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‘Ndrangheta, morto in carcere a Parma il boss Giuseppe Nirta: stava scontando l’ergastolo

Giuseppe Nirta, 83 anni, il boss e capo dell’omonima e potente cosca della ‘ndrangheta, è morto nel carcere di Parma dove stava scontando l’ergastolo. La settimana scorsa era stato ricoverato a causa di alcuni problemi di natura cardiaca. Dopo circa due anni di latitanza era stato arrestato dai carabinieri del Gruppo di Locri alla fine di maggio del 2008 a San Luca. Il boss si nascondeva in un bunker che era stato realizzato all’interno dell’abitazione di una parente. Su Nirta pendeva un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito della vasta operazione anticrimine, scattata a San Luca e dintorni alla fine di agosto del 2007, denominata “Fehida”. Un blitz che consentì di sgominare alcuni potenti e ramificati clan della ‘ndrangheta sanluchese impegnati nella lunga e sanguinosa “faida di San Luca”, protrattasi per circa 20 anni. Una mattanza culminata a Ferragosto del 2007, in Germania, con la “strage di Duisburg” dove furono uccise, ben 6 persone. A farsi la guerra, all’epoca, erano i clan Nirta Versu-Strangio Janchi, da una parte, e Pelle Vanchelli-Vottari Frunzu dall’altra.

Nirta agli inizi del 1982 era stato arrestato in Lombardia, a Voghera dove prestava servizio come bidello in un istituto scolastico tecnico, perché coinvolto nel sequestro dell’imprenditore lombardo, Giuliano Ravizza, rapito nell’autunno del 1981 e rilasciato tre mesi dopo dietro il pagamento di un riscatto di circa 4 miliardi di lire. Al termine del processo scaturito dall’inchiesta sul sequestro, Nirta fu condannato a 27 anni di reclusione. Giuseppe Nirta, detto “U guardianu”, era anche il padre di Giovanni Luca Nirta, figura, secondo gli inquirenti, di primo piano dell’omonima “famiglia” sanluchese e marito di Maria Strangio, la trentenne madre di tre figli minorenni uccisa per errore in un agguato di ‘ndrangheta il giorno di Natale del 2006 a San Luca. Nella stessa occasione rimasero ferite tre persone, tra cui un bambino di 5 anni, nipote di Maria Strangio. All’epoca si scoprì che il vero obiettivo dell’agguato era proprio Giovanni Luca Nirta. Dalle indagini sfociate nell’operazione “Fehida” emerse inoltre che l’agguato in cui fu uccisa Maria Strangio era stata la cruenta risposta, sempre nell’ambito della “faida di San Luca”, al ferimento ad Africo, in un agguato, la sera del 31 luglio del 2006, di Francesco Pelle, alias “Ciccio Pakistan”, elemento di primo piano dell’omonima cosca. Un intreccio di agguati e vendette incrociate, con i morti ed il feriti che ne sono conseguiti, che sono sempre state una caratteristica delle vicende di ‘ndrangheta.

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Trento, i pm chiedono il rinvio a giudizio dei vertici del gruppo vitivinicolo Mezzocorona: “Favorirono il riciclaggio della mafia siciliana”

Nonostante il dissequestro di beni e vigneti per un valore di 70 milioni di euro, deciso nel 2020 dal Riesame, la Procura della Repubblica di Trento ha chiesto il rinvio a giudizio dei vertici del gruppo vitivinicolo Mezzacorona per una compravendita che li porta a intrecciarsi con famiglie mafiose siciliane. I pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Davide Ognibene e Carmine Russo, assieme al procuratore Sandro Raimondi, chiedono di processare l’ex amministratore delegato ed ex direttore generale di Mezzacorona, Fabio Rizzoli, il presidente Luca Rigotti, nonché i siciliani Gian Luigi Caradonna di Agrigento – titolare della società Agro Invest – e Giuseppe Maragioglio di Palermo. Le accuse sono di concorso in associazione mafiosa e riciclaggio.

Tutto nasce dall’acquisto di una tenuta in Sicilia che, secondo l’accusa, avrebbe favorito esponenti di Cosa Nostra che volevano liberarsi di beni riconducibili ad attività criminali, per acquisire una grande provvista di denaro. Il capo d’accusa recita: “In concorso tra loro, al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa denominata “Cosa nostra”, (gli imputati, ndr) sostituivano 13 miliardi di lire con edifici e terreni” che sarebbero frutto di attività illecite, per impedire di accertarne la provenienza. I fatti risalgono a vent’anni fa: fu addirittura nel febbraio 2001 che avvenne una prima transazione. Ma c’è anche un filone successivo, riguardante un’operazione analoga da 20 milioni di euro, che risale alla primavera 2003. Siccome i pagamenti avvennero con assegni bancari, gli avvocati difensori Luigi Olivieri e Vittorio Manes hanno sostenuto durante l’istruttoria che il passaggio di denaro era avvenuto in modo tracciabile e quindi non poteva avere uno scopo elusivo.

Le due tenute passate di mano si trovano a Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento (255 ettari che Mezzacorona acquistò dalla società Agro Invest di Caradonna), e ad Acate, in provincia di Ragusa (621 ettari). Si tratta in totale di quasi 900 ettari di vigneti pregiati, oltre a numerosi edifici che in anni lontani erano appartenuti ai cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani che furono accusati dal pentito Tommaso Buscetta e vennero fatti arrestare da Giovanni Falcone. Il primo dei due cugini morì prima del processo, mentre Ignazio fu condannato in primo e secondo grado, ma fu poi ucciso in un agguato di mafia. Secondo gli investigatori la disponibilità di terreni sarebbe rimasta alla famiglia Salvo, attraverso i due indagati siciliani. Per questo si è acceso un faro sulle due operazioni immobiliari con il sospetto di riciclaggio. Gli investigatori sono convinti che gli acquirenti trentini sapessero che per perfezionare la vendita fosse necessario attendere l’autorizzazione dal carcere di un genero dei Salvo.

Il sequestro ottenuto dalla Procura nel 2020 si basava sui rapporti della guardia di Finanza che avevano ricostruito l’intreccio delle società. I beni risultavano intestati alla Finanziaria Immobiliare spa che, dopo la morte dei due cugini, era passata agli eredi. Questi trasferirono ad Agroinvest una serie di proprietà agricole, tra cui quelle finite sotto inchiesta a Trento. Una prima indagine, nel 2010, non portò a nulla. Dieci anni dopo ecco il maxi-sequestro, che però non aveva superato il vaglio del Riesame. I giudici avevano sollevato dubbi sull’esistenza del concorso in associazione mafiosa e riciclaggio, sostenendo che non c’è prova non tanto della riconducibilità delle proprietà ai Salvo, ma del fatto che essi le detenessero per conto dell’organizzazione mafiosa.

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Mauro Rostagno, quanto bisogno abbiamo ancora oggi del suo coraggio politico

“Chiddu c’a varva” si era spinto troppo in là con la sua telecamera, andando di terreno in terreno, di intervista in intervista, in quel trapanese fradicio di cattivo potere antidemocratico, ammantato di irrinunciabili esigenze anti comuniste. “Chiddu c’a varva”, che se ne andava in giro vestito di bianco, col fare di chi non si prende mai troppo sul serio, era un affronto alla ostentata arroganza di quel potere che nella mafia aveva il suo cane da guardia.

“Chiddu c’a varva”, come l’aveva apostrofato il boss Mariano Agate, con ironia e fermezza smascherava ogni giorno la feroce mediocrità di questi cani, afflitti da un inguaribile complesso di inferiorità, costretti come erano da secoli ormai a rincorrere nei modi di esercizio del potere i fratelli maggiori, quelli altolocati per davvero.

I mafiosi invece, fratelli minori, padroni minori, avevano ancora l’affanno di esercitare in proprio la violenza, scannando cristiani anche per conto terzi e pazienza se a saltare in aria era una famiglia come a Pizzo Lungo. Loro, fratelli minori, padroni minori senza manco il lustro di un capitano di ventura o la riconoscenza tributata oggi a un contractor, abituati a farsi bastare eroina, cemento e l’illusione di contare qualcosa a Mauro Rostagno dovevano farla pagare.

E così Mauro venne ucciso a fucilate il 26 settembre del 1988, dieci anni dopo Peppino Impastato. Nel 2020 la Cassazione ha definitivamente condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Vincenzo Virga, capo mafia trapanese, senza sciogliere i dubbi sull’esecutore materiale, sui depistaggi e sugli interessi che in quel delitto hanno trovato l’ennesima convergenza.

Quanto è attuale il testamento esistenziale di Mauro Rostagno! Quanto bisogno abbiamo di ostinati ficcanaso oggi che viviamo in un mondo nel quale le informazioni sono diventate la base del nuovo capitalismo e sono così abbondanti da far pensare che l’accesso al sapere sia un fatto scontato; eppure sono ancora i giornalisti seri, quelli che non spacciano intrattenimento, ma illuminano ciò che il potere vorrebbe tenere segreto a essere i più perseguitati, i più minacciati, i più a rischio della vita nel civilissimo Occidente.

Quanto bisogno abbiamo oggi di nuovi Macondo e di nuove Saman: cioè della capacità che Mauro ha avuto di abitare i margini, di colmare i vuoti, di incontrare le persone comunque fossero fatte, innamorandosene per quello che erano, accogliendole e danzando con loro, per ritrovare la strada del tutto, attraverso la pazienza del poco. Ce lo dicono le nuove segregazioni sociali, le nuove solitudini, tra dipendenze vecchie e nuove e una strisciante, pervasiva forma di “agorafobia”, che spinge la disintermediazione sociale fino all’auto isolamento dei giovanissimi Hikikomori.

Quanto bisogno abbiamo oggi del coraggio politico di Mauro Rostagno che, dopo essere stato tra i fondatori di Lotta Continua, dopo aver creduto con tutto se stesso che quel movimento nato dall’onda del ’68 avrebbe davvero potuto innovare radicalmente l’esercizio del potere in Italia, quando si rende conto di essere finito con tutta la compagnia su un binario morto, lo dice, lascia e invita a lasciare, prima che sia troppo tardi, prima che la frustrazione imbocchi la scorciatoia folle della violenza.

Per Mauro le “tesi” in politica sono una cosa seria: o si inverano, dando i frutti sperati, o si mettono in discussione, radicalmente. Una lezione tanto preziosa a vent’anni dalla terribile estate del 2001, con il drammatico ritiro occidentale dall’Afghanistan che lascia presagire soltanto che continuerà in altri modi la giostra macabra dell’industria della guerra, che vive di fallimenti e di incompiuti. Una lezione che vale come antidoto al narcisismo del “red-washing”, di quanti cioè costruiscono rendite di posizione su cause perse, ma ricicciate senza vergogna, di quanti, per parafrasare le parole di Mauro stesso: dopo aver cercato di costruire un mondo nel quale valesse la pena trovare un posto e non essendoci riusciti, si sono però accorti di poter avere un posto in questo mondo che non butta via niente, nemmeno quella golosa nicchia di mercato rappresentata da rivoluzionari di mestiere.

Mauro ha avuto l’intelligenza dell’acqua che riceve la forma dal contesto che la racchiude, ma resta se stessa e riesce a trovare la propria strada spaccando anche la roccia più dura. Ciao, Mauro!

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Trattativa Stato-Mafia, guardiamo al processo di Bologna: da lì forse capiremo di più

Una volta, parecchio tempo fa, uno degli imputati assolti del fu processo “Trattativa” mi disse: “C’è chi guarda alla pista degli appalti per comprendere l’omicidio Borsellino: sai che novità quella, gli appalti! Come fossero roba mai vista in Sicilia”.

Non dico il nome del mio confidente, così non gli faccio perder tempo a smentirmi: ma quella frase resta di grande interesse tanto più oggi, all’indomani dell’attesa, temuta, sentenza d’appello del processo cosiddetto Stato-Mafia. La quale ha stabilito, dopo 13 anni, in maniera lapidaria – ma mai come oggi ha un senso la usuale frase: “occorre aspettare le motivazioni” – che una trattativa ci fu – pure qui, sai che novità – ma che quel dialogo scellerato non rafforzò la strategia stragista di Cosa nostra e dei suoi concorrenti esterni. Che restano senza volto: la maledizione italica non viene – non poteva essere – sconfitta da una sentenza che inchioda solo Leoluca Bagarella e Antonino Cinà i quali, dicono i giudici di appello, hanno minacciato e tentato di trattare senza successo.

Mettere alla sbarra gli apparati, che hanno una potente capacità di autoproteggersi, è sempre stata l’aspirazione di chi ha cercato la verità sui poteri occulti, tentato di riportare tutte le faccende al principio aristotelico del reductio ad unum: il Sifar, o il Sid, e poi il Sismi e il Sisde hanno sempre saputo come assolversi per aver coperto, favorito, depistato. Il punto è che è stato fatto un abbondante uso degli “irregolari”, uomini addestrati, “parastatali”, direbbe Vincenzo Vinciguerra, mercenari mandati qui e là da agenzie del crimine di cui sappiamo davvero poco.

Accidenti. Sappiamo poco di cosa tramassero i Graviano, chissà che ne pensa Marcello Dell’Utri, i due fratelli che lanciano continui messaggi dalle loro celle e che Totò Riina dal cortile del carcere di Parma indica come quelli a cui chieder conto delle stragi sul continente, poi interrotte dopo il fallito attentato all’Olimpico – e non sappiamo perché. La lista è lunga: dimentichiamo la Trattativa, guardiamo al Processo di Bologna. Alla sbarra c’è Paolo Bellini, uomo di tante stagioni. Da lì potremo, forse, capirne di più.

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Borsellino, il racconto di Gratteri: “Il giorno della strage? Ero in carcere per un interrogatorio, i detenuti facevano festa”

A 29 anni dalla strage di via d’Amelio, PaperFirst pubblica il podcast dell’evento di presentazione del libro La casa di Paolo, scritto da Marco Lillo e Sara Loffredi, al quale parteciparono il procuratore Nicola Gratteri e in collegamento Salvatore Borsellino, autore della prefazione del libro.

“Non è facile raccontare la vita di Paolo Borsellino a dei ragazzi di 13 o 14 anni che di quella storia non sanno nulla – racconta Marco Lillo -. Quello che abbiamo cercato di fare con questo libro è stato smontare il mito del supereroe, perchè tutti possiamo e dobbiamo fare antimafia. Dobbiamo cercare di far passare la cultura della legalità alle generazioni che ci seguiranno e dobbiamo cercare di non far cadere il messaggio che Paolo Borsellino ci ha trasmesso sacrificando la sua vita”.

Una storia di speranza e di vita, raccontata in modo semplice, per spiegare ai ragazzi chi era Paolo
Borsellino e perchè non va dimenticato.
«Io credo – termina così Salvatore Borsellino – che il sogno di Paolo fosse un sogno così grande che non può morire, perchè i sogni d’amore non possono morire».

La casa di Paolo, presentato nel 2020 all’interno della rassegna letteraria Risguardi a Roseto Capo Spulico, è in libreria per PaperFirst.

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A Bologna il “Festival dei beni confiscati” di Libera. Tre giorni di eventi e dibattiti

Si chiama Villa Celestina ed è il primo bene sequestrato alla criminalità organizzata che sarà riutilizzato a fini sociali nel comune di Bologna. Dal 21 al 23 maggio, poi, sarà il teatro del Festival dei beni confiscati, organizzato dalla sezione di Bologna di Libera. Tre giorni e sei manifestazioni, in diretta online e in presenza, nella struttura sequestrata nel 2008 e assegnata nel 2018 al Comune di Bologna. Dal 2019 è stata data in gestione a Libera Bologna grazie a un patto di collaborazione. “Raccontare oggi i beni confiscati e le aziende sequestrate significa raccontare un percorso lungo decenni – dice Andrea Giagnorio, referente di Libera Bologna – fatto di battaglie, vittorie e difficoltà contro mafie e criminalità ma anche per la giustizia sociale e ambientale”.

La prima edizione del festival bolognese di Libera prende il via in un anno significativo: 25 anni fa veniva approvata la legge che ha permesso il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati: la 109/96, che ha fatto in modo che i beni non tornassero nelle mani delle mafie, ma venissero riutilizzati dalla collettività, dalla comunità, dalle istituzioni. Durante le sei iniziative, insieme a relatori e relatrici esperti del tema o protagonisti in prima persona del riutilizzo sociale, Libera Bologna approfondirà la situazione dei beni sequestrati nel Bolognese, il ruolo delle aziende sequestrate, l’impatto mafioso sull’ambiente, con un caso legato al maxiprocesso Aemilia, e le esperienze virtuose di beni confiscati. Gli stessi che, a livello locale e nazionale, si sono riadattati durante la pandemia di Covid, facendo emergere con ancora più forza il ruolo di questi spazi come spazi di giustizia sociale.

“Villa Celestina – continua Giagnorio – è uno spazio che fa emergere con forza il ruolo che possono avere questi luoghi nel rafforzamento non solo della consapevolezza sulla presenza di mafie e criminalità nella nostra città, ma anche di impegno attivo per il bene comune, di percorsi partecipati per la giustizia sociale e ambientale”. Non solo, una biciclettata attraverserà la città per raggiungere i 9 beni confiscati – tra garage e appartamenti – nel Comune di Bologna e raccontare la situazione della provincia, dove in tutto ci sono 25 beni confiscati: tracce che raccontano la presenza mafiosa in città.

Il programma

Venerdì 21 maggio – ore 18.30
Tracce di mafie e criminalità: i beni confiscati a Bologna. Intervengono: Francesco Caruso – Presidente Tribunale di Bologna, Davide Pati – Responsabile nazionale settore beni confiscati di Libera, Stefano Reverberi – Amministratore giudiziario, Antonio Monachetti e Andrea Giagnorio – Libera Bologna. Conclusioni di Matteo Lepore – Assessore al Patrimonio del Comune di Bologna

Sabato 22 maggio – ore 11
Il ruolo delle aziende sequestrate: dall’impresa mafiosa ad esempi virtuosi. Intervengono: Lavoratori della Geotrans, Rita Ghedini – Presidente Cooperare con Libera Terra, Stefania Pellegrini – Direttrice del Master in Gestione e riutilizzo dei beni sequestrati e confiscati “Pio La Torre”, Rosario Di Legami – Amministratore giudiziario, Antonio Monachetti e Luigi Montana – Libera Bologna. Con la partecipazione di Cgil, Cisl e Uil Bologna

Sabato 22 maggio – ore 16
Biciclettata sui beni confiscati del comune di Bologna. Con Salvaiciclisti Bologna

Sabato 22 maggio – ore 18
Il caso Bianchini, tra sequestri, ecoreati e il maxiprocesso Aemilia. Intervengono: Enza Rando, vicepresidente nazionale e responsabile ufficio legale Libera, Salvatore Tesoriero, avvocato
Giulia Paltrinieri, giornalista, Angelo Miotto, direttore Q Code Mag, Sofia Nardacchione, Libera Bologna

Domenica 23 maggio – ore 11
I beni confiscati nel Covid. Storie di beni che si sono riadattati per l’emergenza. Intervengono: Tatiana Giannone – Settore beni confiscati Libera contro le mafie, Giuseppe Politanò – Centro Polifunzionale Padre Pino Puglisi di Polistena, Mauro Destefano – Ambulatorio Emergency Polistena, Massimiliano Monnanni – T&T Palestra della legalità (Ostia), Paolo Dell’Oca – Fondazione Arché, Milano, Salvatore Gibiino – Presidente Cooperativa Pio La Torre Libera Terra

Domenica 23 maggio – ore 12.30
Filiere etiche e beni confiscati: esperienze e buone prassi per un consumo critico e consapevole e di contrasto alla criminalità organizzata. I Consigli di zona soci di Coop Alleanza 3.0 dialogano con Libera Bologna

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Maxi-blitz antimafia a Bari: 99 arresti e 147 indagati. Il gip: “Dal clan Strisciuglio controllo asfissiante del territorio”

Sgominato il clan Strisciuglio a Bari: stamattina la Squadra mobile della Questura e i Carabinieri del Comando provinciale hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 99 persone (96 in carcere e tre agli arresti domiciliari). Gli arrestati sono capi e affiliati al clan, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, reati di droga, armi, estorsioni, lesioni e rissa. L’indagine, denominata ‘Vortice Maestrale’, è coordinata dai pm Lidia Giorgio e Marco D’Agostino in collaborazione con la Direzione nazionale antimafia. 40 in totale i capi d’imputazione contestati ai 147 indagati, tra cui cinque estorsioni: a una gioielleria (4 bracciali del valore di 20mila euro come prezzo della protezione); a una sala scommesse, imponendo slot machine fornite dall’indagato Baldassarre D’Ambrogio; al gestore di un garage (una moto); alla titolare di un bar (5 mila euro per aver offeso la moglie di un sodale, dopo averle danneggiato il locale e incendiato il portone di casa); il pizzo su un giro di prostituzione (10 mila euro per poter continuare l’attività).

I magistrati sono riusciti a ricostruire gerarchia e attività illecite del clan dal 2015 a oggi per il controllo del territorio nei quartieri baresi Libertà, San Paolo, San Pio-Enziteto, Santo Spirito e San Girolamo e nei comuni di Palo del Colle e Conversano, documentando estorsioni a commercianti, riti di affiliazione, conflitti con altri gruppi criminali, minacce e pestaggi per punire sodali infedeli, cattivi pagatori o risolvere questioni sentimentali. A capo dell’organizzazione, secondo gli inquirenti, c’erano i pluripregiudicati Vito Valentino e Lorenzo Caldarola, oltre ai referenti nei vari rioni e città della provincia (Alessandro Ruta, Saverio Faccilongo, Giacomo Campanale). Tra gli arrestati, a 53 dei quali l’ordinanza è stata notificata in carcere, ci sono i figli del boss Caldarola, Francesco e Ivan, e Antonio Busco, ritenuto quest’ultimo uno dei fornitori di droga. “I quartieri dove è attivo il clan Strisciuglio sono tuttora caratterizzati da un asfissiante controllo del territorio, che si manifesta attraverso le estorsioni esercitate in danno di numerosi piccoli imprenditori ed artigiani che hanno le proprie attività ed insediamenti produttivi in quelle aree: cantieri edili, commercianti, lidi balneari, attività di ristorazione, eventi ludici e concertistici”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del Tribunale di Bari Giovanni Anglana. Nell’inchiesta sono contenute le dichiarazioni di 21 collaboratori di giustizia.

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Ai mafiosi serve un’Europa malata: l’Italia ha una responsabilità epocale

L’Unione Europea è ad un bivio: di qua il superamento della pandemia e l’avvio attraverso la COFE (la Conferenza sul Futuro dell’Europa) di una nuova fase costituente che rafforzi le sue Istituzioni democratiche, rendendole ancor più adeguate alle sfide globali. Di là il ritardo colpevole nel superamento della pandemia, il fallimento della COFE e il conseguente probabile declino delle Istituzioni democratiche europee.

Come in ogni partita c’è chi tifa e tira da una parte e chi dall’altra. Tifano per il declino sicuramente le mafie italiane che si trovano in buona compagnia nel territorio dell’Unione Europea, non essendo la pratica del crimine organizzato una esclusiva italiana e nemmeno lo specifico metodo mafioso.

Secondo il report SOCTA (2017) di Europol, più di 5.000 gruppi di criminalità organizzata sono attualmente sotto indagine in Europa. La criminalità organizzata è guidata dal profitto e le sue attività illegali generano enormi guadagni: i proventi della criminalità organizzata all’interno dell’Ue sono attualmente stimati in circa 110 miliardi di euro all’anno. Nell’Unione Europea attualmente solo il 2% circa dei proventi di reato sono congelati e l’1% circa confiscati. Ciò consente ai gruppi della criminalità organizzata di investire nell’espansione delle loro attività criminali e nell’infiltrazione dell’economia legale. Europol stima che tra lo 0,7 e l’1,28% del Pil annuo dell’Ue è coinvolto in attività finanziarie sospette (fonte tratta dal rapporto FattiperBene pubblicato da Libera).

Le organizzazioni criminali di stampo mafioso non sono organizzazioni sovversive, nemmeno quando temporaneamente e strumentalmente ne vestono i panni come nel caso della stagione delle leghe indipendentiste del nostro recente passato. Le mafie sono parassitarie fino a diventare eversive: fiaccano il potere pubblico per poterne abusare, svuotandolo così della propria autentica missione.

Se trasferiamo questo principio su scala europea, i conti non tardano a tornare: le mafie non scommettono sulla disgregazione dell’Ue, scommettono piuttosto sulla sua debolezza per poter massimizzare i loro profitti illeciti, approfittando di un ecosistema florido ed ingenuo, quando non complice come le storie di Jan Kuciak e Daphne Caruana Galizia suggeriscono.

Le ricchezze accumulate attraverso i traffici illeciti sono un eccellente test. In Italia disponiamo di un’arma micidiale per colpirle: le misure di prevenzione patrimoniali, in forza delle quali accertata una sproporzione tra disponibilità di beni e redditi dichiarati, a certe condizioni, si può procedere al sequestro che diventerà confisca definitiva se colui che lo ha subito non riuscirà a dimostrare la provenienza lecita di quelle ricchezze.

Dunque: sequestro in assenza di condanna penale ed inversione dell’onere della prova per evitare che il sequestro diventi confisca. Una rivoluzione! Che infatti costò la vita al suo profeta: Pio La Torre. L’Unione Europea non possiede un’arma simile, ma soltanto la più tradizionale confisca penale, quella cioè che colpisce mezzi e profitti di un reato commesso e per il quale si è stati condannati in sede penale. Anche il regolamento europeo del 2018, entrato da poco in funzione, che riguarda la reciprocità dei provvedimenti di congelamento (sequestro) e confisca, pur importante, fa riferimento in sostanza alla confisca penale.

Questo iato tra normativa italiana e normativa europea è una buona misura della sfida che abbiamo davanti: ad oggi infatti ai mafiosi italiani conviene assai portare i soldi fuori dall’Italia e conviene ancor di più che l’Europa non cambi idea sulle misure di prevenzione patrimoniali. L’Italia oggi ha un compito in più: aiutare l’Unione Europea a non sbagliare strada.

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‘Ndrangheta, infiltrazioni della cosca Piromalli nell’Asp di Reggio Calabria: 14 arresti

Quattordici arresti sono stati eseguiti stamattina dai carabinieri del Ros a Reggio Calabria, Catanzaro e Bologna nell’ambito di un’inchiesta che ha riguardato la cosca Piromalli e le infiltrazioni nell’Asp di Reggio Calabria. L’ordinanza è stata emessa dal gip su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Gaetano Paci. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, corruzione, trasferimento fraudolento di valori, traffico di influenze illecite in concorso, tutti aggravati dal metodo mafioso.

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“Processo alla ‘ndrangheta”, anche il sistema Catanzaro sotto inchiesta. L’anticipazione di PresaDiretta sul caso del giudice Marco Petrini

Per la prima volta la Rai dedica un’intera prima serata a “Rinascita Scott”, una delle indagini più importanti degli ultimi anni contro la ‘ndrangheta fatta dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Lo fa con Processo alla ‘ndrangheta, una lunga inchiesta di PresaDiretta in onda lunedì 15 alle 21.20 su Rai3. Riccardo Iacona ha seguito Gratteri negli ultimi mesi per capire come si alimenta e come riesce ad arrivare ovunque la più grande organizzazione criminale al mondo. Per quattro anni i carabinieri dei ROS, del Nucleo Investigativo di Vibo Valentia e i magistrati hanno pedinato e intercettato la cosca del boss Luigi Mancuso e i dei clan loro collegati che comandavano su Vibo Valentia e provincia. Nulla sfuggiva al controllo criminale: appalti, compravendita di beni, intestazioni fittizie, contratti tra privati, acquisizione di imprese, imposizione del pizzo e un enorme giro di usura, un vero e proprio circuito bancario illegale parallelo. E il numero impressionante in questa indagine è quello dei “colletti bianchi” che si sono prestati agli interessi mafiosi. Commercialisti, notai, avvocati, amministratori pubblici e funzionari, personale dei palazzi di giustizia, uomini delle forze dell’ordine.

A PresaDiretta si parlerà anche dell’inchiesta che la Procura di Salerno sta facendo sul Palazzo di Giustizia di Catanzaro. In particolare del caso del giudice Marco Petrini, presidente della seconda sezione della Corte d’appello del tribunale di Catanzaro, già condannato in primo grado per corruzione in atti d’ufficio. Intervistato da Riccardo Iacona, parlerà per la prima volta in televisione Mario Santoro, uno dei principali accusatori del giudice Petrini, condannato anche lui nello stesso processo. “Il giudice Petrini è tuttora un amico anche se ci sono cose che io non ho condiviso. Lo conoscevo da 13 anni quindi io mi mettevo a disposizione”. In questi anni di amicizia, Santoro viene a conoscenza di tutti i trucchi che venivano utilizzati per aggiustare le sentenze a cominciare dalle perizie tecniche che vengono affidate direttamente dai giudici ai professionisti. E il giudice Petrini cercava sempre professionisti in grado di spolpare i clienti. Nell’intervista Santoro non ha dubbi sul fatto che si sapeva che Catanzaro era un sistema: “Catanzaro è il fulcro, la questione dei colletti bianchi che dice Gratteri è vera”.

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