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Caso Amara, il procuratore di Milano Greco indagato a Brescia per il ritardo nell’apertura del fascicolo sui verbali dell’ex legale Eni

Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato dalla procura di Brescia per aver ritardato l’apertura dell’indagine nata dalle dichiarazioni fornite da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, sulla presunta “loggia Ungheria”, un’associazione segreta di tipo massonico capace di influire sulle nomine pubbliche, composta da magistrati, alti funzionari e avvocati, tra cui lo stesso Amara. Il reato contestato è l’omissione d’atti d’ufficio. L’apertura del fascicolo è un atto dovuto in seguito alla denuncia del sostituto Paolo Storari, a propria volta indagato dalla magistratura bresciana per rivelazione di segreto d’ufficio per aver trasmesso i verbali di Amara all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo, lamentando l’inerzia dei propri capi, Greco e la procuratrice aggiunta Laura Pedio. Le dichiarazioni di Amara, infatti, erano datate dicembre 2019, mentre l’iscrizione è arrivata sono il 12 maggio 2020.

Giovedì il procuratore Greco, in una lettera inviata ai colleghi, ha accusato Storari di “menzogne, calunnie e diffamazioni in relazione alla vicenda dei verbali. “Altro è difendersi – ha scritto – altro è lanciare gravi e infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio, non astenendosi, tra l’altro, da una indagine su un fatto in cui si è personalmente coinvolti“. Il riferimento è al fascicolo sulla fuga di notizie aperto dopo che Antonio Massari, giornalista del Fatto, riferì a Storari di aver ricevuto una copia anonima dei verbali di Amara. Il pubblico ministero, che aveva consegnato i documenti a Davigo, condusse la relativa indagine insieme all’aggiunta Pedio, senza astenersi e senza far parola della propria iniziativa.

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Rho, arrestato per omicidio volontario l’ex compagno della 25enne Tunde Blessing

Tunde Blessing venne uccisa lo scorso 3 maggio e il suo cadavere lasciato non lontano dalla strada dove si prostituiva. Questa mattina, i carabinieri del comando provinciale di Milano hanno eseguito l’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del suo ex fidanzato, un 34enne di origine ghanese. Il corpo della ragazza, 25enne di origini nigeriane, era stato trovato il 12 maggio nella periferia di Rho, nell’hinterland milanese. La sua identificazione è stata possibile grazie alla tessera sanitaria che sbucava dalla sua borsa abbandonata accanto al cadavere e quando gli investigatori hanno inserito il nome nel database hanno scoperto che risultava una denuncia di scomparsa del 7 maggio.

Stando alle informazioni rilasciate dalle forze dell’ordine, l’uomo aveva raggiunto Tunde Blessing nella zona dove si prostituiva, strangolandola con un elastico. Dopo aver sottratto alla ragazza il denaro contante che aveva con sé, aveva preso i due cellulari che erano nella borsa di lei, portandoli lui stesso a Novara, nell’appartamento della ragazza, presumibilmente per provare a depistare le indagini. La misura cautelare è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano, su richiesta della procura. L’uomo è ritenuto responsabile di omicidio volontario e furto.

Le ricostruzioni – Il ghanese, identificato fin da subito dai carabinieri come un possibile sospettato, aveva ammesso la sua estrema gelosia già dai primi interrogatori. “Sono una persona gelosa! – riporta Repubblica.it che cita alcuni passaggi del suo interrogatorio io non voglio che la mia ragazza, ad esempio, abbia il numero di telefono di altri uomini”. Nella stessa circostanza, pare anche che l’uomo avesse millantato il fatto che la ragazza fosse incinta di un bambino concepito quattro mesi prima proprio con lui.

“Mi ha detto che suo papà non voleva che sposasse un ghanese – ha continuato l’uomo – e quindi mi ha mandato via da casa”. In merito alla sua gelosia, poi, ha detto “Se Tunde aveva bisogno dì qualcosa doveva chiedere solo a me”. Tanto che il gip scrive: “La visione che ha l’indagato delle relazioni sentimentali è caratterizzata da un ossessivo controllo dell’altro, da insofferenza e mancata accettazione di qualsivoglia forma di autodeterminazione delle persone a sé legate sentimentalmente”. Inizialmente, l’uomo ha affermato di non sapere che la ex fidanzata fosse morta, al contrario di quanto aveva confidato agli amici, come raccontano le intercettazioni. Nella speranza di crearsi un alibi, l’uomo ha detto poi di non essere a Rho il 3 maggio, il giorno in cui la ragazza è stata uccisa. A inchiodarlo è stato però il sistema di videosorveglianza di un’azienda poco distante dalla zona, che lo riprende lì all’ora di pranzo, accanto alla ragazza per mezz’ora.

Poi i due spariscono, assieme ai cellulari della vittima che verranno ritrovati nell’appartamento di lei. A riconoscere l’uomo sono stati i coinquilini della donna, che più volte l’avevano visto in casa e avevano assistito alle liti della coppia prima della rottura. “Se dovessi morire per le botte che prendo da lui, avrete il mio sangue sulla coscienza“, aveva risposto a un’amica che suggeriva di ricomporre.

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Eni Nigeria, dopo le polemiche procura e tribunale siglano la pace con un comunicato: “Il pm non vince e non perde i processi”

Il “pubblico ministero come organo di giustizia non vince e non perde i processi, ma in conformità alle norme costituzionali li istruisce”. È una nota firmata dal presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi, dal procuratore Francesco Greco e da altri vertici del Palazzo di Giustizia, che arriva dopo un incontro e sigla la “pace” dopo le polemiche dei giorni scorsi in seguito all’assoluzione degli imputati del processo Eni-Nigeria. “Il Giudice terzo (…) verifica la tesi dell’accusa e della difesa – si legge ancora – e decide in piena autonomia”.

Oltre al procuratore Greco all’incontro erano presenti i procuratori aggiunti Maurizio Romanelli ed Eugenio Fusco, il presidente vicario del Tribunale Fabio Roia e il presidente dell’Ufficio gip/gup Aurelio Barazzetta. Nei giorni scorsi, il presidente Bichi con una lettera indirizzata al collegio, che ha emesso la sentenza sul caso nigeriano, aveva difeso i giudici Tremolada (presidente), Gallina e Carboni. Missiva nella quale Bichi aveva preso una dura posizione nei confronti dei pm che hanno sostenuto l’accusa nel processo per “la gravità delle insinuazioni fatte circolare”, che hanno messo in dubbio “il carattere di terzietà” del collegio. Con un comunicato, poi, Greco aveva espresso il suo appoggio all’aggiunto Fabio De Pasquale e al pm Sergio Spadaro affermando di essere al loro “fianco”. Inoltre, ad alimentare le tensioni c’erano state le parole del sostituto pg Celestina Gravina nel processo d’appello a carico di due presunti mediatori nel caso Nigeria, la quale aveva addirittura stigmatizzato lo “spreco di risorse” nelle indagini.

Il comunicato di oggi sembra cercare di rasserenare il clima. “La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i principi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pubblico ministero come organo di giustizia – che dunque non vince e non perde i processi, ma in conformità alle norme costituzionali li istruisce -, del ruolo del Giudice terzo che verifica le tesi dell’accusa e della difesa e decide in piena autonomia interpretando le norme e applicandole alla luce dei risultati probatori acquisiti nel processo nel contraddittorio delle parti”.

E ancora: “Su questi principi vi è una comune e condivisa cultura che nessuna vicenda processuale o aspettativa terza potrà in alcun modo scalfire e mai è venuta meno, pur nell’ovvia autonomia e distinzione dei ruoli istituzionali e ordinamentali, anche in occasione di un recente e rilevante processo portato a termine nonostante accertati tentativi di influenza e condizionamento esterno, come acquisito nei procedimenti gestiti nelle sedi competenti”. L’ultimo riferimento è alle indagini in corso sul cosiddetto “falso complotto Eni” e alle dichiarazioni rese dall’ex legale esterno della compagni petrolifera Piero Amara, che hanno portato anche ad un fascicolo archiviato a dicembre a Brescia.

Proprio su questo particolare si era concentrato il comunicato di Francesco Greco la scorsa settimana offrendo l’appoggio totale perché “nonostante le intimidazioni subite hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza”. Una nota che si era resa necessaria proprio in riferimento “ai recenti articoli di stampa sul processo” e che hanno criticato, cercando di delegittimarla, la Procura milanese. I pm avevano chiesto pene fino a 8 anni per gli imputati, tra cui ad ex ad di Eni, e una confisca di oltre un miliardo.

Nella nota Greco ha voluto precisare che “in relazione ai recenti articoli di stampa”, che durante le indagini sulla presunta tangente nigeriana “sono stati imbastiti da un avvocato dell’Eni, presso la Procura di Trani e presso la Procura di Siracusa, due procedimenti finalizzati ad inquinare l’inchiesta” milanese “e a danneggiare l’immagini di alcuni consiglieri indipendenti” della compagnia petrolifera, “segnatamente Luigi Zingales e Karina Litvack; per taluni fatti specifici, gli imputati, tra i quali un magistrato, hanno ammesso gli addebiti e sono già stati condannati. Il procuratore, facendo sempre riferimento all’indagine sul presunto “complotto” ha aggiunto che “nell’azione di inquinamento, chi l’ha ideata e portata avanti ha anche cercato di delegittimare il pubblico ministero di Milano“. Greco, “nel ribadire che in materia di corruzione internazionale l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato italiano con la Convenzione Ocse di Parigi del 1997, è al fianco – conclude la nota – dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i quali nonostante le intimidazioni subite, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza”.

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Coronavirus, terzo caso in Tribunale a Milano: chiusa la Procura Generale. “È un sostituto procuratore, tanti contatti con avvocati”

C’è un terzo caso di positività in Tribunale a Milano. Si tratta di un sostituto procuratore generale che nella notte tra mercoledì e giovedì ha avuto una crisi respiratoria ed è ora ricoverato in terapia intensiva. Il nuovo contagiodopo i due di martedì nella Sesta sezione civile e in Misure di prevenzione – ha fatto scattare ulteriori misure nel Palazzo di Giustizia.

Come riporta il Corriere della Sera, il terzo piano occupato dalla Procura Generale è stato isolato in attesa della sanificazione ed è probabile che i vertici decidano misure ancora più restrittive. L’ultimo contagio, infatti, a differenza dei primi due, per il tipo di lavoro svolto ha “moltissimi contatti” con i colleghi e gli avvocati. Anche per questo, riporta sempre il quotidiano, oltre all’intero terzo piano bloccato è stata chiusa un’aula di Corte d’Appello dove si era tenuta un’udienza nella quale molte persone si erano trovate a contatto con il magistrato.

Intanto i medici dell’Ats stanno verificando tutti i contatti avuti dal sostituto procuratore generale negli scorsi giorni per stabilire le misure di prevenzione per i soggetti che hanno avuto rapporti con lui. Sono destinate quindi ad aumentare le persone messe in quarantena, dopo le 40 per le quali era già scattato l’isolamento fiduciario per i casi dei due giudici. Dopo la conferma dei due casi è stata decisa la sospensione dei processi civili ordinari fino ad aprile alla luce della “diminuzione delle risorse”, ossia del personale, giudici e personale amministrativo e diverse persone devono andare in autoisolamento ed essere monitorate. Si è creato un problema di diminuzione delle risorse, soprattutto nel settore civile.

Il provvedimento era stato ritenuto insufficiente dall’Ordine degli avvocati di Milano che chiede attraverso il presidente Vinicio Nardo il rinvio di tutte le udienze. Intanto gli avvocati della Camera penale di Milano hanno proclamato lo “stato di agitazione” e chiedono “la immediata sospensione, quantomeno fino al 16 marzo 2020, di tutta l’attività giudiziaria non urgente e il rinvio d’ufficio di ogni udienza, con esclusione dei procedimenti nei confronti di persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare” per “limitare il più possibile nell’immediatezza, la frequentazione del Palazzo di Giustizia”.

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