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Covid, i vaccini nasali e la nuova frontiera per arginare la pandemia. Science: “Dodici composti in fase di sviluppo”

Dopo il primo “miracolo” con lo sviluppo a tempo di record di vaccini che hanno arginato l’epidemia più violenta della storia recente (nel 2021 nel mondo quasi 20 milioni di vite sono state salvate secondo un recente studio pubblicato su The Lancet), la nuova frontiera per avere la meglio su Sars Cov 2 e le sue sempre più efficienti e pericolose varianti sono i vaccini nasali. Solo così, secondo molti autorevoli ricercatori, si potrà ottenere l’effetto sterilizzante, bloccare il contagio e ottenere quindi una migliore prevenzione della malattia Covid-19. Come viene segnalato in un articolo su Science firmato dagli scienziati Usa Eric Topol (Scripps Research) e Akiko Iwasaki (Yale) al momento sono almeno dodici i vaccini nasali in fase di sviluppo clinico e quattro hanno raggiunto studi randomizzati di fase III, controllati quindi con placebo. Tre sono a vettore virale, un quarto è un vaccino a subunità proteica e c’è anche in fase 1, il vaccino AstraZeneca. A questa lista vanno aggiunti anche lo studio del team di Yale, coordinato dalla professoressa Iwasaki, che a febbraio ha pubblicato i primi esiti dei loro test sui topi e quello recentissimo di un vaccino a base di batteriofagi.

Ma perché è così importante andare oltre quello che la comunità scientifica, a fronte di enormi investimenti e altrettanti guadagni per le case farmaceutiche, è riuscita a ottenere con uno sforzo senza precedenti? Il virus continua a mutare in modo molto efficiente e la ricalibrazione dei composti è naturalmente più lenta: l’altissima protezione garantita dai vaccini attuali riguarda morte e malattia grave, ma non il contagio. E prima Delta e poi Omicron hanno prodotto una quantità di infezioni superiore a quelle del ceppo originario. Per questo nei giorni scorsi in un editoriale il Washington Post parlava della “dolorosa necessità” di una nuova generazione di vaccini che blocchino il contagio.

L’immunità mucosale è ritenuta la chiave per raggiungere questo obiettivo e la nuova frontiera da attraversare. Sars Cov 2 continua a mutare e i vaccini ricalibrati su Omicron 1 dovranno fare i conti con Omicron 5 o con la mutazione che viene chiamata Centaurus e che – dopo essersi diffusa oltre il 23% in India – è sbarcata in Europa, Italia compresa. Ma quando i vaccini saranno pronti – benché sicuramente efficace scudo – saranno comunque un passo indietro rispetto al virus. E abbiamo visto come nel corso del tempo prima con Delta e poi con Omicron unico come la protezione si sia ridotta. Senza contare che anche chi è stato contagiato dalle prime versioni di Omicron si è infettato con quelle più recenti.

Ma perché nonostante i virus ci infettino passando per le superfici mucose la maggior parte dei vaccini viene somministrata con una puntura? La risposta la forniscono i due scienziati Usa Topol e Iwasaki ovvero che questi tipi di vaccini non sono mai stati particolarmente performanti. Questo però era valido per il passato perché come spiegano nell’articolo uno studio recente – pubblicato lo scorso 20 luglio su Science – firmato tra gli altri dagli scienziati del Koch Institute for Integrative Cancer Research del Massachusetts Institute of Technology sono state “suscitate risposte immunitarie a livello sia locale che distale della mucosa” utilizzando una modifica degli antigeni. Un altro lavoro, pubblicato sulla rivista, da parte degli scienziati di alcune università statunitensi (Ohio, Virginia), con una sperimentazione sui topi, ipotizza che la combinazione di vaccinazione con composti a Rna messaggero e immunizzazione con adenovirus-S della mucosa induca “forti risposte anticorpali neutralizzanti, non solo contro il virus ancestrale ma anche contro la variante Omicron”. La nuova sfida al coronavirus è già iniziata.

Lo studio su Science del Koch Institute

Lo studio su Science/2

Lo studio su Lancet

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Cavaleri (Ema): “Combinazioni di vaccini danno risposta immunitaria più forte. Possibilità di estendere le dosi a bambini tra 5 e 11 anni”

“L’Ema ha iniziato a valutare una domanda per estendere l’uso del vaccino Pfizer-BioNTech Covid-19 Comirnaty ai bambini di età compresa tra i cinque e gli 11 anni. L’applicazione si basa su una dose che è tre volte inferiore alla dose approvata per gli adulti. Il dosaggio proposto è quello di mantenere due dosi somministrate ad almeno tre settimane di distanza”. Così Marco Cavaleri, responsabile della strategia vaccini dell’Agenzia europea per i medicinali. “In effetti, stiamo vedendo alcuni risultati promettenti da studi che confermano che questo approccio attiverebbe con determinate combinazioni di vaccini, una risposta immunitaria più forte rispetto a quando lo stesso vaccino viene utilizzato per una sola iniezione aggiuntiva. Nel complesso sembra che questa strategia sia qualcosa di cui tutti i tipi di vaccini potrebbero beneficiare, e in effetti combinazioni diverse sarebbero comunque estremamente preziose”, ha spiegato Cavaleri.

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Giorgio Parisi: “Spero in prossima finanziaria ci sia cambiamento. L’Italia diventi accogliente con i ricercatori”

Un applauso interminabile a La Sapienza di Roma ha accolto il Nobel per la Fisica 2021, Giorgio Parisi. I ragazzi sono scattati in piedi e hanno iniziato ad applaudire gridando: “Bella Giorgio”. A presentare lo scienziato nell’aula magna la Rettrice, Antonella Polimeni, e la ministra Maria Cristina Messa. La responsabile del dicastero dell’Univerisità e della Ricerca ha detto scherzando: “Non è il governo Draghi, ma siamo tutti noi. La scienza è per la scienza”.

Pochi minuti di discorso per il fisico che ha auspicato che nella “prossima finanziaria ci sia un cambiamento” in termini di fondi per la ricerca scientifica. “Sta cambiando qualcosa in Italia per la scienza, ma spero che nella prossima finanziaria questo cambiamento venga in qualche modo implementato in maniera opportune perché al di là di quello che si può fare nei prossimi cinque anni è importante che ci siano cambiamenti strutturali in modo che il Paese diventi un Paese accogliente per i ricercatori, non solo italiani ma da tutto il mondo, cosa che non è”. Il professore, dal curriculum enorme e già vincitore di numerosi premi, ha ringraziato l’Università, i suoi maestri e ha risposto a chi come la Rettrice lo ha definito “un gigante, uno di quelli sulle cui spalle le generazioni future si siederanno per scrutare l’orizzonte della scienza e fare un passo ulteriore verso la conoscenza” ricordando che questo è successo perché “come disse Newton mi sono arrampicato anche io”.

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Covid, l’annuncio della casa farmaceutica Merck: “Con antivirale molnupiravir – 50% di ricoveri e di morti nei pazienti non gravi”

La carica degli antivirali. A poco meno di due anni dall’inizio della pandemia stanno arrivando alla fase 3 le possibili terapie anti Covid. Le principali case farmaceutiche sono al lavoro da tempo per individuare la potenziale cura della patologia innescata dal coronavirus Sars Cov2. Le aziende Msd (Merck Sharp & Dohme, ndr) e Ridgeback Biotherapeutics annunciato che il loro composto orale sperimentale molnupiravir mostra di ridurre di circa il 50% il rischio di ricovero e morte nei pazienti con Covid in forma lieve o moderata.

Le due società hanno comunicato i risultati dell’interim analysis della fase III del trial Move-Out ed espresso l’intenzione di richiedere l’autorizzazione all’uso di emergenza (Eua) negli Stati Uniti nel più breve tempo possibile e, allo stesso tempo, richiedere l’autorizzazione ad altre agenzie regolatorie a livello mondiale. Se approvato, molnupiravir potrebbe essere il primo farmaco antivirale per il trattamento di Covid-19, viene evidenziato. In base ai dati della interim analysis, diffusi dalle società, il 7,3% dei pazienti che hanno ricevuto molnupiravir sono stati ospedalizzati o sono deceduti entro il 29esimo giorno dal momento della randomizzazione (28/385), a fronte di un 14,1% per i pazienti trattati con placebo (53/377). Inoltre, fino al 29esimo giorno di somministrazione, nessun decesso è stato riportato nei pazienti che hanno ricevuto la somministrazione di molnupiravir, a fronte di 8 pazienti deceduti trattati con placebo.

In base a questi risultati, spiegano in una nota le due aziende, il reclutamento dei pazienti è stato interrotto anticipatamente, seguendo la raccomandazione di un Comitato indipendente di monitoraggio dei dati e in consultazione con la Fda statunitense. “La pandemia richiede urgentemente nuovi opzioni terapeutiche e trattamenti – ha dichiarato Robert M. Davis, amministratore delegato e presidente di Msd – Covid-19 è ormai una delle principali cause di morte e continua ad avere un impatto significativo sui pazienti, le loro famiglie, la società in generale nonché i sistemi sanitari in tutto il mondo. Siamo fiduciosi che molnupiravir possa rappresentare un’importante opzione terapeutica e una componente essenziale dello sforzo globale per combattere la pandemia”. I risultati della Interim Analysis pianificata hanno valutato i dati di 775 pazienti inizialmente coinvolti nel trial di fase III entro il 5 agosto 2021. I criteri di eleggibilità hanno previsto che tutti i pazienti avessero una diagnosi di Covid-19 lieve o moderata confermata in laboratorio, con la comparsa dei sintomi entro 5 giorni dalla randomizzazione nello studio. Molnupiravir ha ridotto il rischio di ospedalizzazione e/o di decesso in tutti i sottogruppi principali dello studio; l’efficacia non è risultata impattata dalla data di comparsa dei sintomi o dai fattori di rischio sottostanti.

Inoltre, sulla base dei partecipanti arruolati con viral sequencing data (circa il 40%), molnupiravir ha dimostrato un’importate efficacia nelle varianti virali Gamma, Delta e Mu. L’incidenza di ogni evento avverso è risultata comparabile nei gruppi trattati con molnupiravir e con placebo (rispettivamente 35% e 40%). Allo stesso tempo, l’incidenza di eventi avversi legati al farmaco è risultata comparabile (12% e 11%, rispettivamente). Un numero di pazienti inferiore ha interrotto la terapia nel gruppo di controllo trattato con molnupiravir (1,3%) rispetto al gruppo trattato con placebo (3,4%). “Le terapie antivirali che possono essere assunte a domicilio senza una ospedalizzazione del paziente – ha spiegato Wendy Holman, amministratrice delegata di Ridgeback Biotherapeutics – rappresentano oggi un’opzione terapeutica fondamentale. Siamo orgogliosi”.

Per garantire l’accesso al trattamento, già prima di ottenere i risultati dello studio, Msd ha iniziato la produzione di molnupiravir e intende produrre 10 milioni di dosi entro la fine del 2021 e un numero maggiore di dosi sarà prodotto nel 2022. L’azienda ha stipulato un accordo di procurement con il governo Usa (per circa 1,7 milioni di dosi dopo via libera regolatorio) e sta stipulando accordi di acquisto e fornitura con altri governi a livello mondiale, sempre condizionati ai via libera al farmaco. Si intende adottare una politica differenziata dei prezzi, in grado di riflettere la diversa capacità dei singoli Stati di finanziare la risposta sanitaria alla pandemia. Altra mossa gli accordi di licenza volontaria non esclusiva con produttori di farmaci generici per accelerare la disponibilità di molnupiravir in più di 100 Paesi a basso o medio reddito.

Sul fronte antivirali anche Roche e Pfizer stanno lavorando per sviluppare un antivirale efficace e i trial sono in corso. Pfizer ha avviato uno studio di media-lunga durata per testare il suo farmaco orale per la prevenzione del Covid-19 tra chi è stato esposto al virus, impendendo, come fanno i vaccini per intramuscolo, che la malattia diventi grave. Pfizer ha dichiarato che studierà il farmaco orale in circa 2.660 adulti in buona salute, che abitano ciascuno nella stessa abitazione di un soggetto positivo al Covid-19. L’esperimento testerà l’efficacia di una bassa dose del principio attivo ritonavir, un vecchio farmaco largamente usato in combinazione con altri medicinali per il trattamento dell’Hiv. Pfizer aveva anche affermato all’inizio di questo mese di aver avviato uno studio di fase medio-tardiva sul ritonavir per il trattamento del COVID-19 in pazienti adulti sintomatici non ospedalizzati.Per quanto riguarda Roche secondo l’azienda sono positivi gli esiti dello studio di fase II/III, che ha coinvolto Ronapreve, il trattamento anti-Covid, in pazienti ospedalizzati. Dai risultati, diffusi da Roche, Ronapreve ha ridotto significativamente la carica virale entro sette giorni dal trattamento nei pazienti che non hanno sviluppato una risposta immunitaria naturale. I dati clinici integrano i risultati precedenti in ambito ospedaliero, compresi quelli dello studio condotto dall’Università di Oxford nel Regno Unito. L’annuncio di Merck ha dato una scossa ai titolo di settore, in preapertura a Wall Street Moderna segnava – 4,5% e Novavax -7%.

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Covid, i farmaci in arrivo e quelli già usati. A che punto è la ricerca: dagli antivirali ai cortisonici. Il professor Cosentino: “Ognuno di questi va impiegato in maniera appropriata”

La ricerca farmacologica contro il Covid per trovare una cura o una terapia efficace e sicura continua su più fronti. Ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. Alcuni studi sono arrivati al traguardo pochi giorni fa, come il nuovo anticorpo monoclonale sotrovimab, prodotto dalla Gsk, approvato da Aifa il 6 agosto scorso. Dovrebbe coprire da tutte le attuali varianti e sarà impiegato per chiunque – da 12 anni in su – sia ad alto rischio di progressione severa. Altri risultati vedranno la luce invece nel 2022, come il farmaco orale della Pfizer, molto atteso. In questo momento ci sono farmaci già in commercio che hanno dato – e stanno dando – risultati importanti. Per fare il punto Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Marco Cosentino, medico, professore ordinario di Farmacologia e direttore del Centro di Ricerca di Farmacologia Medica dell’Università dell’Insubria di Varese.

Direttore, quali sono le probabilità di avere un nuovo farmaco antivirale, oppure un trattamento (a fianco ai vaccini), per l’autunno?
Nel trattamento di Covid 19 sono stati utilizzati con scarso successo vari farmaci antivirali diretti, ad esempio lopinavir/ritonavir e remdesivir. Quest’ultimo ha ricevuto anche un’autorizzazione ma la sua efficacia è molto limitata. Sono stati impiegati anche vari anticorpi monoclonali, a oggi tuttavia i dati disponibili non sono straordinari.

L’Unione europea aveva annunciato l’individuazione di cinque trattamenti?
L’Unione Europea ha annunciato per l’autunno l’autorizzazione di quattro anticorpi monoclonali e di un antivirale con azione diretta. C’è qualche dubbio che l’eventuale arrivo di questi farmaci modificherà significativamente la situazione. In questo campo, pare più interessante il farmaco di AstraZeneca (AZD7442), una combinazione di due monoclonali, tixagevimab e cilgavimab, derivati dai linfociti di persone guarite dal Covid e ingegnerizzati in modo da persistere nell’organismo per molti mesi. Si può stimare un’efficacia relativa del 77%. AstraZeneca ha già dichiarato che intende chiedere l’autorizzazione in emergenza del farmaco, che costituirebbe così una forma di profilassi alternativa ai vaccini.

Un farmaco che ha raccolto molto interesse in Israele è il CD24, con oltre il 90% di efficacia su pazienti in stato avanzato. Che farmaco è? E quando potrebbe essere utilizzato negli ospedali?
EXO-CD24 è un farmaco sperimentale di concezione originale, per quanto dal punto di vista clinico ancora ne sappiamo ancora molto poco. CD24 è una glicoproteina espressa da molte cellule del nostro sistema immunitario, il cui ruolo fisiologico consiste nel ridurre la risposta infiammatoria. La sua attività è ridotta in stati infiammatori gravi come ad esempio le sepsi. Da qui l’idea di impiegarla per prevenire o curare il quadro più grave di Covid 19, la cosiddetta “tempesta citochinica” che altro non è che una condizione di iperattivazione incontrollata del sistema immunitario deleteria per l’organismo. A oggi sono stati condotti studi iniziali, di fase I e fase II, il primo su 30 persone e il secondo su 90, tutte con Covid. I benefici clinici sono tuttavia stati notevolissimi se è vero che, stando a quanto riportano le agenzie, prima 29 pazienti su 30 e poi 84 su 90 sarebbero guariti in massimo cinque giorni. Bisogna attendere la conclusione degli studi. Se davvero tutto andasse per il meglio, il farmaco potrebbe essere reso disponibile già nel corso del 2022.

Direttore, l’Istituto Mario Negri ha in corso la sperimentazione ‘Cover2’, fa seguito agli ottimi risultati avuti con ‘Cover1’ (pubblicato su The Lancet) in cui i ricercatori hanno dimostrato una riduzione del 90% di ospedalizzazioni con l’uso di farmaci da bancone. Se si confermassero i dati, cosa cambierebbe?
Che l’aspirina e i FANS (anti-infiammatori non steroidei, come nimesulide e celecoxib) siano farmaci di scelta da preferire al paracetamolo è un dato consolidato su basi sia farmacologiche che cliniche. Lo studio del Mario Negri ha avuto tuttavia l’indubbio merito di “costringere” a recepire i FANS anche nella seconda versione, tuttora in vigore, delle linee guida ministeriali. Lo studio aveva un disegno osservazionale retrospettivo ed è stato svolto su un certo numero di pazienti con Covid 19 lieve. Questo non ha impedito di documentare un indubbio beneficio dei FANS, farmaci facilmente gestibili dal medico di medicina generale e che non devono mai mancare nel trattamento fin dai primi sintomi, ancora prima della conferma con eventuali test diagnostici. L’importanza dello studio del Mario Negri sta anche e forse soprattutto nell’aver dimostrato che anche una raccolta di dati realizzata in maniera retrospettiva e osservazionale produce evidenze solide e di grande ricaduta clinica.

La Pfizer ha iniziato la sua fase 2/3, il 13 luglio e che finirà a febbraio, del suo antivirale. Anche qui le chiedo quali aspettative ci sono?
PF-07321332 è un farmaco che agisce inibendo un enzima fondamentale per la replicazione dei coronavirus, che si chiama proteasi “3C-like”, ci si aspetta quindi che la sua azione possa consistere nel blocco della replicazione di Sars Cov 2. Un altro farmaco con attività analoga, PF-07304814 è stato per il momento abbandonato poiché non è ben assorbito per via orale, a differenza di PF-07321332. A oggi, sul sito ClinicalTrials.gov, che include la maggior parte degli studi clinici in corso nel mondo e di regola tutto gli studi per la registrazione di nuovi medicinali in corso in Usa e in Europa, risultano inclusi sei diversi studi con PF-07321332, di cui tuttavia solo uno in pazienti Covid 19, in fase 2/3 ma non è partito il reclutamento – che doveva iniziare dal 13 luglio – di 2260 pazienti, e con conclusione studio prevista per il 15 febbraio 2022. La strategia dichiarata di Pfizer alla base dello sviluppo di questo farmaco è che i suoi ricercatori per primi si attendono per il futuro, indipendentemente da qualsiasi altro fattore, continui focolai di Covid che richiederanno quindi un trattamento possibilmente non soltanto ospedaliero (da cui anche la scelta di abbandonare il farmaco analogo ma utilizzabile solo per iniezione endovenosa). Si tratta in verità di una visione del tutto condivisibile, tanto da rendere incomprensibile la ragione per fino a ora non siano stati inclusi nelle strategie di lotta al Covid 19 i tanti farmaci già ora disponibili con un eccellente rapporto tra benefici e rischi, i quali rappresentano da tempo opzioni concrete e immediatamente utilizzabili.

La Food and drug administration ha approvato la fase 3 del trial sulle ‘staminali mesenchimali’, dopo una anno di blocchi burocratici. Fu lo studio che diede in assoluto i migliori risultati clinici, quasi il 100% di guariti, in pazienti molto gravi, senza alternative. Che ne pensa?
Le cellule staminali mesenchimali sono studiate da anni nella medicina rigenerativa e per il loro grande potenziale antiinfiammatorio e di modulazione della risposta immunitaria. A oggi le evidenze disponibili derivano dal trattamento di singoli casi o di piccoli gruppi di pazienti di solito con disegno non controllato. Lo studio di Miami, pur condotto su 24 pazienti, 12 trattati con staminali da cordone ombelicale e 12 con placebo, è stato invece realizzato con randomizzazione in cieco secondo i migliori standard e ha fornito risultati particolarmente incoraggianti: 91% di sopravvissuti a 30 giorni con le staminali e 42% con placebo. Ci sono dunque ottime probabilità che i futuri studi confermino e consolidino i benefici almeno di certi tipi di staminali (non sono tutte uguali) fino a renderle un’opzione per il Covid grave. È importante essere consapevoli che un trattamento tempestivo è l’approccio migliore per ridurre il rischio di progressione della malattia.

Il professor Zeno Bisoffi, con l’approvazione di Aifa, ha condotto il trial sull’ivermectina, per studiare la carica virale dopo l’uso del farmaco. Va detto che uno studio randomizzato in doppio cieco condotto in Israele, ha dato risultati molto positivi. Anche lo studio Aifa ha lo stesso end-point: la carica virale. Cosa ci dobbiamo aspettare dalla studio italiano (che uscirà a giorni)?
L’ivermectina è un farmaco antielmintico impiegato ormai da 50 anni e incluso nella lista dei farmaci essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, lista che seleziona i farmaci più importanti sulla base della loro efficacia e del loro profilo di sicurezza. Una recentissima revisione della letteratura scientifica, comparsa sull’American Journal of Therapeutics (Lippincott Williams & Wilkins) conclude sulla base di numerose evidenze, compresi studi clinici controllati e randomizzati in cieco, che l’ivermectina è grandemente efficace sia per la cura del Covid (in termini di riduzione della durata della malattia, delle ospedalizzazioni, della carica virale e della mortalità) che per la profilassi (in termini di riduzione della trasmissione), e tutto questo a prezzo di effetti avversi in genere limitati, prevedibili e gestibili. Mi pare la migliore premessa per un esito favorevole di qualsiasi altro studio ben progettato, e tuttavia non sembra esistere alcun serio motivo per non considerare fin da subito l’ivermectina come una concreta e conveniente opzione come del resto tanti medici fanno da tempo.

Direttore, un farmaco comune che – stando alla pubblicazione di Oxford – ha dato ottimi risultati è il budesonide, un antiasmatico. Ci sono molte controversie sull’impiego dei cortisonici. Cosa ci può dire a riguardo?
Un recente studio pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine ha documentato la capacità del corticosteroide budesonide, somministrato per via inalatoria (che ne riduce gli effetti avversi sistemici massimizzando quelli locali) entro sette giorni dall’inizio di sintomi anche lievi, di ridurre l’aggravamento e quindi il ricovero dell’85-90%, senza alcun effetto avverso di rilievo. I glucocorticosteroidi sono potenti antinfiammatori e soppressori della risposta immunitaria di grande efficacia in un numero enorme di condizioni cliniche, ma vanno usati con criterio. Questi farmaci si prestano non soltanto a una somministrazione per via orale o iniettiva, ma anche – appunto – per “inalazione”. Le attuali linee guida ministeriali li raccomandano solo quando la compromissione polmonare è tale da richiedere anche supplementazione di ossigeno, tuttavia c’è più di qualche ragione per ritenere che possa essere tardi. Molti medici con esperienza sul campo sostengono che i glucocorticosteroidi possono essere un’importante opzione ai primi segnai di interessamento polmonare, proprio in quanto i danni infiammatori possono ancora essere prevenuti. Ogni singolo farmaco va impiegato in maniera appropriata tenendo anche conto delle condizioni del paziente.

Che altri farmaci interessanti ci sono in sperimentazione, sempre in vista dell’autunno?
In questo momento, secondo le agenzie specializzate, ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. I numeri sono cresciuti rapidamente fino all’estate del 2020, per poi progressivamente assestarsi, e a inizio 2021 i prodotti in sviluppo erano già oltre 700, a suggerire che le aziende potrebbero aver realizzato il loro massimo sforzo innovativo e che ora puntino più che altro alla verifica della reale efficacia dei principi attivi progettati.

Novità sui vaccini?
È interessante notare, a proposito dei vaccini, che mentre noi ci confrontiamo solo con prodotti a Rna e a Dna/vettore basati su biotecnologie con pochissimi precedenti, su scala globale questi approcci rappresentano una minoranza, di fatto una cinquantina di prodotti a fronte di una stragrande maggioranza di vaccini contenenti il virus inattivato o la proteina spike preformata.

Cosa pensa del ‘movimento cure domiciliari’? Il gruppo è stato fondato da primari di Ematologia come Luigi Cavanna, primari di Malattie Infettive, direttori di Cardiologia, docenti di farmacologia e tanti medici di Medicina Generale. Quali sono le sue considerazioni?
Moltissimi medici malgrado le difficoltà fin dall’inizio di questa crisi curano i loro pazienti Covid assistendoli spesso direttamente al domicilio, prestandosi a seguirli a distanza, con enorme disponibilità e senza curarsi di orari di lavoro, giornate festive o altro. Nell’era della connessione globale è stato naturale iniziare a riunirsi in gruppi su piattaforme web, spesso anche semplici chat di whatsapp, fino ad arrivare a organizzazioni strutturate come il Movimento Ippocrate o il Comitato Cura Domiciliare Covid, per citare le due maggiori iniziative sul suolo nazionale. L’esperienza di ognuno di questi medici si fonda sulla cura diretta di decine e spesso centinaia di persone con Covid e insegna che iniziare alcuni trattamenti ai primi sintomi, spesso senza nemmeno attendere l’esito del test diagnostico (come l’approccio del Mario Negri sostiene da dicembre 2020), si rivela di regola cruciale per evitare il rischio che la malattia progredisca. Il lavoro di questi medici, per quanto abbia fin qui ricevuto scarsa visibilità mediatica, è di importanza fondamentale per ristabilire la salute e in non pochi casi salvare la vita di tante persone in difficoltà anche a causa della riorganizzazione emergenziale della sanità, che ancora oggi rende per molti difficile accedere ai servizi territoriali. Questo si riflette ovviamente anche in una minore pressione sulle strutture di ricovero. Per tutti questi motivi sarebbe sensato valorizzare queste esperienze recependole integralmente in una strategia aggiornata di gestione del Covid che metta al primo posto le cure appropriate e tempestive.

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Dal cambiamento climatico alla pandemia, cos’è la pseudoscienza

Durante la catastrofe della pandemia, la parola pseudoscienza è stata usata, invocata, urlata; talvolta ne abbiamo abusato. Pseudoscienza è il termine che descrive qualcosa che sembra scienza, ma è in qualche modo falso, fuorviante, non dimostrato e non dimostrabile. Comprende un elenco sterminato di attività, che vengono svolte sotto l’ombrello di pseudo-discipline come l’astrologia e la frenologia, l’ufologia e il creazionismo, la parapsicologia e l’eugenetica.

Definire che cosa renda questi campi “pseudo” – dal greco pseudés: falso, finto, mendace, fraudolento – è una questione abbastanza complessa. Trovare un criterio semplice che ci permetta di differenziare la pseudoscienza dalla scienza “genuina” è un problema ancora aperto. Ma è anche una questione urgente, vista la virulenza delle odierne controversie, dalla ostinata negazione del cambiamento climatico come conseguenza del riscaldamento globale, alla diffusione dei movimenti anti-vaccinazione e al sostegno di pratiche agricole esoteriche.

In tutte queste controversie si fa largo uso della parola pseudoscienza. Una clava sollevata sempre più di frequente dagli scienziati ortodossi. Quasi sempre a ragione, pensando al clima, ai vaccini, all’agricoltura. Ma si tratta dello stesso dardo rispedito al mittente da chi viene bollato quale pseudo-scienziato, in assenza di confini certi e di conoscenze del tutto sicure. Quale confine possiamo tracciare tra scienza e pseudoscienza?

Invero, le credenze marginali più frequentemente bollate come pseudoscienza nelle discussioni pubbliche e dai media – come l’alchimia, la percezione extrasensoriale o il terra piattismo – non preoccupano affatto gli scienziati attivi, sperimentali o teorici che siano. I sostenitori di queste credenze sono già molto lontani dai confini del mondo scientifico. E sono considerati affatto irrilevanti rispetto a qualsiasi questione legata al progresso del sapere.

Tuttavia, esiste una spessa frangia di confine, difficile da decifrare. Quando gli studiosi esplorano il confine tra scienza e pseudoscienza, costoro finiscono spesso per arrabattarsi in una disputa scientifica disciplinare. Anziché invocare dei principi epistemologici fondamentali, essi si nascondono dietro lo scudo della ricerca nel proprio campo, così come si è consolidata. E come viene normalmente praticata.

Gli accademici si rifugiano nel loro mondo chiuso. Un pianeta che stabilisce in modo spesso assiomatico gli approcci legittimi, distinguendoli rigorosamente da quelli illegittimi. La stessa attitudine dei peripatètici, gli scienziati devoti alla lezione aristotelica, nei confronti di Galileo Galilei che, in difesa del principio di Archimede, fu costretto a scrivere un bellissimo saggio, il Discorso intorno alle cose che stanno in sull’acqua (1612).

Secondo un recente, acuto articolo di Michael Gordin (professore di Storia Moderna e Contemporanea nella Princeton University) la scienza ufficiale produce necessariamente una serie di dottrine di scarto. Sono discipline che, in determinate condizioni, finiscono per essere riclassificate come pseudo. Poiché la demarcazione è inevitabile e i confini della frontiera scientifica sono dinamici, le università e gli enti di ricerca dovrebbero riflettere bene prima di decidere sul come, quando e perché queste trasformazioni possano avvenire.

Sarebbe bello se bastasse uno standard lineare di demarcazione, come il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Purtroppo, questo brillante criterio non sempre funziona. Per esempio, i creazionisti fanno molte affermazioni falsificabili, come Gordin sottolinea. I criteri di demarcazione che usiamo nella pratica di tutti i giorni sono perciò regole ad hoc, dettami calibrati su standard fluttuanti.

Nel corso del tempo, il confine tra ciò che è scienza e ciò che non lo è affatto, è fortemente mutato. L’astrologia, per esempio, ha goduto di grande prestigio per lunghi secoli. Ancora nel XVI secolo era una scienza cardine, basata sulla raccolta di dati empirici organizzati da una matematica piuttosto sofisticata. Produceva previsioni dettagliate e godeva del munifico sostegno di ricchi mecenati. Pur contestata già nel secolo successivo, ci sono voluti secoli prima che uscisse dal dominio della filosofia naturale. L’attributo pseudoscientifico assegnato oggi all’astrologia, non è il frutto di principi assoluti, ma la naturale conseguenza del sapere scientifico contemporaneo, peraltro in continua evoluzione.

Talora l’appellativo di pseudoscienza viene impiegato in modo strumentale. Quante volte, all’inizio della mia carriera, ho ascoltato equiparare l’idrologia all’astrologia. Era una battuta diffusa tra gli idraulici tradizionali, che assimilavano la loro disciplina all’astronomia, difendendo così il loro traballante orticello dagli idrologi rampanti. Dopo 40 anni di sviluppo scientifico delle scienze della Terra e della tecnologia, in tutto il mondo l’idraulica è diventata oggi una disciplina ancillare, seppur fondamentale, inquadrata nel campo delle scienze idrologiche. E, in definitiva, fanno sorridere i distinguo tra idraulica e idrologia, se il sapere è sempre più transdisciplinare e sempre meno disciplinare.

Quanta terra di confine siamo disposti a tollerare in difesa della scienza? È una fascia incerta, frastagliata, mutevole, che differisce fortemente tra le diverse discipline, tra le istituzioni, perfino tra i singoli ricercatori. Come per tutte le azioni repressive, le scelte politiche influiscono sui criteri fondamentali per accettare un’ammissibile devianza (per poi chiamarla, pomposamente, innovazione se funziona) ovvero reprimere un inaccettabile deragliamento, del tutto fuori dai confini.

Chiamare pseudoscienza la frode scientifica, invece, è un grave errore: va chiamata truffa. Ma di questo parleremo più avanti.

L’articolo Dal cambiamento climatico alla pandemia, cos’è la pseudoscienza proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Uk, gli esperti che sequenziano il virus: “Ecco quando le varianti sono preoccupanti. Le loro evoluzioni incognite dopo i vaccini”

La variante indiana preoccupa il governo britannico in vista del rilassamento di tutte le restrizioni il prossimo 21 giugno e con l’avvicinarsi delle vacanze estive. Nel Regno Unito il consorzio Covid-19 Genomics Uk (Coh-Uk), che per primo ha individuato la variante inglese B.1.1.7, è tra i centri di sequenziamento genomico più importanti del mondo. Abbiamo fatto il punto sulle varianti e sulla loro pericolosità con il dottor Alessandro Carabelli, a capo del gruppo di ricerca del consorzio che individua e analizza le mutazioni.

Carabelli, che cos’è Cog-Uk e di cosa si occupa?
Dall’inizio della pandemia abbiamo sequenziato più di 470mila virus nel Regno Unito (su un totale di 1.5milioni di sequenze a livello globale) e attualmente sequenziamo il 60% dei casi positivi giornalieri, circa duemila. In generale se guardiamo ai 4 milioni e mezzo di casi nel Regno Unito, qui abbiamo sequenziato l’8-10% dei casi, un dato eccezionale al paragone con altre nazioni, Francia, Spagna e Italia che hanno fornito 25mila sequenze a parità di casi positivi. Senza il sequenziamento non saremmo stati in grado di progettare i vaccini utilizzati in questo momento. Ci permette di studiare i focolai e come il virus si trasmette nella comunità e negli ospedali. Abbiamo un progetto chiamato Hospital-Onset Covid-19 infections Study (Hoci) con cui stiamo cercando di dimostrare come il sistema del sequenziamento quando è attivo negli ospedali e nelle case di cura, dunque fornendo dati in tempo reale sulle infezioni di Covid-19, è in grado di fare la differenza nel permettere di arginare potenziali focolai.

Che cos’è la variante indiana che anche l’Oms ha classificato come “preoccupante”?
Siamo ancora nella fase iniziale di ricerca su questa variante che comprende i tre sottotipi: B.1.617.1, B.1.617.2 e B.1.617.3. Quello preoccupante è il sottotipo 2 che in Gran Bretagna nel giro di poche settimane ha fatto aumentare i casi da una decina a un migliaio e dunque è considerato ‘preoccupante’ in termini di maggior trasmissibilità. Il Regno Unito ha depositato 1778 sequenze di questa variante mentre l’Italia ha inserito 49 sequenze sulla piattaforma internazionale Gisaid. Sulla base delle nostre ricerche siamo piuttosto certi che B.1.617.2 abbia una trasmissibilità paragonabile alla variante inglese B.1.1.7, e per ora sembra che possa avere una capacità di infettare le cellule superiore al virus originario di Wuhan. Dovremo osservare cosa accadrà nelle prossime settimane. Da un lato stiamo studiando la trasmissibilità facendo esperimenti in laboratorio per vedere il grado di infettività nelle cellule, dall’altro lato, con test immunogenici vogliamo capire se gli anticorpi generati nei sieri sottoposti a vaccinazione sono in grado di neutralizzare questa variante.

Finora sembra che i vaccini siano efficaci sulla variante indiana.
Non ci sono evidenze di una loro inefficacia. Dati preliminari di laboratorio suggeriscono una leggera diminuzione dell’attività neutralizzante di alcuni sieri, dovuti alla presenza di una mutazione, chiamata L452R. Sappiamo però poco sull’effetto di altre mutazioni presenti in questa variante come la T478K. Dobbiamo ottenere più dati e studiare casi di contagio nelle persone vaccinate. In una casa di cura a Dehli, 33 membri dello staff precedentemente vaccinati con Oxford/Astrazeneca sono stati trovati tutti positivi con la variante B.1.617.2. Sebbene nessuno si sia ammalato seriamente, queste sono le situazioni che dobbiamo monitorare con grande attenzione. Scienziati che sono associati al nostro consorzio stanno utilizzando i sieri prelevati da pazienti vaccinati con i tre vaccini in commercio qui nel Regno Unito: AstraZeneca, Pfizer e Moderna.

Quante sono le varianti? E perché sono da considerarsi preoccupanti?
La variante è un virus che presenta un set ben preciso di mutazioni. Ci sono migliaia di varianti che stanno circolando ma molte sono neutrali perché non cambiano il fenotipo del virus. Quelle invece che sono categorizzate come ‘preoccupanti’ sono la B.1.1.7 identificata da noi nel Kent, la B.1.351 identificata in Sudafrica, la P.1 identificata in Brasile e quella indiana del sottotipo 2. In Gran Bretagna abbiamo anche una quinta variante, una modificazione della B.1.1.7 che ha subito l’ulteriore mutazione E484K, e che è in lista anche se ha un numero limitato di 166 casi in Regno Unito mentre in Italia sono state depositate 8 sequenze. Parliamo di variante “preoccupante” quando c’è evidenza di una più alta trasmissibilità, se il virus presenta livelli di resistenza all’immunità, se la variante aumenta la severità della malattia, se riduce l’efficacia dei trattamenti terapeutici. Nel Regno Unito in questo momento abbiamo poi 7 varianti ‘sotto indagine’ e 11 ‘sotto monitoraggio’ perché, nonostante non ci sia evidenza scientifica, studi sulle loro singole mutazioni suggeriscono un possibile effetto. Queste classificazioni comportano l’attivazione di procedure diverse messe in atto dalle agenzie sanitarie per cercare di studiare queste varianti e arginarne la crescita.

Avere individuato mutazioni simili e cicliche nelle varianti può volere dire che il virus è in fase declinante?
Nelle varianti preoccupanti abbiamo notato che le mutazioni del virus sono simili. Il virus ci mostra alcune vie preferenziali nel modo con cui evolve e questo è importantissimo se vogliamo pensare ai vaccini di prossima generazione. Ma non possiamo dire quale sarà il suo comportamento in futuro. Ci sono come dei blocchi di mutazioni che portano ad un cambio della funzionalità del virus. Per capirci, possiamo paragonarli ai transformers, che prima partono come delle macchine e poi diventano robot, con gli stessi pezzi ma acquisendo una funzione diversa. La proteina Spike presenta una regione importante per il legame con il recettore che è espresso nelle membrane delle cellule umane dunque è importante nel processo di infezione. Alcune mutazioni come la N501Y e la E484K aumentano la capacità di legame della proteina Spike con questo recettore. Poi abbiamo il dominio N-terminale che è una regione più laterale bersaglio di alcuni anticorpi. La “Furin cleavage site” invece è una regione importantissima in cui un enzima prodotto dalle cellule umane (Tmprss2) taglia la proteina spike in due sub unità permettendo così al virus di diventare più contagioso. In questa regione ritroviamo mutazioni tra cui P681H, osservata nella variante inglese B.1.1.7 e P681R nei tre sottotipi indiani. In realtà però non si può parlare di un declino del virus, perché non si sa se le varianti abbiano la capacità di trasformarsi in qualcosa di altro, certo continueranno ad accumulare mutazioni. E soprattutto non sappiamo come si comporteranno sotto la pressione evolutiva in un contesto con un alto numero di vaccinazioni a livello della popolazione.

Come state studiando le varianti?
Nel nostro consorzio abbiamo sviluppato ad esempio il Cog-Uk mutation explorer: una piattaforma con cui forniamo dati e analisi in tempo reale sulle mutazioni che stanno circolando nel Regno Unito. Oltre all’identificazione di nuove varianti, è importante monitorare le mutazioni che si accumulano sulle varianti stesse. Qui per esempio riportiamo tutte le mutazioni che, aggiunte a quelle della inglese B.1.1.7, hanno un potenziale effetto sull’immunità. I numeri dei casi sono molto bassi e finora queste mutazioni molto probabilmente non hanno apportato nessun tipo di vantaggio al virus ma non sappiamo se, in un contesto di alta vaccinazione, queste forniranno al virus meccanismi per evadere l’immunità generata dai vaccini. Siamo estremamente ottimisti rispetto all’efficacia dei vaccini contro le varianti attuali, ma dovendo considerare tutti i possibili scenari c’è la possibilità che qualche nuova variante in un futuro non troppo lontano possa sviluppare resistenza ai vaccini.

Potremo viaggiare quest’estate?
Dopo l’estate 2020 abbiamo visto un incremento dei contagi in Europa. All’inizio pensavamo che la mutazione A222V della variante B.1.7.7 avesse aumentato le abilità del virus. In realtà studi epidemiologici hanno confermato che l’aumento dei casi era legato agli spostamenti, con importazioni ed esportazioni del virus in varie nazioni. Dobbiamo fare tesoro di quanto imparato la scorsa estate. Molto probabilmente tamponi e controlli continueranno ad essere impiegati in uscita ed ingresso nei paesi.

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Covid, ecco lo spray nasale made in Italy. “Eliminato Sars-Cov-2 in meno di un minuto nei test di laboratorio”

L’idea di uno spray nasale anti coronavirus ha già avuto i primi riscontri positivi in Israele e Gran Bretagna. Ora anche in Italia sono partiti i primi test sull’uomo per uno spray nasale all’ospedale San Martino di Genova. L’arruolamento dei pazienti inizierà dal 15 maggio. La sperimentazione verificherà la sicurezza e l’efficacia dello spray (AOS2020), inalato nelle due narici per 3/5 volte al giorno, nel ridurre la carica virale nelle alte vie respiratorie. Questo dato, quando disponibile, rappresenterà il punto di partenza per l’utilizzo del prodotto nella prevenzione di sintomi più gravi e nella riduzione della contagiosità delle persone e della diffusione del virus. Lo studio clinico è condotto dall’Unità di Igiene del policlinico genovese e coordinato da Giancarlo Icardi, arruolerà un totale di 57 pazienti contagiati Covid-19, positivi al tampone e con sintomi lievi.

Entro quattro mesi sono previsti i primi risultati e, se positivi, il prodotto potrà essere disponibile entro l’anno. Lo spray è una soluzione acquosa di lavaggio che contiene acido ipocloroso allo 0,005%, una sostanza antimicrobica prodotta anche dalle cellule del nostro sistema immunitario, resa stabile e pura e quindi inalabile grazie a Tehclo*, una nanotecnologia ideata e sviluppata da un team di italiani dell’azienda italo-svizzera Apr Applied Pharma Research s.a., che ha brevettato l’innovazione tecnologica. I risultati dei test preliminari in vitro e in vivo, recentemente pubblicati sul Giornale Ufficiale della Società Europea di Otorinolaringoiatria hanno dimostrato, si legge in una nota, che lo spray nasale a base di acido ipocloroso elimina il Sars-Cov-2 in meno di un minuto senza irritare le mucose di naso e gola. Lo spray nasale, che sarà prodotto in Italia, in futuro potrebbe rivelarsi anche un ulteriore protezione per prevenire la diffusione del contagio soprattutto in ambienti ad alto rischio come mezzi pubblici o scuole.

La forte azione antimicrobica di questa sostanza è nota, ma finora non era sfruttabile in questo modo in quanto non inalabile perché nociva per l’uomo. La nuova nanotecnologia, messa a punto da un team di italiani, l’ha resa inalabile senza irritare le mucose di naso e gola. La conservazione della soluzione non richiede particolari precauzioni e può essere mantenuta per ben due anni a temperatura ambiente tra i 5 e i 25 gradi C. La nuova tecnologia è stata ideata e sviluppata – si legge in una nota – al team formato da Paolo Galfetti, Roberto De Noni e Giorgio Reiner, dell’azienda italo-svizzera Apr. Prodotti simili derivanti dalla stessa tecnologia sono già stati certificati come dispositivi medici di classe 3, e sono già ampiamente utilizzati da diversi anni anche in Italia, Stati Uniti ed Inghilterra, con altre indicazioni. Diversi test di sicurezza in vitro e in vivo sono stati condotti in questi anni dall’azienda, in aggiunta alla pratica clinica sull’uomo, confermando un ottimo profilo di sicurezza della soluzione in diversi tessuti umani ed una citotossicità fino a 20 volte inferiore rispetto ad altre soluzioni antimicrobiche in commercio.

“Su queste premesse incoraggianti è stato disegnato uno studio clinico randomizzato, monocentrico e controllato per valutare se la soluzione spray, usata per irrigare, idratare e pulire le mucose nasali tre o cinque volte al giorno a intervalli regolari, sia sicura ed efficace in pazienti positivi a Sars-Cov-2 con pochi sintomi, in aggiunta alle terapie standard, per ridurre la carica virale nel naso”, spiega Giancarlo Icardi, dell’Unità di Igiene del San Martino di Genova, responsabile della sperimentazione. “Diminuire la quantità di virus presente nel naso, sia grazie all’effetto meccanico del lavaggio sia attraverso l’efficacia antimicrobica dell’acido ipocloroso, potrebbe ridurre la contagiosità dei pazienti, prevenire l’insorgenza di sintomi più gravi e migliorare il decorso della malattia nella fase iniziale, riducendo anche la probabilità di trasmissione del virus anche ad altri soggetti”. “Se Sars-Cov-2 è presente in minor quantità nelle alte vie respiratorie – continua Icardi – si abbassa infatti la probabilità che possa scendere nelle vie aeree inferiori danneggiando i polmoni, così come il rischio di lesioni locali alle vie nervose olfattive, responsabili della perdita dell’olfatto correlata a Covid-19. Lo spray quindi, se utilizzato nelle fasi iniziali dell’infezione o in caso di esposizione al rischio di infezione, potrebbe diminuire la probabilità del contagio, di un peggioramento clinico e di trasmissibilità dell’infezione”.

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AstraZeneca, Ema: “44 casi sospetti su 9,2 milioni di dosi”. Ateneo di Greifswald: “Nesso? Possibile, non provato. Valutino anche virologi”

“Ancora non sappiamo quale sia la causa“. Il professor Andreas Greinacher, a capo del team di ricercatori dell’università tedesca di Greifswald che stanno studiando i rari casi di trombosi cerebrale che si sono verificati dopo le vaccinazioni con Astrazeneca, spiega che la sua posizione al momento è paragonabile a quella dell’Ema: “Una correlazione tra il vaccino e le trombosi è possibile ma non ancora provata“. Dopo che martedì la Germania ha cambiato le sue prescrizioni, prevedendo la somministrazione di AstraZeneca solo alle persone con più di 60 anni, oggi l’agenzia europea per i medicinali è tornata a ribadire che “i benefici del vaccino di AstraZeneca superano i rischi“. I numeri di casi di trombosi del seno venoso cerebrale rilevati sono “44 su 9,2 milioni di dosi AstraZeneca” somministrate in Ue al 22 marzo, ha evidenziato il capo della farmacovigilanza dell’Ema, Peter Arlett.

Perché allora la Germania ha deciso di modificare il suo piano vaccinale? Secondo i risultati preliminari ottenuti a Greifswald, i rari casi di trombosi cerebrale grave sono stati scatenati da una reazione immunitaria, a sua volta molto rara, che attiva gli anticorpi e quindi innesca la trombosi. I ricercatori tedeschi hanno riscontrato un meccanismo molto simile a una trombocitopenia indotta da eparina (HIT) di tipo 2, in cui si formano anticorpi contro il complesso fattore piastrinico 4 (PF4)-eparina, che provocano appunto l’attivazione delle piastrine. Nella conferenza stampa di oggi, a cui ilfattoquotidiano.it è stato invitato, il professor Greinacher ha sottolineato che ancora si possono formulare solo speculazione su quali siano i fattori che scatenano la produzione di anticorpi. Allo stesso tempo, però, ha evidenziato che i 31 casi sospetti (9 decessi) segnalati in Germania riguardano “persone giovani di età compresa tra i 20 e i 63 anni”. “Finché non sappiamo cosa accade veramente e chi è più a rischio, è meglio vaccinare quei gruppi di età in cui non sono stati trovati casi”, ha spiegato Greinacher.

Che però non ha voluto commentare le diverse raccomandazioni arrivate da Ema rispetto a quelle tedesche, evidenziando che “per cambiarle bisogna tenere conto del rapporto tra rischi e benefici, devono essere interpellati anche virologi ed epidemiologi”, perché “noi a Greifswald abbiamo analizzato 25 casi, un numero bassissimo rispetto ai pazienti che per il Covid curiamo nelle nostre terapie intensive“. La direttrice dell’Ema, Emer Cooke, ha invece sottolineato che “se guardiamo solo alla popolazione sotto i 60 anni, abbiamo rilevato casi in una proporzione di 1 a 100mila“. Riguardo al fatto che le rare trombosi colpiscano soprattutto donne giovani, Cooke ha sottolineato che il dato si conferma nella popolazione in generale, a prescindere dal vaccino: “Se guardiamo alla popolazione generale – ha detto Cooke – il rapporto di casi di trombosi del seno venoso cerebrale tra donne e uomini è di 10 a 1, in particolare nella classe di età 30-45 anni, quindi c’è una incidenza più forte nelle donne giovani in ogni caso”. Inoltre, finora con AstraZeneca in Europa sono state vaccinate quasi il doppio delle donne rispetto agli uomini.

Il professor Greinacher nel corso della sua conferenza stampa ha fatto anche altre valutazioni, soffermandosi sul Regno Unito, dove non sono stati rivelati particolari casi di trombosi dopo il vaccino con Astrazeneca. “Una possibilità è che non sono state riconosciute”, ha affermato. La seconda possibilità riguarda il fatto che gli inglesi che hanno ricevuto AstraZeneca sono soprattutto anziani: “Le trombosi non sono rare tra gli anziani, mentre destano attenzione quando riguardano persone giovani”, ha evidenziato Greinacher. Quel che è certo, invece, è che nessuno dei casi sospetti analizzati dall’università di Greifswald è risultato positivo al Covid-19.

Il professore ha ribadito anche che, secondo i risultati ottenuti, è possibile “rilevare la presenza degli anticorpi che innescano trombosi e trombocitopenia”. Se dopo 4 giorni la persona vaccinata ha sintomi come dolori alle gambe, vertigini, mal di testa o disturbi visivi, può essere eseguito il test. “Abbiamo sviluppato una procedura di test (screening) in grado di rilevare se questi anticorpi sono presenti nei pazienti”, ha confermato Greinacher. Il test “era stato pensato per identificare la trombocitopenia indotta da eparina”. Nel caso di positività, deve essere eseguito un altro test di conferma e poi “può essere prescritta una terapia con l’immunoglobulina endovenosa (ivIgG)”, come spiegato nelle raccomandazioni già diffuse in Germania. La presenza di questo test e la conoscenza di come trattare la reazione immunitaria, secondo Greinacher, da sole non sono sufficienti: “Quando conosceremo la causa, sarà più facile stabilire con certezza chi è a rischio“.

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Covid, le macchie nei bambini colpiti da iperinfiammazione. I medici Usa diffondono foto e informazioni per i pediatri

Sono delle macchie rosse grandi come monete da 1 o 5 centesimi. Possono comparire sulle gambe, molto spesso verso l’interno coscia. Ma anche sul petto e sulla schiena. È così che si presentano le eruzioni cutanee nei bambini affetti da una rara condizione di iperinfiammazione correlata a Sars-CoV-2, chiamata MIS-C. E sono questi i “campanelli d’allarme” che genitori e medici dovrebbero tenere sott’occhio in tempi di pandemia. A diffondere queste nuove indicazioni è un gruppo di medici del Children’s Hospital di Philadelphia in un report pubblicato su Open Forum Infectious Diseases.

MIS-C sta per sindrome infiammatoria multisistemica dei bambini. Inizialmente confusa con la sindrome di Kawasaki, le prime diagnosi sono state effettuate lo scorso anno, quando i medici hanno notato che alcuni bambini esposti a Sars-CoV-2 presentavano un’infiammazione in una serie di organi. I piccoli che ne sono affetti manifestano vasculite (infiammazione dei vasi sanguigni), problemi cardiaci, intestinali e un aumento sistemico dello stato infiammatorio. Caratteristiche in parte comuni a quella di un’altra vasculite, la malattia di Kawasaki, che avevano fatto pensare in un primo momento a un nesso di causalità tra Kawasaki e infezione da Sars-CoV2. Il Center for Desease Control ha affermato che questa condizione può essere fatale, ma che per fortuna nella maggior parte dei casi i bambini sopravvivono.

Tuttavia, diagnosticare questa patologia rara legata al nuovo coronavirus si è subito rivelato complicato. Molti dei suoi sintomi, infatti, sono simili ad alcune comuni infezioni infantili: oltre alle eruzioni cutanee, ci sono febbre e disturbi gastrointestinali. Per questo i medici americani hanno deciso di mettere insieme le informazioni su MIS-C analizzando nel dettaglio la manifestazione della patologia su 7 pazienti. In questo modo hanno concluso che in più della metà dei piccoli pazienti esaminati le eruzioni cutanee si sono presentate con minuscoli punti rossi. I ricercatori americani dicono che nei bambini esaminati non c’è un solo tipo di eruzione cutanea o un solo posto in cui emerge comune a tutti i casi di MIS-C. Hanno così condiviso le foto nella speranza di aiutare i medici a diagnosticare casi futuri. “Ci auguriamo che le informazioni fornite aiuteranno i pediatri generali e i medici del pronto soccorso a capire se un paziente con la febbre richiede un esame più approfondito”, spiega Audrey Odom John, autrice dello studio. “Dato che alcune eruzioni cutanee associate a MIS-C sono distintive, immaginiamo anche che queste immagini potrebbero aiutare molti genitori che sono alla ricerca di segni che indicano che il loro bambino ha bisogno di una valutazione immediata”, aggiunge.

In termini di localizzazione dell’eruzione cutanea, tutti i pazienti nello studio ne hanno sviluppato una nella parte inferiore del corpo e cinque dei sette pazienti hanno sviluppato un’eruzione cutanea nella parte interna delle cosce. Anche le eruzioni cutanee sul petto e sugli arti superiori erano piuttosto comuni: sono comparse su quattro pazienti su sette. Più della metà dei pazienti presentava placche anulari di piccole a medie dimensioni. Più della metà dei pazienti nello studio ha sviluppato anche porpora, cioè minuscole macchie rosse, spesso al centro delle piccole placche anulari circolari.

Meno della metà dei pazienti ha sviluppato un’eruzione cutanea rosso ciliegia sulla parte inferiore dei piedi e sui palmi delle mani. Le eruzioni cutanee sul viso erano rare e raramente hanno causato prurito. “A seconda dell’età del bambino, i genitori potrebbero non guardare regolarmente il petto, la schiena o le cosce , ma è qui che tendono a comparire le eruzioni cutanee associate a MIS-C”, sottolinea John. “Dato che MIS-C è ancora in gran parte una diagnosi che si effettua per esclusione, i genitori e gli operatori sanitari dovrebbero cercare eruzioni cutanee in questi luoghi se il bambino ha una febbre che sembra sospetta”, conclude.

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