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Riccardo Muti e Frank Zappa sono molto più simili di quanto sembri

Ho assistito alla lectio magistralis di Riccardo Muti quando l’Università di Lecce (ora Università del Salento) gli conferì la laurea honoris causa in Beni Musicali. Era il 1998. Tre mesi prima della sua lezione Muti chiese che tre studenti che facevano parte dell’orchestra dell’Università studiassero uno spartito che, poi, avrebbero dovuto suonare, assieme, di fronte a lui. Uno di quelli era un mio studente. Passò settimane a perfezionarsi.

Muti iniziò la lezione, a mia memoria, dicendo che i tre avrebbero suonato un pezzo che aveva loro assegnato. I tre suonarono. Applausi. Finita l’esibizione (di pochi minuti), Muti iniziò a spiegare, ad ognuno dei musicisti, cosa avrebbe dovuto fare per dare più enfasi, ritmo, lievità e altro ancora a ogni nota eseguita. Poi li istruì su come suonare assieme. Fece vedere cosa fa un direttore d’orchestra. Alla fine della lezione, che durò circa un’ora, i tre risuonarono quel pezzo e fu chiaro a tutti, anche a chi non capisce molto di musica in senso tecnico, come me, quale sia il ruolo di un direttore d’orchestra.

Il maestro non suona uno strumento… suona l’orchestra. Quando sentiamo un solista che esegue il suo pezzo non diciamo che è stato bravo lo strumento che ha emesso i suoni, diciamo che è stato bravo lui, o lei. E così avviene per l’orchestra. È il direttore d’orchestra che la suona. E la stessa orchestra suona diversamente a seconda di chi la dirige, proprio come uno strumento.

Quest’anno Muti compie ottant’anni e continua a lavorare come sempre. Gente così non va in pensione per raggiunti limiti di età…

Quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni un altro musicista con cui ho avuto modo di interagire: Frank Zappa. La prima volta che lo incontrai, a casa sua a Los Angeles, ebbi il privilegio di assistere a una sessione di registrazione di una traccia di batteria, suonata da Chad Wackerman. Zappa aveva scritto lo spartito e Wackerman lo doveva imparare. Poi Zappa lo avrebbe accompagnato ad altre tracce, per ottenere la composizione finale.

Guardando Muti istruire i musicisti mi venne in mente Zappa che istruiva il batterista. Era il 1983, e la London Symphony Orchestra aveva appena inciso un disco con musiche di Zappa. Si trattava della prima registrazione digitale di un’orchestra sinfonica. C’era una traccia per ogni strumento e, in post produzione, Zappa era in grado di “dirigere” ulteriormente i musicisti, portandoli a emettere i suoni come il compositore (Zappa) li aveva “sentiti” nella sua testa.

L’anno dopo, nel 1984, l’Ensemble Intercontemporain di Parigi, diretto da Pierre Boulez, aveva in programma musiche di Zappa. Andai al concerto. Il giorno prima, Zappa mi raccontò delle vicissitudini delle prove. Boulez aveva rotto la bacchetta dalla stizza, perché l’orchestra stentava a stare a tempo, rispettando i tempi strani che Zappa utilizzava. Solo una parte di quello che fu suonato quella sera finì nel disco. Un’altra parte fu suonata da un computer. Zappa mi disse: se non ci riescono questi non ci riesce nessuno, anche se i miei musicisti rock riescono a suonare con questi ritmi…

Poi trovò l’Ensemble Modern e questi riuscirono a suonare la sua musica come voleva lui. Durante il concerto a Francoforte fu proprio Zappa a dirigere l’orchestra. Ma non a Vienna, dove ero andato per assistere a quell’ultimo concerto: il direttore ufficiale dell’orchestra prese il suo posto.

Zappa e Muti potrebbero sembrare molto differenti ma, a pensarci bene, sono molto simili. Uso il presente anche se Zappa non c’è più da troppo tempo. L’ultimo tour di Zappa con un’orchestra rock risale al 1988. Provarono per mesi, prima di iniziare il tour, e ogni sera lo spettacolo era differente. I musicisti avevano imparato più di 120 pezzi ed erano in grado di passare da uno all’altro ad un gesto della mano di Frank che, durante il tour, scrisse altri pezzi, arricchendo il programma.

Che differenza c’è tra i due? Zappa dirigeva la musica che lui stesso aveva scritto, strumento per strumento, e sapeva esattamente cosa si dovesse sentire. I compositori delle musiche suonate dalle orchestre dirette da Muti non ci sono più da molto tempo, e non sono lì a giudicare il valore delle esecuzioni. Giudicano i critici, e il pubblico. Non esistono registrazioni originali di quelle musiche, non c’era la tecnologia per realizzarle. Non sappiamo cosa veramente volesse sentire il compositore. Il direttore d’orchestra ne diventa l’interprete e prende il suo posto nel dire ai musicisti cosa devono far sentire a chi ascolta.

Per quel che mi riguarda, purtroppo, non ho un’educazione musicale tale da permettermi di capire le differenze, ma quella lezione di Muti, per un breve momento, mi mise in grado di capire. Ora almeno so cosa mi perdo quando ascolto musica, e capisco la necessità, più volte invocata da Muti, di promuovere maggiormente l’educazione musicale nel nostro paese. Magari eseguendo nei teatri anche la musica di compositori che si allontanino dai canoni estetici più tradizionali.

Il compositore moderno si rifiuta di morire. Questa frase di Edgar Varése, grande ispiratore di Zappa, richiama la necessità di eseguire musica “nuova”, man mano che viene composta.

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Jim Morrison, a 50 anni dalla morte tre fatti e un sogno da leggere

Il 3 luglio 1971 se ne andava a 27 anni James Douglas Morrison, per tutti Jim. Frontman e poeta dei Doors, voce di un’intera generazione. Un’icona abbracciata al suo tempo al punto da diventare immortale e cambiare la musica al pari di Mozart, dei Beatles o di Nina Simone. Ma come si fa a raccontare una figura così? Probabilmente è impossibile, e allora forse è meglio tratteggiarla soltanto. Con tre piccoli scatti, come polaroid, per provare a riviverlo un po’.

Come nasce uno sciamano – 1947 o 1948. Suppergiù

C’è ancora un’aria fresca, ma già il sole si sta alzando mentre un’auto mangia la strada che pare una biscia scura tra la sabbia rossa del deserto. È una di quelle macchine con cui il vecchio Henry Ford ha fatto camminare mezza America e a bordo c’è tutta una famiglia. Anche un bambino di quattro o cinque anni, che ha il viso assonnato e la testa che pare un fiore al vento quando sente i freni urlare. Un autocarro con a bordo un gruppo di indiani Navajo ha fatto un brutto incidente proprio davanti a loro e adesso per strada se ne stanno sparpagliati dei corpi sanguinanti. È così che per il piccolo James arriva il primo assaggio di morte. O almeno è così che amava raccontare. Quel giorno, tra la carne martoriata, però, c’era anche un vecchio sciamano e Morrison si è convinto che lo spirito di quello stregone gli sia entrato in corpo, indirizzando per sempre la sua vita… È bello credere alle favole e anche alle menzogne, ma certe storie suonano così stupide… A segnare Jim non è stato nessuno stregone, piuttosto quell’infanzia da ramingo, senza un ciottolo da chiamare casa e con amicizie sciolte a ogni trasloco. Tutta “colpa” di suo padre, ammiraglio della marina trasferito di anno in anno da un costa all’altra degli Stati Uniti. Un uomo algido, con cui James faticava persino a parlare e con cui non scambierà più neppure uno sguardo dal 1964, quando – a 21 anni – si trasferirà a Los Angeles per studiare cinema alla UCLA. Più che alle immagini, tuttavia, il cuore di Morrison era promesso alle parole. A quelle che ardevano nei romanzi di Jack Kerouac e nelle poesie dei francesi maledetti. A quelle che gli ronzavano in bocca, fino a fargli masticare una canzone. Un anno dopo il suo arrivo in California, salirà così per la prima volta su un palco. E lo farà quasi per gioco, tirato in mezzo da un compagno di studi che suonava il pianoforte e che portava un paio di occhialoni tondi. Il nome di quel tastierista era Ray Manzarek e la band fu introdotta come The Doors. Quando James cominciò a cantare in pochi sapevano del suo passato e c’era pure chi lo credeva orfano. Ma tutti, in quell’istante, si ricordarono dell’incidente, degli indiani e di quella storia che James amava raccontare e che d’un tratto non sembra più così stupida… perché di fronte a loro era appena apparso uno sciamano: lo sciamano del rock.

Tra lucertole e iguane – Autunno 1967

Per entrare serve la tessera. È la festa di inizio anno all’Università del Michigan e sono stati invitati a suonare i Doors, che hanno appena fatto il botto con l’omonimo album di debutto e hanno pure un vinile fresco di stampa. Si intitola Strange Days e sta azzannando le radio e le classifiche americane. Un gruppetto di ragazzi si fruga in tasca, ma non trova niente. Uno è più fortunato: “James Newell Osterberg Jr – Facoltà di Antropologia”. A dire il vero quella tessera è soltanto un vago ricordo, il giovane Osterberg ha abbandonato gli studi da un pezzo, ma nessuno se ne accorge. È fatta. La palestra è intrisa di fumo e di gente. Sul palco se ne sta Jim Morrison, fasciato da un paio di pantaloni in pelle, che sembra una lucertola. È completamente ubriaco, si muove poco e canta con un fastidioso falsetto. Il pubblico rumoreggia e chiede a gran voce Light my fire. Lui li insulta e manca un niente che lo lapidino. Può un tizio ubriaco cambiarti la vita? Sì, se si chiama Jim Morrison. Almeno secondo James Osterberg, che quella sera è tornato a casa con un nome e se n’è trovato subito uno nuovo, Iggy Pop, folgorato da quel tale che sembrava sfidare il pubblico con ogni suo gesto. Quello che sarà poi il leader degli Stooges, tuttavia, non è certo l’unico ad essersi lasciato attraversare dall’energia di Jim. Perché assistere a un concerto dei Doors in quegli anni era come iniettarsi una dose di “qui e ora”. Con le sue performance, infatti, Morrison trasmetteva il senso di un’epoca che probabilmente lui stesso faticava a sopportare. A un tratto provocatorio, a un tratto poetico, la sua era una liturgia che sprigionava quella sensualità che la società americana voleva a nascondere sotto al tappeto e che qui era invece pronta a detonare. Passando da esibizioni al limite dell’erotico a veri e propri comizi che si traducevano in risse, arresti, denunce e aggressioni alla polizia. Morrison però era molto di più. Impugnato il microfono si trasformava, la sua voce si faceva più cupa e il suo sguardo sembra fuggire. Come nell’ultima data europea dei Doors: il concerto dell’Isola di Wight, nell’agosto 1970, immerso in un’oscurità illuminata appena da una luce rossastra. E Jim immobile, come all’Università del Michigan. Questa volta, però, niente falsetto, ma una voce così intesa che poteva cambiarti la vita.

Continuare a invecchiare – 2 e 3 luglio 1971

“Che peccato invecchiare, Robert Mitchum non era niente male a trent’anni”, lo pensa una ragazza con i capelli rossi e il viso sottile mentre lo schermo proietta la scena finale di Notte senza fine. E Robert Mitchum non era niente male. Accanto a lei c’è il suo fidanzato, forse le cose non vanno benissimo di recente ma il soggiorno a Parigi li sta aiutando. Lui scrive e beve molto, lei ha altri demoni. Tutto sommato si amano. Usciti dal cinema vanno a mangiare in un ristorante cinese in rue Saint-Antoine. È squisito ed è ormai l’una di notte quando rientrano e ingannano un altro po’ il tempo prima di mettersi a dormire. Il sonno della ragazza è agitato, il suo fidanzato non sta bene. Non avrà digerito oppure sarà quella brutta tosse che si porta appresso da un po’. Lo aiuterà un bagno caldo, poi tornerà a letto. E intanto la ragazza chiude gli occhi e si addormenta. Quando li riapre è già mattina e la metà del letto accanto a lei è fredda e vuota. La morte di Jim Morrison fu constatata alle 11 di mattina del 3 luglio 1971. Il corpo esanime del cantante giaceva nella vasca da bagno dell’appartamento in Rue de Beautreillis che da qualche mese condivideva con Pamela Courson, la ragazza coi capelli rossi e il viso sottile che gli era stata accanto sin dagli inizi della sua avventura coi Doors. Nel referto ufficiale si parla di infarto, nulla più. Ma la mancata autopsia e alcune incongruenze nelle testimonianze hanno lasciato spazio a una serie infinita di congetture. C’è chi parla di overdose di eroina – non così impossibile dato che Pam tre anni più tardi andrà in contro proprio a questa morte – e chi è arrivato a scomodare la CIA, vedendo nella scomparsa a stretto giro di Brian Jones, Alan Wilson, Jimi Hendrix, Janis Joplin e appunto Morrison un piano del presidente Nixon per distruggere il movimento giovanile. Resta, però, un’altra ipotesi a cui è bello credere. Un’idea alimentata anche da Ray Manzarek secondo cui da tempo James Morrison fantasticava di inscenare la propria morte. Per rilanciare le vendite della band – un po’ in flessione nonostante la buona accoglienza riservata all’ultimo disco, L.A. Woman (1971) – e per andarsene in Africa come l’amato Arthur Rimbaud. Magari alle Seychelles, lasciando tutto per continuare a invecchiare.

Twitter: Ocram_Palomo

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Mahmood, dal ghetto all’Olimpo oggi in diretta Facebook alle ore 15 con Claudia Rossi e Andrea Conti

Dopo l’album “Gioventù Bruciata” (disco di platino) e il successo di “Soldi” (quadruplo disco di platino) con cui ha vinto la 69esima edizione del Festival di Sanremo e si è classificato secondo a Eurovision Song Contest 2019 , Mahmood è tornato con il nuovo progetto discografico, “Ghettolimpo”. Il cantautore è ospite mercoledì 16 giugno dalle ore 15 del talk “Programma” condotto da Claudia Rossi e Andrea Conti, in streaming su Facebook e YouTube di FqMagazine.it de Il Fatto Quotidiano.

L’album contiene anche le tracce “Rapide” e “Dorado”, con cui Mahmood ha dominato le Top 10 nel 2020, arrivando a collezionare ad oggi un totale di 16 dischi di platino, 5 dischi d’oro e oltre 400 milioni di streaming. Il disco è stato anticipato dal singolo “Inuyasha” (disco di platino), da “Klan”(nel video l’artista balla per la prima volta su coreografie di Carlos Diaz Gandia) e “Zero”, brano che fa parte della colonna sonora dell’omonima serie originale Netflix di cui ha curato anche un episodio come music supervisor. Nella tracklist collaborazioni importanti come quella con Elisa in “Rubini” e con Woodkid in “Karma”. Con la supervisione artistica di Dardust che lo accompagna fin dagli inizi, Mahmood ha inoltre coinvolto produttori come MUUT, Francesco Fugazza, Francesco “Katoo” Catitti e autori quali Davide Petrella, Salvatore Sini. Ogni canzone rappresenta un universo popolato di dei e svariate figure, dove si uniscono le suggestioni tratte dai miti greci insieme alle esperienze di eroi moderni che vivono la loro quotidianità.

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Concertone Primo Maggio, Fedez protagonista. Chadia sul palco in topless per la “libertà di amare chi vuoi”. E Venditti omaggia Berlinguer

L’edizione 2021 del Concertone del Primo Maggio si è svolta all’insegna dei lavoratori, delle riflessioni legate alle difficoltà della pandemia e soprattutto con un messaggio di speranza per la ripresa di tutti i settori. Lo show – condotto da Ambra Angiolini, Stefano Fresi e Lillo – che è durato sei ore si è svolto alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma e non, come avviene tradizionalmente, in Piazza San Giovanni per i protocolli di sicurezza anti-Covid.

Con “Dolce Enrico” del 1991, Antonello Venditti ha aperto il segmento serale del Concertone, in collegamento da piazza San Giovanni. Un omaggio e un ricordo del leader del Pci Enrico Berlinguer, i cui funerali si tennero proprio in quella piazza. Il cantautore non aveva mai partecipato alla manifestazione del Primo Maggio, l’anno scorso era stato molto critico con la decisione di portarla avanti nonostante la pandemia e i morti. Infine Venditti ha intonato uno dei suoi brani più popolari: “Notte prima degli esami”.

Il vero protagonista della kermesse è stato Fedez con un monologo iniziato con le richieste per il mondo dello spettacolo al premier, con tanto di destinatario, “caro Mario”, e terminato con l’attacco alla Lega sul ddl Zan. “È la prima volta che mi succede di dover inviare il testo di un mio intervento perché venga sottoposto ad approvazione politica, approvazione che purtroppo non c’è stata in prima battuta, o meglio dai vertici di Raitre mi hanno chiesto di ometterne dei partiti e dei nomi e di edulcorarne il contenuto”, aveva spiegato il rapper sui social prima di salire sul palco. Quello che ha fatto discutere internamente la direzione è stato proprio il passaggio relativo alla legge contro l’omofobia: “Questa era la parte approvata, ora arriva la parte forte… – ha spiegato il rapper dal palco dopo il primo passaggio sui lavoratori dello spettacolo – Due parole sull’uomo del momento, il sonnecchiante Ostellari”, ha detto riferendosi all’esponente leghista, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, che, dopo una lunga battaglia, ha deciso di incardinare il ddl Zan sull’omofobia ma tenendo per sé il ruolo di relatore. “Ha deciso che un disegno di legge di iniziativa parlamentare come il ddl Zan, già approvato alla Camera, può essere bloccato dalla voglia di protagonismo di un singolo, cioè se stesso. D’altronde Ostellari fa parte di uno schieramento che si è distinto negli anni per la lotta all’uguaglianza. Qualcuno come Ostellari ha detto che ci sono altre priorità rispetto al ddl Zan” compreso ‘il vitalizio di Formigoni’ che è “più importante della tutela dei diritti di tutti”. Quindi, la chiusura: “Il presidente dell’associazione Pro Vita, l’ultracattolico e antiabortista Jacopo Coghe, è stata la prima voce a sollevarsi contro il ddl Zan ma non si è accorto che il Vaticano ha investito più di 20 milioni in un’azienda farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo. Cari antiabortisti, non vi siete accorti che il nemico ce l’avevate in casa”. Al termine dell’intervento la Rai ha diramato una nota: “È fortemente scorretto e privo di fondamento sostenere che la Rai abbia chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al tradizionale concertone del primo maggio per il semplice motivo che è falso si tratta di una cosa che è ma avvenuta”. Subito “smentita” da Fedez che ha pubblicato la telefonata con la vice-direttrice di Rai3 Ilaria Capitani. Video in poco tempo diventato virale.

Sempre in tema di lotta contro l’omotransfobia nel pomeriggio Chadia Rodriguez, sul palco dell’Auditorium con Federica Carta, si è tolta giacca e la t-shirt durante l’esecuzione di “Bella Così”, rimanendo in topless con l’arcobaleno dipinto sui capezzoli. “Viva la libertà d’amore e l’amore di essere liberi di amare chi vogliamo e come vogliamo”, ha detto la cantante di origini marocchine al termine dell’esibizione. “Sentitevi sempre liberi di essere voi stessi e di amare chi volete”, ha aggiunto Federica Carta.

Noel Gallagher ha cantato in collegamento da Londra: “Ci siamo sempre divertiti moltissimo al concerto del Primo Maggio. Io, tra l’altro, adoro venire in Italia e suonare per il vostro pubblico. Di certo preferirei essere lì di persona. È bello esserci, ma è anche un po’ triste perché mi manca l’elemento umano – ha detto – Comunque è sempre bello suonare per voi, anche se in maniera diversa”. Ha aggiunto: “Avevo già deciso di usare quest’anno per scrivere e il prossimo per registrare, per poter suonare dal vivo, si spera, nel 2023. Ma rimanere un anno intero, o forse due o tre, chi lo sa, senza poter godere un concerto dal vivo sono sicuro che sia stata dura per le persone”. Piero Pelù ha proposto “We Will Rock You” dei Queen per omaggiare i lavoratori dello spettacolo. Max Gazzè con la Magical Mystery Band (Daniele Silvestri, Fabio Rondanini, Gabriele Lazzarotti, Duilio Galioto, e Daniele Fiaschi e Daniele “Il Mafio” Tortora) ha omaggiato l’amico di una vita Erriquez, voce e anima della Bandabardò, scomparso lo scorso 15 febbraio.

LA SCALETTA DEL CONCERTONE Dalle 16.30 L’Orchestraccia (Piazza San Giovanni Roma)Alex BrittiModena City Ramblers (da Industria Italiana Autobus – Bologna)Y-NotCargoMarte MarascoNeno 17.00 circa: Premiazione Cargo vincitore 1MNEXTChadia Rodriguez ft. Federica CartaOrchestra Multietnica di Arezzo con Margherita Vicario (dal Teatro Petrarca)Ginevra – Gio Evan (aeroporto di Linate)FolcastVasco Brondi (La casa degli Artisti Milano)WrongonyouGaia (MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma)Nayt – Après La Classe & Sud Sound System (Taranto)FasmaThe Zen Circus (Torre della Meloria) – Bugo Il TreTre Allegri Ragazzi Morti (Andreis, Pordenone)GaudianoMottaOra 18.55 lancio TGDalle 20.00 Piero PelùLa Rappresentante di Lista (Termini Imerese, Palermo)Coma_CoseDalle 20.30Antonello Venditti (Piazza San Giovanni Roma)Ermal MetaMadameColapesce Dimartino (Officine Meccaniche Milano)Claudio Capéo e Gianna NanniniDalle 21.30FedezFrancesca Michielin – Noel Gallagher (da Londra)Max Gazzè & the Magical – Mystery BandMax Gazzè + Pelù e Finaz per omaggio a ErriquezEdoardo BennatoMara SatteiLP (da Los Angeles)Fabrizio Moro con Vinicio Marchioni e Giacomo FerraraDalle 22.40Noemi – Francesco RengaFast Animals and Slow Kids & Willie PeyoteGhemonEnrico Ruggeri (da Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo)Michele BraviBalthazar (Belgio)ExtraliscioL’Orchestraccia (Piazza San Giovanni Roma)

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Golden Globe 2021, Laura Pausini trionfa con Io sì (Seen). La prima volta per una canzone italiana

Una prima volta per l’Italia, un evento. Una canzone tutta italiana che vince il Golden Globe. Il trionfo arriva grazie a Laura Pausini con Io sì (Seen) premiata per la migliore canzone originale. L’annuncio è stato dato nel corso della cerimonia di premiazione della Hollywood Foreign Press. Il brano, frutto della collaborazione tra la Pausini, Diane Warren e Nicolò Agliardi, è la colonna sonora del film La vita davanti a sé del regista Edoardo Ponti con (la madre) Sophia Loren.

Nel corso della diretta sulla Nbc la cantante, in collegamento da casa con camicia rossa e sorriso scintillante, ha detto “grazie mille”, ma poco dopo sul suo profilo Instagram, in inglese, la Pausini ha scritto: “Non ho mai sognato di vincere un Golden Globe, non ci posso credere. Grazie mille alla Hollywood Foreign Press Association”. “Voglio ringraziare Diane Warren dal profondo del mio cuore. È un onore incredibile – ha proseguito l’artista – poter ricevere un tale riconoscimento per la nostra canzone, e il fatto che sia la nostra prima collaborazione lo rende ancora più speciale. Grazie all’incredibile team Edoardo Ponti, Niccolò Agliardi, Bonnie Greenberg. Grazie a Netflix e Palomar production”. L’artista non ha mancato di ringraziare la protagonista del film.

“Tutta la mia gratitudine e il rispetto per la meravigliosa Sophia Loren – ha scritto la cantante sul social – è stato un onore dare voce al tuo personaggio, per trasmettere un messaggio così importante, di accoglienza e unità. Dedico questo premio a tutti coloro che vogliono e meritano di essere visti. A quella ragazzina che 28 anni fa vinse Sanremo e non si sarebbe mai aspettata di arrivare così lontano. All’Italia, alla mia famiglia, a tutti coloro che hanno scelto me e la mia musica e mi hanno reso quello che sono oggi. E alla mia bellissima figlia, che da oggi vorrei ricordare la gioia nei miei occhi, sperando che cresca e continui sempre a credere nei suoi sogni”.

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Il vinile torna a furoreggiare grazie alla Rete: è il mercato, baby

Da qualche anno il vinile è tornato a furoreggiare. Quantomeno questa è la sensazione degli appassionati di musica. Un’impressione, va detto, viziata dalla vicinanza affettiva con il tema in questione. Cosa intendo? Così come un ipocondriaco fa caso a qualsiasi respiro notandone minime differenze con il precedente, così un appassionato che vive l’ambiente musicale avrà delle sensazioni più solerti su variazioni minime del mercato.

La verità, in Italia, sta nel mezzo: nel primo semestre del 2019 (come comprovato dal report di Fimi) il vinile ha rappresentato il 31% del mercato delle vendite fisiche, che a loro volta hanno rappresentato il 27% del mercato discografico italico. Che è sempre più trainato dallo streaming, che rappresenta il 73% del mercato, ma non ha lo stesso peso nelle tasche degli artisti.

Tornando al vinile, parte del riscontro che sta avendo – anche sulle giovani generazioni, nonché sulla riaccensione della passione tra gli aficionados d’antan – è dovuto alla veicolazione online. Decisamente in linea con i tempi è la disamina di Johnny con il suo canale YouTube Vinilicamente. Forte di una community attiva ed affezionata, l’appassionato toscano – che vive vicino Firenze – promuove la cultura vinilica parlando, come dice in ogni video, di “musica a 360 gradi”. E che sia proprio così è facile riscontrarlo tanto nei filmati del format Dischi in uscita quanto in quelli dedicato ad un altro formato, intitolato I miei vinili.

Chi ama questo supporto non potrà che godere seguendo le numerose disamine su stampe e ristampe (da vedere quella dedicata a Epica Etica Etnica Pathos dei CCCP, con tanto di intervista ad Alessandro Cutolo di Elettroformati, che si è occupato della rimasterizzazione), ma pure gli speciali su cuffie e impianti (molto interessante quello su cosa acquistare a meno di 2000 euro). Johnny non è l’unico a parlare di vinili, intendiamoci, ma lo fa con un’etica del lavoro, con una cultura musicale e con una capacità tecnica notevoli. Lo trovate intervistato anche nel libro di prossima uscita Rocker & Youtuber, acquistabile su Produzioni dal Basso.

Sempre legato al web è il discorso relativo ad un documentario, originario del 2018 ma disponibile da poco su Amazon Prime, e quindi più in vista che in passato. Si intitola Vinilici e contiene decine di testimonianze di addetti ai lavori e musicisti. Tra le più interessanti segnalo quelle di Carlo Verdone, collezionista vero, che narra anche di una pruriginosa storia capitata alla sua copia di Led Zeppelin III. Non mancano l’immarcescibile Red Ronnie (che peraltro proprio sul web, su YouTube, dà seguito alla sua carriera televisiva), Elio e le Storie Tese e Lino Vairetti degli Osanna. Ne esce un racconto del vinile romantico, vivace, intelligente. Si tratta anche di un bel modo per cominciare a capire meglio questo mondo, oltre che per curiosare nella collezione di alcuni collezionisti.

Tornando al discorso sul mercato discografico attuale, ed incrociandolo con quello, molto sentito, del guadagno per l’artista, va da sé che un vinile, venduto ad un prezzo medio di 20 euro, sia foriero di maggiori guadagni sulla singola vendita del prodotto. Partiamo dal presupposto che, togliendo i costi di stampa su qualche centinaio di copie, l’artista intaschi circa 10 euro. Per pareggiare tale cifra con gli streaming su Spotify servono l’equivalente di circa 3100 ascolti. Per pochi, sicuramente non per tutti.

E quando scrivo questo non penso certo a Paul McCartney, Taylor Swift o i Pink Floyd; bensì alle migliaia di band che potrebbero raggiungere qualsiasi cifra – come vogliono far credere tanti guru da anni – ma non lo fanno. Il mercato è questo, prendere o lasciare, baby.

Ps. Lo stesso concetto, con cifre diverse, vale per il cd.

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Ennio Morricone ci ha dato la sua più grande lezione sulle cose importanti della vita: chapeau!

Ennio Morricone se ne è andato ora, a luglio. Questo bislacco 2020, che ha imposto il silenzio a teatri, cinema e sale da concerto, ha zittito anche lui, per sempre. Morricone ha attraversato gran parte del Novecento – era del 1928 – e un ventennio del secolo XXI. Un periodo lungo, fitto di storia, di guerre, di disastri, ma anche di conquiste scientifiche e innovazioni artistiche: se la musica ha toccato grandi vette, il cinema, la decima musa, ha mostrato quale forza, quanta seduzione può sprigionarsi dalle immagini in movimento.

Se le due arti si combinano, può avvenire il miracolo. La musica sottolinea, amplifica, enfatizza, e talvolta contraddice o smentisce, quel che voci, gesti, atteggiamenti dicono in maniera aperta o allusiva. Esagerando un po’: dall’invenzione della colonna sonora, il film difficilmente reggerebbe senza corredo musicale; ma vale anche il reciproco: solo in rari casi la colonna sonora musicale regge senza il film.

Con le proprie risorse la musica contribuisce a strutturare la visione, sopperisce al colore sentimentale e al ritmo – esteriore e interiore – della narrazione filmica. A sua volta il ‘passo’ narrativo dell’azione, del dialogo, delle inquadrature e sequenze entra in risonanza con il ‘passo’ della musica. È un rapporto vuoi di convergenza e consentaneità, vuoi di dissonanza e distacco, per il quale si ricorre talvolta anche alle musiche di compositori ‘classici’, scritte per motivi totalmente diversi. Un caso paradigmatico è l’uso che Stanley Kubrick fa di Beethoven e Rossini in Arancia meccanica o di Strauss in 2001 Odissea nello spazio.

Dal 1961 Morricone ha servito queste due dee congiunte, musica e cinema: con frutti copiosi. L’artista proveniva da una formazione musicale severa: aveva studiato tromba, strumentazione per banda, direzione di coro, composizione con Goffredo Petrassi: e ha toccato da vicino tanti generi musicali, dal jazz alla musica d’avanguardia alla canzone. Ha fatto parte di Nuova Consonanza, ha prodotto arrangiamenti d’ogni specie. Ma i riconoscimenti maggiori gli sono venuti proprio dal mondo del cinema.

Un campo, tra parentesi, che soprattutto tra i russi annovera giganti come Prokof’ev, Šostakovič, Vajnberg, Schnittke. E di costoro alcune partiture filmiche funzionano anche in sala da concerto: gli esempi classici sono Aleksandr Nevskij di Sergej Prokof’ev (regista Sergej Ejsenštein), e La nuova Babilonia di Šostakovič (film di Grigorj Kozincev e Leonid Trauberg).

L’incontro di Morricone con Sergio Leone è stato epifanico per entrambi. Il ‘western all’italiana’, passato alla storia con una locuzione che al musicista non piaceva molto, è indimenticabile: Per un pugno di dollari (1964), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), C’era una volta il West (1968) rimangono indelebilmente nel ricordo d’ogni spettatore.

Restano negli occhi e nelle orecchie i desertici ‘campi lunghissimi’ sotto il sole accecante, l’attesa immota di un evento che grava come una minaccia – lo spettatore ignora quale sia e quando si verificherà, ma sa che accadrà –, il canto disteso di una voce fuori campo che colma lo spazio e fa traboccare l’anima. Ne risulta il senso spasmodico di una sospensione gravida di mistero.

Ci furono poi molte altre musiche per capolavori del cinema: La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966), Novecento di Bernardo Bertolucci (1976), Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (1988). Né mancarono interventi impegnati per occasioni dolorose: Non devi dimenticare (1998), in memoria delle vittime della strage del 2 agosto 1980 a Bologna; la cantata Per i bambini morti di mafia (1999) su testi di Luciano Violante. L’ultima sua composizione, Tante pietre a ricordare, sarà eseguita postuma a Genova per le vittime del crollo del ponte Morandi.

Innumerevoli le onorificenze e i premi: Leone d’oro alla carriera (1997), Oscar alla carriera (2007), Oscar per The hateful eight di Quentin Tarantino (2016), tre Golden Globe, nove David di Donatello. C’è però un’onorificenza in particolare che desidero menzionare: è la laurea honoris causa in Lingue e Letterature straniere conferitagli dall’Università di Cagliari (2000). Morricone tiene la sua lectio magistralis: a un certo punto si commuove, inghiotte le lacrime, biascica le parole. Quando conclude scatta l’applauso, lunghissimo.

Non è teatro: è realtà, e la si vede in un video. L’artista ricorda il senso del dovere cui sempre si è attenuto, ringrazia il suo maestro Petrassi, poi la moglie, i figli, i musicisti, l’Università. In pratica, le vere cose importanti della vita. Questa è davvero una lezione. Chapeau, Maestro!

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Ennio Morricone, il cinema piange un gigante con un ‘fare da bottega’

Scion scion… Alzi la mano chi non ha mai fischiettato il motivo di Giù la testa, il film che chiudeva nel 1971 la pentalogia con cui Sergio Leone aveva costruito il mito dello spaghetti-western, rigenerando, degenerando e destrutturando uno dei più grandi topoi della storia del cinema, quel western che aveva fatto la fortuna della storia e del cinema americani.

Non ci sarebbe stato quel mito se non ci fosse stato, accanto a Leone, Ennio Morricone. Il quale aveva la modestia dell’artigiano e la cultura musicale dell’allievo di Goffredo Petrassi, che lo invitava a non abbandonare la musica assoluta e la ricerca. Di Morricone si ricordano ora le grandi tappe di una carriera fulgida che lo ha portato a lavorare con molti dei più grandi autori del cinema italiano e internazionale: oltre a Leone, al quale la notorietà di Morricone è inestricabilmente legata, i fratelli Taviani e Pasolini, Petri e Tornatore, Argento e Citti, e poi ancora Almodóvar e Tarantino, Polanski e De Palma e mille altri.

Non era facile lavorare con giganti di quel calibro, che naturalmente avevano a volte pretese imperiose che cercavano di far valere: Morricone ricordava di essersi rifiutato di sottostare alla richiesta di Pier Paolo Pasolini di inserire una lista di temi nella colonna sonora di Uccellacci e uccellini. “È venuto dalla persona sbagliata”, replicò il maestro. E Pasolini dovette fare marcia indietro. La musica infatti doveva essere autonoma rispetto al film, trovare la consonanza emotiva, caricare il film di senso senza tuttavia sopraffarlo. E il lavoro del musicista doveva essere altrettanto autonomo per ottenere questo risultato.

Nel rivendicare l’autonomia del compositore rispetto al regista, Morricone però manifestava anche il suo tributo ai film che erano la fonte del suo lavoro: “Non c’è una musica importante senza un grande film che la ispiri”, dichiarò in occasione della vincita del premio Oscar per The Hateful Eight di Quentin Tarantino nel 2016. Con ciò mostrando, accanto alle qualità che rendevano riconoscibile la sua firma musicale, anche la modestia di chi sapeva usare i suoi strumenti con un fare da bottega. Quel fare artigianale che con naturalezza gli faceva dichiarare recentemente, forse nell’ultima intervista pubblica, che la musica la scriveva al pomeriggio, come fosse il risultato di una scansione metodica della giornata e della vita.

Forse però il suo atteggiamento verso la vita, il suo mestiere e i suoi affetti li ha rivelati, inaspettatamente, proprio in occasione del suo necrologio, scritto con sincera umiltà in prima persona. Scelgo un funerale in forma privata perché non voglio disturbare; e ancora, a mia moglie Maria il più doloroso addio: c’è un velo di dignitosa malinconia in questo congedo, lo stesso velo che percorre le grandi musiche di Morricone nei film che lo hanno reso celebre, dal tema di C’era una volta il West alla Scuola di ballo al sole di Uccellacci e uccellini, fino al tema di C’era una volta in America.

Raccontava Sergio Leone che quel film lo stava girando in presa diretta, dunque senza la possibilità di mettere musiche in scena. Robert De Niro però gli chiese, in occasione di qualche scena particolarmente emotiva, di tenere sotto la musica di Morricone, perché l’avrebbe aiutato a trovare il tono giusto della scena.

Il cinema oggi piange uno dei suoi più grandi artisti. Anche per noi ci vorrebbe la sua musica per aiutarci a trovare il tono e le parole giuste per ricordarlo. Che la sua musica continui ad accompagnarci sollevandoci dolcemente dalle fatiche del vivere.

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Vasco Rossi e le confessioni che non ti aspetti: “Le scale per entrare in carcere come quelle per un palco irripetibile. Non lo farò mai più”

A pochi giorni dallo speciale di Rai Uno “La Tempesta Perfetta” di Giorgio Verdelli (in onda il primo luglio alle 20:35) per ricordare il grande evento Modena Park, Vasco Rossi si è raccontato in una lunga intervista, raccolta dal giornalista e fotografo Armando Gallo. L’incontro sarà testimoniato dal libro “One Way Ticket”, in uscita nel 2021. Il settimanale Oggi ha pubblicato ampi stralci dell’intervista, in cui emerge un Vasco senza filtri, che racconta la sua intimità e i momenti difficili degli anni passati.

Il ricordo va subito al mega evento Modena Park di tre anni fa: “Avevo davanti gli scalini che mi avrebbero portato sul palco e mi sono ricordato quando andai dentro, quando mi misero in galera che dovevo salire le scale per entrare in carcere. – ha detto Vasco – E mi è venuto da ridere. Sempre scale sono, ho pensato. Poi ho preso il microfono e sono salito, lentamente, inebriato da un grande senso di soddisfazione per essere stato capace di tenere duro per tutti questi anni, per essere riuscito a trasformare tutte le avversità in successi”.

C’erano duecentomila persone, accorse da tutta Italia, per applaudirlo: “Una cosa, capito, che se fosse successo a Londra o a New York, ma anche a Roma o a Milano probabilmente, ne avrebbero parlato i Tg di tutto il mondo. Ma va bene così, mi tengo stretto un senso di soddisfazione grandissimo perché tutto ha funzionato senza il minimo intoppo, anche sotto il profilo dell’ordine pubblico… ‘La tempesta perfetta’. Una cosa del genere non sarà neanche più ripetibile, io sinceramente non lo farò mai più”.

Vasco ha anche ricordato quando, qualche anno fa, ha fatto preoccupare la famiglia e i suoi fan: “Non ero mai stato in ospedale prima, non ero mai stato malato per più di tre giorni. Ho scoperto il mondo della malattia, del dolore, della sofferenza. È stata un’esperienza grande e terribile, ma questo l’ho capito dopo. Quando, dopo aver cominciato a sentirmi meglio, ho rivisto il mondo con occhi diversi… Adesso ho molta più consapevolezza”.

Nello speciale “La Tempesta Perfetta” su Rai Uno sarà mostrato tutto il materiale dei vari backstage, dei social e una documentazione accurata per rivivere l’evento a 360 gradi: dall’arrivo di Vasco girato dall’elicottero su cui viaggiava, a quello dei fan, alle immagini dei droni sull’enorme area circostante. Una intervista realizzata da Giorgio Verdelli farà da filo conduttore al programma, con Vasco che racconterà il concerto ed i momenti più emozionanti, mescolando il presente di oggi con le tensioni di 3 anni fa, con i gravissimi incidenti di Torino e l’attentato terroristico al concerto di Ariana Grande a Manchester. Il docu-film è anticipato da cinque speciali, il primo è andato in onda il 9 giugno, seguiranno poi il 27, 28, 29 e 30 giugno, sempre alle 20.35 su Rai Uno.

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