostal Hotel. Per il segretario generale Fisascat Cisl Sicilia, Mimma Calabrò, non sarà un caso isolato. Per questo, secondo la sindacalista, il governo deve valutare il da farsi nel settore turistico non solo nella zona rossa, ma in tutta Italia.

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Istat, a dicembre disoccupazione stabile al 9,8%. Calano gli indeterminati: -75mila. E i precari toccano un nuovo record

Tornano a calare gli occupati che a dicembre segnano una diminuzione di 75mila unità, dopo due mesi di crescita. Si tratta, secondo i dati dell’Istat, della contrazione più forte in termini assoluti da febbraio del 2016. A scendere, con un’inversione di rotta, è il numero di lavoratori dipendenti permanenti (-75mila), vale a dire coloro che hanno il posto fisso. Calano anche gli indipendenti (-16mila), con il totale che tocca il minimo storico dal 1977 di 5 milioni e 255mila mentre gli occupati aumentano tra i dipendenti a termine (+17mila). I precari arrivano a toccare quota 3 milioni 123mila. Si tratta di un nuovo massimo storico.

Complessivamente, a dicembre 2019 il tasso di occupazione scende al 59,2% (-0,1 punti percentuali). Il tasso di disoccupazione risulta tuttavia stabile al 9,8% per effetto del lieve aumento degli inattivi e rimane invariato anche il tasso di disoccupazione giovanile (28,9%). Una lieve crescita delle persone in cerca di lavoro si registra tra gli uomini (+2,2%, pari a +28mila unità) e tra gli under 50, a fronte di una diminuzione tra le donne (-2,2%, pari a -27mila unità) e gli ultracinquantenni. La crescita degli inattivi riguarda sia gli uomini sia le donne e tutte le fasce d’età a esclusione dei giovanissimi tra i 15 e i 24 anni. Il tasso di inattività sale al 34,2% (+0,1 punti percentuali).

Per quanto riguarda il quarto trimestre 2019, l’occupazione risulta in lieve crescita (+0,1%, pari a +13mila unità) tra le donne (+19mila) e i dipendenti (+43 mila); segnali positivi si osservano anche per i 25-34enni (+12mila) e gli over 50 (+48mila). In calo dello 0,6% gli indipendenti (-30mila). Nello stesso trimestre diminuiscono lievemente sia le persone in cerca di occupazione sia gli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-32mila unità).

Rispetto a dicembre 2018 la crescita dell’occupazione (+0,6%, pari a +136 mila unità), coinvolge donne, uomini e tutte le classi d’età ad eccezione dei 35-49enni per i quali la diminuzione è imputabile al decrescente peso demografico. Aumentano anche i lavoratori dipendenti (+207mila unità), soprattutto permanenti (+162mila), mentre gli occupati indipendenti diminuiscono di 71mila unità. Nell’arco dei dodici mesi, l’aumento degli occupati si accompagna a un calo dei disoccupati (-5,3%, pari a -143mila unità) e degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,9%, pari a -115mila).

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