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Pulire gli uffici postali a 55 anni: “Mille km in auto al mese per 143 euro, la benzina mi costa più dello stipendio”. La denuncia al sindacato

Ha un contratto di cinque ore settimanali con l’azienda che si è aggiudicata il servizio di pulizie delle Poste del Lodigiano. In quelle cinque ore la signora Lina (il nome è di fantasia), 55 anni, ha il compito di pulire 17 diversi uffici postali in 15 diversi Comuni, che deve raggiungere con la propria auto. La sua paga oraria è di 7,18 euro lordi all’ora. Lo stipendio a fine mese? 143,76 euro. In teoria ha diritto al rimborso del carburante: ma i 500 euro che ha speso ad agosto, settembre e ottobre li ha rivisti solo con la busta paga di novembre, liquidata il 5 dicembre, a quattro mesi dalle prime uscite. Esausta di girare come una trottola per pochi spiccioli, e non trovando altre occupazioni, il 25 gennaio la donna si è rivolta alla Filcams Cgil di Lodi perché, semplicemente, non riusciva più a lavorare: “Questo mese ho avuto altre spese e non ho più i soldi per la benzina”, ha detto.

A seguire la sua pratica è il sindacalista Daniele Gariboldi. Parlando al fattoquotidiano.it, mostra uno dei fogli di presenza che Lina gli ha consegnato: “Il giorno 4 novembre la signora, che parte dalla sua abitazione di Graffignana, si reca con l’auto a Brembio dove inizia a lavorare alle 8:45 e stacca alle 9:10. Poi va a Secugnago: qui inizia alle 9:30 e pulisce l’ufficio fino alle 10. Poi a Cavenago, dove inizia alle 10:25 per staccare alle 11 e recarsi a Boffalora, dove arriva alle 11:38; alle 12:25 è a Crespiatica dove rimane fino alle 12:35, quindi torna indietro a va a Salerano dove lavora dalle 13 alle 13:45. Si può calcolare una media di venti minuti, mezz’ora per ufficio postale”. Secondo Google maps, in questa giornata Lina passa in auto per lavorare circa un’ora e 43 minuti. “Tra l’altro”, sottolinea Gariboldi, “le pulizie vengono fatte a ufficio ancora aperto: in ognuno la signora deve firmare un foglio con l’orario di arrivo, spuntare le voci delle prestazioni eseguite e segnare l’ora in cui va via”.

“In un mese”, riassume il sindacalista, “la signora, per venti ore di lavoro, percorre tra i 900 e i 1000 chilometri, spendendo più in benzina di quanto percepisca di stipendio. Sicuramente il suo caso fa clamore, ma a quanto ci risulta non è isolato: la stessa tipologia di contratto viene spesso applicata per chi fa le pulizie negli uffici delle banche. Per accettare queste condizioni una persona deve essere davvero disperata”, chiosa. La Filcams Cgil si è ora attivata presso il datore di lavoro, la Miorelli Service spa, una multiservizi di Trento che conta seimila dipendenti in tutta Italia. Il sindacato ha chiesto di avere una copia del contratto (mai rilasciato alla signora), che i rimborsi chilometrici vengano pagati nel mese a cui le prestazioni si riferiscono e, soprattutto, che venga ridotto il numero degli uffici postali da pulire. L’azienda non ha ancora risposto.

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Il cuoco Vissani: “Reddito di cittadinanza vergognoso, non si trova più personale”. I dati dicono esattamente l’opposto

Da maitre a maitre à penser il passo è (fin troppo) breve. E così si susseguono prese di posizione di chef più o meno stellati in tema di politiche economiche. L’ultimo ad intervenire è stato il ristoratore Gianfranco Vissani che, nel corso di una manifestazione culinaria a Ferrara, si è scagliato contro il reddito di cittadinanza. “Una vergogna totale – ha detto Vissani – Non si trova più personale in giro, educhiamo i nostri ragazzi al lavoro, al sacrificio, devono sporcarsi le mani. Ai giovani che si avvicinano a questo lavoro auguro tanta fortuna, ma ci vuole impegno, dedizione. Non si conoscono orari né feste”. Vissani, condannato in Cassazione nel 2019 per reati fiscali, fa quindi proprio il più trito e ritrito dei luoghi comuni. Anche un po’ avariato come ha evidenziato Ilfattoquotidiano.it nel corso di innumerevoli approfondimenti. I lavoratori non si trovano perché spesso le retribuzioni offerte sono scandalosamente basse e le tutele vengono ignorate.

Inoltre, come dimostrano puntualmente i dati dell’Inps sui lavoratori stagionali, non c’è stato nessun “effetto divano”. Anzi il numero di contratti stagionali è cresciuto sia rispetto al periodo pre-covid sia rispetto a prima che venisse introdotto il reddito di cittadinanza. Una delle funzioni del reddito di cittadinanza (così come dei salari minimi) è propria quello di fissare un argine alla compressione del costo del lavoro. In questo modo le imprese sono costrette a migliorare la qualità dei loro prodotti.

Una decina di giorni fa era stato il collega Alessandro Borghese a sfogarsi dalle colonne del Corriere della Sera anche lui in crisi per la difficoltà nel reperire personale. A differenza di Vissani però Borghese non ha però incolpato i giovani ma si è limitato a prendere atto che “Mentre la mia generazione è cresciuta lavorando a ritmi pazzeschi oggi è cambiata la mentalità: chi si affaccia a questa professione vuole garanzie. Stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita. In cambio del sacrificio di tempo, i giovani chiedono certezze e gratificazioni. In effetti prima questo mestiere era sottopagato: oggi i ragazzi non lo accettano”.

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Whirlpool, partono le lettere di licenziamento. Ieri l’allarme dei sindacati: “Il governo non ha alcun progetto concreto”

Il gruppo Whirlpool ha iniziato l’invio delle lettere di licenziamento per i 340 dipendenti dello stabilimento di Napoli. I licenziamenti erano stati rimandati di alcune giorni ma ora la vicenda, da tempo oggetto di serrate trattative tra sindacati, governo e multinazionale statunitense, sembra essere giunta al suo epilogo. “Le comunichiamo il recesso della nostra Società del rapporto di lavoro con Lei intercorrente con effetto immediato al ricevimento della presente“, si legge nella missiva in cui viene aggiunto “Le precisiamo che restano confermate le offerte di un incentivo all’esodo pari a 85mila euro lordi, inclusivo al corrispettivo per le rinunce, in alternativa al Suo trasferimento presso l’unità produttiva di Cassinetta di Biandronno (VA)”. Alcune settimane fa i sindacati hanno presentato un ricorso contro la decisione dell’azienda di procedere ai licenziamenti. Il giudice si è riservato “per i prossimi giorni” una decisione in merito al processo.

Ieri sera al termine dell’incontro presieduto dalla viceministra dello Sviluppo economico Alessandra Todde i sindacati hanno diffuso una nota in cui hanno spiegato che “Il Ministero dello Sviluppo economico non è stato in grado di assicurare quella continuità occupazionale ai lavoratori della Whirlpool di Napoli che pure aveva a più riprese promesso”. Il governo, raccontano i sindacati, “si è inizialmente schermito dietro al fatto che Whirlpool avrebbe ritirato la disponibilità ad effettuare un trasferimento di azienda, ma poi è emerso che nemmeno da parte governativa c’è alcun progetto concreto che preveda di scongiurare i licenziamenti e di assicurare la continuità occupazionale. Anzi l’unico percorso prospettato da parte del ministero dello Sviluppo economico prevede che la riassunzione dei lavoratori, che nel frattempo evidentemente verrebbero licenziati, partirebbe dopo sei mesi dalla data di perfezionamento del piano di investimenti del consorzio, al momento previsto per il 15 dicembre”. Si tratta di un percorso, concludono i sindacati, “che evidentemente non scongiura i licenziamenti e tradisce le promesse fatte

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Salario minimo, Tridico: “Due milioni di lavoratori guadagnano 6 euro l’ora, non è tollerabile”

“Oggi sono oltre 2 milioni i lavoratori che lavorano a 6 euro l’ora lordi. Ci sono rider che corrono e fanno incidenti anche mortali e guadagnano 4 euro l’ora. Questo non è tollerabile. Non è tollerabile in un’economia avanzata”. Lo ha detto il presidente dell’Inps Pasquale Tridico intervistato dalla vicedirettrice del Il Fatto Quotidiano, Maddalena Oliva, a ‘Futura, la tre giorni organizzata dalla Cgil a Bologna. “L’idea di introdurre un salario minimo non è contro il sindacato, anzi è completamente integrato. Io sono consapevole della necessità nel nostro paese di una legge sulla rappresentanza e sul fatto che la contrattazione a quel punto debba valere erga omnes. Al di sotto di un certo livello, però, lo Stato dice ‘non si può lavorare, non è dignitoso lavorare”. E prosegue: “Laddove è stato introdotto, la letteratura economica dimostra che ci si è spostati su produzioni e frontiere produttive più adeguate. Il salario minimo su un livello adeguato spinge investimenti capital intensive, cioè spinge le imprese a scegliere strategie di investimenti che sfruttino maggiormente il capitale e l’innovazione piuttosto che il lavoro a basso costo e questo porta incrementi di produttività”, ha detto Tridico, spiegando che “in tutti i paesi dove è stato introdotto non solo si è avuto un incremento di benessere da parte del lavoratore, ma non si è avuta una disoccupazione. C’è soprattutto una più efficiente allocazione di risorse e lavoro su produzioni più produttive e quindi capaci di generale più crescita. Nel lungo periodo, ma anche nel medio, l’incremento del salario minimo porta incrementi di produttività”

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Lavoro, “100mila interinali a rischio per una norma mal scritta. Senza interventi del governo da gennaio saranno lasciati a casa”

Più di 100mila lavoratori a rischio. Perlopiù interinali che lavorano da tempo per aziende private, ma in alcuni casi anche personale somministrato a società a partecipazione pubblica, come Afol Metropolitana che a Milano gestisce centri per l’impiego e corsi di formazione professionale. È l’effetto collaterale di un comma inserita lo scorso anno nel decreto Agosto. Che, visto l’impatto della pandemia sul mondo del lavoro, aveva prorogato la possibilità di rinnovare e prorogare i contratti a termine senza causale in deroga al decreto Dignità. In fase di conversione a quell’articolo è stato aggiunto un comma che a breve, secondo i sindacati, potrebbe lasciare senza occupazione molti tra gli assunti con contratto a tempo indeterminato da un’agenzia per il lavoro che poi li invia – a tempo determinato – in un’azienda definita “utilizzatrice”. “Il ministero del Lavoro e tutte le forze politiche con cui abbiamo avuto contatti fin dalla scorsa primavera si sono detti d’accordo sul fatto che serve una modifica, ma ad oggi una mossa formale non c’è ancora stata. E gli effetti li stiamo già vedendo: con questa incertezza le imprese utilizzatrici non rinnovano i contratti e le persone restano a casa”, spiega Davide Franceschin della segreteria nazionale di Nidil Cgil, che giovedì 23 insieme a Felsa Cisl e UilTemp sarà in presidio davanti al ministero del Lavoro contro questi “licenziamenti per legge“.

Il problema nasce un anno fa, quando durante la conversione del decreto un emendamento del governo “in considerazione dell’attuale fase di rilancio dell’economia e al fine di garantire la continuità occupazionale” ha dato via libera alle somministrazioni a termine di lavoratori assunti in pianta stabile dall’agenzia interinale (e dunque già sottratti al precariato più spinto) anche per periodi superiori a 24 mesi, “senza che ciò determini in capo all’utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato”. Una precisazione che secondo i sindacati non sarebbe nemmeno stata necessaria – il limite di 24 mesi previsto dal decreto Dignità non è mai stato applicato a questa fattispecie che coinvolge appunto lavoratori già assunti stabilmente in un agenzia – ed è stata aggiunta ad uso e consumo di Poste, unica azienda a interpretare il decreto del 2018 come una tagliola applicabile anche in questi casi. Ma il comma aggiunto in corsa non si limita a dare un’interpretazione autentica: fissa un termine, prevedendo che la disposizione valga solo fino al 31 dicembre 2021.

Il risultato è che, dopo quella data, i 100mila assunti a tempo indeterminato dalle agenzie e utilizzati per missioni a termine perdono la possibilità di essere a un certo punto inseriti stabilmente nell’organico dell’azienda utilizzatrice (come spesso accade attraverso accordi sindacali) e al contrario “rischiano di essere sostituiti con altri lavoratori, aumentando il turnover e favorendo una precarietà perenne“, attacca Franceschin. “Perché quel punto resteranno sì assunti dall’agenzia, che per un periodo di almeno 6 mesi deve continuare a pagarli e cercare di formarli e ricollocarli, ma nel caso non ci siano occasioni di lavoro congrue potranno alla fine essere licenziati. In più si fa un danno anche alle aziende, che perdono manodopera formata”. E sulle barricate con i sindacati ci sono stavolta anche le agenzie, per le quali la procedura di ricollocazione di un lavoratore rimasto senza “missione” ha un costo notevole. “Inserire quella frase che fissa il termine del 31 dicembre è stato un grosso errore”, commenta Francesco Salvaggio, segretario generale di Assosomm (Associazione Italiana delle Agenzie per il Lavoro). “Dopo il decreto Dignità le agenzie hanno raddoppiato i lavoratori assunti a tempo indeterminato, saliti a 100mila su 500mila totali. Senza modifiche, quel numero potrebbe dimezzarsi di nuovo nel giro di un anno”.

Claudia Di Stefano, segretaria generale Nidil Cgil di Milano, aggiunge un tassello: “Nel settore privato c’è un margine di manovra, possiamo tentare di convincere le aziende ad assumere gli interinali con qualifiche più alte e specialistiche in modo da non perderli. Ma nel pubblico, dove gli ingressi stabili devono passare per un concorso, non si può fare”. Se gli enti pubblici sono proprio per questo fuori dal perimetro del decreto Dignità, quella norma e anche la nuova tagliola valgono infatti per enti partecipati dal pubblico come Afol Metropolitana, azienda speciale consortile partecipata dalla Città Metropolitana di Milano e da 70 Comuni, a cui si applica il diritto privato. “Nel settore formazione professionale Afol conta un centinaio di somministrati di cui 60 assunti dall’agenzia per il lavoro a tempo indeterminato. Che in gran parte lavorano lì da più 5 anni e da gennaio potrebbero essere lasciati a casa”, racconta il funzionario Nidil Francesco Melis. “Stiamo cercando di ottenere almeno che l’ente pubblichi molti bandi di concorso in modo da dare una chance a chi resterà fuori, ma non ci saranno posti per tutti. E parliamo di persone che offrono un servizio essenziale come la formazione professionale nelle periferie”.

Per ora dal ministero del Lavoro non è arrivata alcuna risposta concreta, nonostante tre lettere ufficiali inviate il 9 marzo, il 10 maggio e il 19 luglio dalle sigle che rappresentano i precari per sollecitare un intervento normativo. L’ultima missiva firmata dai segretari generali di Felsa Cisl, Nidil e UilTemp avvertiva che, senza “una rapida soluzione“, i sindacati avrebbero messo in atto “azioni di protesta e rivendicazione e ogni altra iniziativa utile a garantire la continuità occupazionale”. Il primo appuntamento è per giovedì con il presidio sotto il ministero.

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Non ho mai avuto problemi a trovare lavapiatti a 9 euro netti all’ora, in regola

Paga chi lavora e vedrai che li trovi. E se offri paghe da fame ti devi vergognare! Per molti imprenditori la moda del momento è lamentarsi perché non trovano lavapiatti, camerieri, manovali, raccoglitori di frutta. E la colpa la danno al Reddito di cittadinanza, che con i 780 euro al mese che offre toglierebbe del tutto la voglia di lavorare ai fannulloni che se ne stanno stesi sul divano, magari anche frugolando con altri fannulloni e fannullone, dal mattino alla sera. Poi di notte vanno in discoteca a ubriacarsi grazie a questo Reddito di cittadinanza da nababbi.

Non gli viene in mente che se pagassero decentemente le persone che lavorano per loro i dipendenti li troverebbero?

Io gestisco la Libera Università di Alcatraz da 40 anni e di problemi non ne ho mai visti. Certo ne hanno avuti certi imprenditori della zona perché, visto che io rispetto abbondantemente i minimi sindacali, poi magari diventa più difficile pagare le persone 3/5 euro l’ora, in nero. Quando nel 1981 iniziai a riparare i ruderi di Alcatraz alcuni muratori, grandissimi artigiani, mi chiesero 10mila lire al giorno e gli arnesi li portavano loro da casa. Erano le paghe correnti in Umbria, 40 anni fa. Io dissi che mia madre mi avrebbe scuoiato con il cric (che fa più male) se avessi pagato una cifra simile. E fissai la paga a 30mila lire. Mi presero per scemo per chilometri. Poi però alcuni si rifiutavano di lavorare per 10mila lire al giorno. E io mi guadagnai l’odio imperituro dei latifondisti della zona. Che me la fecero pagare cara in tutti i modi a loro disposizione. Che si fottano.

Molti mi rispondono che gli imprenditori non possono pagare 9 euro netti l’ora per via delle tasse che sono spaventose. È vero, da noi le tasse sono ingiuste ed eccessive. Perché ci sono 100 miliardi minimo di evasione fiscale all’anno. Perché la burocrazia è per le piccole imprese una tassa aggiuntiva e sadica che costa il 10% del fatturato. Perché gli sprechi idioti e quelli della corruzione rubano allo Stato miliardi e miliardi… Ma non potete scaricare il problema affamando i lavoratori.

Iniziate un po’ a protestare veramente, smettete di sostenere chi pratica la politica corrotta… 9 euro l’ora (comprendendo in questa cifra tredicesima, quattordicesima, ferie e trattamento di fine lavoro) non sono una cifra che può far crollare un’azienda. Certo con il fatto che poi devi anche pagare i contributi aumentano i costi; questi si aggirano intorno al 35% della paga netta che il lavoratore percepisce e comprendono tasse, pensione che andrà al lavoratore e contributi per la sanità, aggiungi il commercialista e le spese della contabilità e superiamo i 110 euro per 8 ore. E faccio notare che quando molti dicono che un dipendente in regola costa il doppio per via dei contributi, dimostrano che non sanno fare i conti.

Ma quel che pochi imprenditori hanno capito è che il costo orario del lavoratore è solo la metà del problema: l’altra metà è la qualità del lavoro. La differenza di rendimento tra chi lavora male, chi lavora bene e chi lavora molto bene è enorme. Un dipendente di qualità, che lavora con intelligenza e passione, produce molto più del doppio di un lavoratore che non si impegna e non ha passione. Certo questo non vale per mansioni elementari che anche una macchina poterebbe realizzare. Ma se parliamo di muratori, camerieri, cuochi, lavapiatti (e rompipiatti), receptionist e simili, la qualità è essenziale per il successo dell’impresa. Ed è chiaro che le persone pagate il giusto e trattate con rispetto e gratitudine sono quelle nelle migliori condizioni di eccellere e di determinare con le loro capacità il successo di un’impresa.

Una persona pagata il giusto, quando appoggia un piatto di lasagne sul tavolo dell’ospite lo fa producendo un impatto decisamente diverso da quello prodotto da un cameriere che riceve una miseria e lavora 12 ore di seguito. E poi il cameriere pagato il giusto quando sorride lo fa in modo diverso e questo aumenta la gradevolezza del cibo che l’ospite porta alla bocca, ed è più appagante del semplice impiattamento dei cuochi alla moda. Ma vallo a spiegare a certi ristoratori incattiviti dal pessimo olio che servono in tavola e che usano anche per condire l’insalata che mangiano loro. La grettezza d’animo e di palato corrompe e corrode.

In 40 anni la differenza che fa la qualità del lavoro l’ho vista continuamente. In special modo nei momenti di emergenza che nei decenni è ovvio che ti capitino. Vogliamo aggiungere che pagare il giusto le persone ti permette di instaurare migliori rapporti umani? Avere rapporti buoni con le persone che lavorano per te lo giudico un lusso più rilevante che avere la Ferrari.

P.s. Con questo non voglio negare che ci sia il problema della formazione dei lavoratori. C’è un gran numero di persone che non sono proprio capaci di lavorare. Esiste anche una massa di gente che non ha passione per niente e non vuole impegnarsi. La mancanza di passione per il lavoro è figlia di una scuola che impone lo studio con la paura invece di risvegliare passione e desiderio. Ed esistono molte famiglie che non trasmettono il gusto di fare le cose, di saper modificare la realtà e la vita. Ma questo, che è il padre di tutti i problemi sociali, non lo affronti affamando chi lavora per te.

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Le politiche di prevenzione degli infortuni e degli incidenti sul lavoro sono ancora deboli

La Commissione europea ha dato eco al grido d’allarme lanciato dai sindacati europei: controlli e ispezioni per la prevenzione degli infortuni sul lavoro sono in picchiata in larga parte dei paesi membri dell’Unione.

I dati contenuti in un recente studio della Confederazione europea dei sindacati sono sconfortanti: dal 2010, malgrado l’aumento degli incidenti sui luoghi di lavoro, il numero delle ispezioni si è ridotto del 55%. È come se il rischio-vita interessasse poco, anche in epoca di pandemia nella quale, secondo gli studi dei sindacati e delle istituzioni europee, più di un milione di vittime da Covid-19 ha contratto l’infezione sui luoghi di lavoro. Per questo organizzazioni dei lavoratori e istituzioni Ue chiedono a gran voce agli Stati membri di voler qualificare l’infezione da coronavirus come malattia professionale.

La Unión General de Trabajadores (Ugt), potente sindacato spagnolo tradizionalmente legato alla sinistra, è sul piede di guerra. Chiede maggiori risorse per gli organi ispettivi – il numero di addetti è tra i più bassi d’Europa – e politiche più incisive provenienti dal governo di Madrid e dalla stessa Ue. In verità, la Spagna in questi anni non è rimasta a guardare. Si è creato un Organismo nazionale di ispezione, lasciando alle Comunidades autónomas – le nostre regioni – tante attività di vigilanza sulla prevenzione dei rischi sui luoghi di lavoro e servizi di consulenza in materia per le imprese.

I report del ministero del Lavoro retto da Yolanda Díaz, esponente di Podemos, segnalano una flessione degli infortuni, con gli incidenti mortali calati di un 5% nel primo semestre dell’anno in corso, rispetto al corrispondente periodo del 2020. Con una definizione di incidente mortale resa più ampia da un intervento legislativo del 2019 che qualifica come tali anche i decessi occorsi entro l’anno dall’infortunio sul lavoro.

Non basta: le politiche di prevenzione sono ancora deboli. La Ugt, insieme alla Confederazione europea dei sindacati, pretende interventi legislativi più incisivi sui limiti per l’esposizione ad alcune sostanze cancerogene, indicazioni precise sulle temperature massime sui luoghi di lavoro, tenuto conto del cambiamento climatico, controlli puntuali sui cantieri edili, i luoghi a rischio per eccellenza. Il sindacato mostra preoccupazione per una ipotesi di compressione dei diritti acquisiti in materia di prevenzione dai lavoratori autonomi, rapporti di comodo per quegli imprenditori senza scrupoli che spesso li utilizzano nei cantieri come dipendenti di fatto subordinati.

La Ugt propone, ancora, il rilancio del Protocollo di collaborazione tra le procure, organi ministeriali e sindacati, un accordo che dal 2007 persegue l’obiettivo di rendere più rapide le indagini sui reati relativi alla sicurezza sul lavoro e più certa l’esecuzione delle sentenze di condanna. Scambi di dati su infortuni e imprese responsabili, migliore formazione della polizia giudiziaria nella fase delle indagini, istituzione di una Commissione congiunta per l’attuazione del programma e per avanzare proposte di maggiore efficacia.

Il dibattito sulle misure riguardanti la prevenzione dei rischi lavorativi nei paesi Ue è tutt’altro che secondario anche per un altro fattore: la mobilità delle aziende nello spazio comunitario è cresciuta molto negli ultimi anni. Il ricorso all’istituto del distacco internazionale dei lavoratori garantisce sinergie tra le imprese, soprattutto in ambito manifatturiero, obbligando le aziende distaccanti al rispetto delle regole lavoristiche fissate nel paese ove ha sede l’impresa che usa la forza lavoro straniera.

Dall’ultimo Rapporto dell’Osservatorio sul distacco operante presso il ministero del Lavoro italiano emerge l’importante presenza di aziende italiane in Spagna, anche per missioni di manodopera da impiegare in vari settori produttivi. Oltre il 10% dell’insieme dei distacchi all’estero avviene in direzione Spagna (il paese europeo che maggiormente richiede manodopera italiana attraverso le nostre aziende è la Francia). Insomma, non solo intensi scambi commerciali, ma stretta connessione di menti, di esperienze e di braccia.

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Continua la battaglia di Renzi e soci contro il Reddito di cittadinanza. Ecco perché le argomentazioni contrastano con la realtà

Senza timori di contestazioni almeno un merito il reddito di cittadinanza (Rdc) lo ha avuto: mettere a nudo le tare ataviche del sistema socio-economico del paese. E dunque povertà diffusa, retribuzioni compresse ai limiti della sussistenza, diffusi inganni ai danni di fisco e collettività, bassa scolarizzazione, inesistenza di strutture per favorire l’impiego e politiche attive del lavoro. Pensare che una volta introdotta la misura portasse magicamente con sé il superamento di tutti questi problemi è una lettura della realtà grossolana. Eppure, senza dubbio, qualcosa si è (s)mosso e, da qui, derivano le reazioni indispettite di soggetti politici come Italia Viva o, in modo più defilato, la Lega. Le parole di Mario Draghi (“uno strumento di cui condivido appieno i principi”) non hanno fermato la crociata. Il tema animerà lo scontro politico autunnale. Nel frattempo i quotidiani sono vivacizzati, si fa per dire, dalle baruffe renziane sul tema. Il leader di Italia Viva se la prende con la sociologa Chiara Saraceno, messa da Draghi alla guida della commissione per riformare il Rdc, “rea” di aver rinfacciato a Matteo Renzi una visione moraleggiante della gioventù italiana che preferisce “stare sdraiata sul divano” a prendere i sussidi invece che “soffrire, rischiare, provare”.

Intanto il gruppo guidato da Saraceno ragiona sui possibili correttivi alla misura da cui, forse, una parte del governo spera anche di attingere risorse per finanziare la riforma delle politiche attive del lavoro. A dire il vero le risorse assorbite dal reddito di cittadinanza non sono tali da cambiare i destini delle nostre finanze pubbliche. Si parla di meno di 10 miliardi di euro l’anno, quando solo per gli interessi sul nostro debito pubblico paghiamo, quando va bene, cinque volte tanto. Solo nel 2020 le imprese hanno ricevuto sussidi, in varia forma, per una quarantina di miliardi. Quelli del Rdc sono soldi spesi per cercare di trascinare fuori dalla povertà più nera milioni di persone. Denari che, almeno in una certa misura, ritornano in circolo nell’economia. Accrescono il potere di acquisto dei beneficiari che dunque consumano un po’ di più, riportando parte delle somme al Tesoro sotto forma di gettito Iva, accise e profitti aziendale. Stando agli ultimi dati Inps, i percettori sono 3,7 milioni ma, secondo la Caritas, il 56% delle famiglie povere non riceve il reddito a causa degli imperfetti criteri che presiedono all’erogazione.

Il Reddito di cittadinanza nasce con un peccato originale che è quello di unire una missione di contrasto all’indigenza a quella della re-immissione nel mercato del lavoro dei percettori. I numeri di questa seconda operazione non sono incoraggianti. E tuttavia sorprenderebbe il contrario, vista la cronica deficienza in Italia di politiche attive e di efficienti centri per l’impiego e la grave insufficienza di personale deputato a questo scopo. L’organico di chi dovrebbe accompagnare le persone verso un nuovo impiego è pari ad un quinto di quello tedesco. Soprattutto, come evidenzia la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra nella sua replica a Renzi, i due terzi dei percettori di Rdc sono individui particolarmente difficili da collocare sul mercato del lavoro, con basso titolo di studio, spesso la 5a elementare, e che sono da tempo lontani dal mondo del lavoro, in media da due anni. Il tutto in un periodo in cui l’occupazione complessiva è scesa dello 0,9%.

Alla luce dei dati Caritas, ma non solo, è opportuno correggere alcuni criteri di erogazione, non necessariamente in senso restrittivo. Senza dimenticare che parte della distorsione nelle assegnazioni deriva anche dalle fallaci dichiarazioni di lavoratori autonomi. Solito vecchio problema italiano dove sono tradizione gioiellieri o titolari di stabilimenti balneari (per citare due delle categorie che regolarmente occupano al fondo delle classifiche Mef sulle dichiarazioni dei redditi, ben al di sotto dei pensionati) beneficiati da agevolazioni che non spettano invece ad un operaio neo assunto. Quello che potrebbe cambiare è il requisito dei 10 anni di residenza chiesto agli extracomunitari per ricevere reddito. In fondo la misura fu varata con la Lega al governo ma questo, come facilmente intuibile, taglia fuori buona parte delle famiglie più in difficoltà.

Si sta mettendo mano a parametri che tarino meglio l’assegno in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Si valutano differenziazioni a livello geografico tenendo conto del costo della vita differente, ad esempio tra grandi centri urbani del Nord e aree rurali del Mezzogiorno. Ammesso che le differenze del costo della vita siano sempre così marcate, assunto che alcuni studi mettono in dubbio. Così come si lavora a potenziare i controlli sui percettori e a introdurre più condizionalità, come la partecipazione a corsi di formazione, per ricevere l’assegno. Misure queste, che potrebbero ridurre la platea dei beneficiari.

Il 30% dei percettori del reddito ha meno di 20 anni. È insomma il bacino da cui si attingono a piene mani molti datori di lavoro per proporre contratti con retribuzioni ben al di sotto della soglia minima di sopravvivenza e con condizioni lavorative capestro. L’esistenza del Rdc offre a questi giovani la possibilità di dire “no”, quanto meno alle offerte di lavoro più scandalose. Questo è l’aspetto che più disturba una parte della classe imprenditoriale, i cui malumori sono recepiti dalle forze politiche che vorrebbero eliminare la misura. Altre considerazioni sui presunti effetti nefasti della misura trovano il tempo che trovano mentre quello che non trovano sono riscontri reali. Da decenni l’Alaska corrisponde ai suoi abitanti una quota degli incassi che derivano dallo sfruttamento dei suoi giacimenti di petrolio. Non è mai stato rilevato un “effetto divano” sull’occupazione o sul desiderio di avere un lavoro. Stesse risultanze arrivano da un più limitato studio condotto in Toscana dopo il varo della misura italiana.

Pensarla diversamente significa ignorare la differenza tra sopravvivere (l’assegno medio percepito dai beneficiari del rdc è di 586 euro) e avere un tenore di vita soddisfacente. Significa dimenticare qualsiasi altro elemento, sociale, culturale, di autostima e realizzazione personale che spinge una persona a trovare e mantenere un’occupazione. C’è una frase nella replica della sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra che annichilisce la retorica di Italia Viva: “Si può essere poveri anche senza essere pigri”. Non c’è nessun effetto nefasto sull’economia riconducibile a misure universali di sostegno al reddito. E basterebbe alzare lo sguardo dal proprio ombelico per accorgersene. La Gran Bretagna ha introdotto un limite minimo nelle retribuzioni guardando più alla competitività del paese che al benessere dei lavoratori. Il ragionamento è semplice: se le imprese non possono competere comprimendo il costo del lavoro, sono obbligate ad investire, migliorare la qualità dei loro prodotti o spostarsi verso prodizioni più “pregiate”. O, più semplicemente, ribilanciare la quota di ricavi distribuita tra lavoratori e proprietari a favore dei dipendenti dopo che da 40 anni aumenta quella a favore dei secondi. Non è un caso che siano molti gli economisti che difendono il reddito universale di base proprio come uno strumento per forzare un paese a migliorare le proprie performances competitive.

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Timken, tra i 106 dipendenti licenziati da un giorno all’altro: “30 anni di sacrifici cancellati in 30 minuti. Rischio caos sociale”

“Così non va, il governo deve intervenire perché di questo passo si rischia il caos sociale”. Walter Zubani lavora da oltre 30 anni alla Timken di Villa Carcina in provincia di Brescia. Ieri mattina insieme ai suoi colleghi ha ricevuto l’annuncio della “chiusura definitiva dell’impianto”. Una doccia fredda per i 106 operai che adesso rischiano di perdere il lavoro. “Mi è appena nato il terzo figlio e ho un mutuo sulle spalle”, racconta Oscar davanti alla fabbrica che da ieri è presidiata giorno e notte dai lavoratori in sciopero. Qui dentro si fabbricavano cuscinetti fino all’altro ieri. “Hanno spremuto l’impiantistica senza fare investimenti per arrivare a questo punto”, prosegue Zubani raccontando che qualche anno fa la multinazionale ha aperto un impianto simile in Romania.

E c’è chi come Susi ipotizza che “tutta questa fretta nel chiudere sia legata proprio alla paura che le regole cambino e tornino delle limitazioni”. Dalla fine del blocco dei licenziamenti, sono centinaia le lavoratrici e i lavoratori che rischiano di rimanere per strada. “Non siamo i primi e non saremo gli ultimi se qualcosa non cambia”, racconta Oscar facendo riferimento alle chiusure della Gkn, della Gianetti Ruote e della Rotork Gears. “Il messaggio al governo – conclude il segretario generale della Fiom-Cgil di Brescia Antonio Ghirardi è quello di rimettere il blocco licenziamenti e di sveltire la riforma sugli ammortizzatori sociali per tutelare i lavoratori anche in situazioni di crisi”.

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Whirlpool, i lavoratori bloccano le partenze dell’aeroporto di Capodichino: il video della protesta

Blitz di protesta dei lavoratori Whirlpool all’aeroporto di Capodichino. Gli operai dello stabilimento di via Argine da alcuni minuti stanno bloccando il percorso di accesso alle partenze nello scalo partenopeo, impedendo ai viaggiatori di espletare le operazioni di imbarco. I lavoratori espongono striscioni e scandiscono slogan contro la multinazionale che ieri ha annunciato il via alle procedure di licenziamento collettivo per i 320 lavoratori della Whirlpool di via Argine.

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