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Pallone sonoro e partite giocate nel silenzio: ecco il calcio per non vedenti. A Roma la prima squadra femminile

Il termine in inglese è “blind football”, il pallone è sonoro e le dimensioni sono quelle di un normale campo di calcetto. Gli allenatori sono due: uno in campo, uno dietro la porta avversaria, che parla con gli atleti per aiutarli a fare gol: è fondamentale che le voci non si sovrappongano. Per questo le partite si giocano spesso con il massimo silenzio. Ma ai gol si può sempre esultare. L’associazione Asdd Roma 2000 accoglie da oltre 20 anni, nella capitale, i giocatori e le giocatrici di calcio non vedenti. “Abbiamo fondato la prima squadra di calcio femminile in Italia. E ora sogniamo di dar vita al campionato”, raccontano.

Tutto è nato nel 1998, grazie alla voglia di rilanciare l’attività di calcio per non vedenti che alcuni tra i soci fondatori praticavano da tempo. “Oggi proponiamo ai non vedenti e agli ipovedenti di Roma e provincia un panorama assai nutrito di attività sportive. Il nostro sforzo è anche rivolto alla sperimentazione: per questo, ogni stagione, proponiamo nuove discipline”, racconta al fatto.it Sauro Cimarelli, allenatore, dirigente sportivo ed ex portiere della nazionale dal 1998 al 2005.

Nel 2010 è iniziata l’attività di arrampicata sportiva, con percorsi su roccia e palestra. Nel 2011 la scherma per non vedenti e ipovedenti, in collaborazione con le più importanti realtà schermistiche romane. E ancora: nuoto (per piccoli e piccolissimi), difesa personale (il primo corso di karate organizzato in Italia dedicato ai disabili visivi), equitazione.

Gli iscritti alla squadra di calcio maschile per non vedenti vanno dai 18 ai 60 anni e vantano nell’albo d’oro due campionati nazionali, due supercoppe e una coppa Italia. “Siamo l’unica squadra che ha partecipato finora alla Coppa Campioni”, aggiunge con orgoglio l’allenatore Luca Mazza. La prima squadra e l’under 23 partecipano al campionato nazionale di calcio a 5 non vedenti. “Diversi ragazzi e ragazze sono cresciuti in questi anni – spiegano gli allenatori –. I ragazzi non vedenti hanno così tanto da dare, sia in campo che fuori, e sono determinati nel dimostrarlo. Il loro sogno è diventato realtà anche grazie a noi e a tutti quei volontari che si adoperano per consentirglielo: quello di poter giocare a calcio, di correre dietro a un pallone, di scendere in campo come qualsiasi altro ragazzo”.

Nel 2019 Sauro e Luca decidono di fondare anche una squadra di calcio femminile, la prima in Italia. Le giocatrici hanno tra i 15 e i 30 anni. Gli allenamenti si tengono il mercoledì e il sabato, più il giorno della partita. “Le ragazze fanno enormi progressi: ci occupiamo di coordinamento, equilibrio, abilità motorie. Di tattica parleremo più avanti”, sorride Luca. “Ci piacerebbe dare vita al primo campionato di calcio femminile, magari incontrare altre squadre europee. Per ora ci limitiamo a inserire le ragazze in prima squadra”, aggiunge Sauro. Come Melissa, 16 anni, romana e romanista, che si è appassionata al calcio grazie a Totti e che ha già esordito con i colleghi uomini in un torneo a Bruxelles.

Il movimento calcistico della categoria non vedenti non beneficia di alcun finanziamento, né di sovvenzioni da parte delle federazioni, ci tengono a precisare i responsabili. Negli ultimi anni, insieme a diverse società calcistiche nazionali (Crema, Lecce, Fiorentina, ad esempio) si sono create alcune affiliazioni, che hanno consentito alle rispettive squadre non vedenti di raggiungere ottimi risultati. “L’Asdd Roma per ora non riesce a farlo, per mancanza di strutture, mezzi e materiali calcistici adeguati. Siamo la prima società, e forse l’unica, ad avere creato e sviluppato un percorso calcistico che inizia dalla scuola calcio e finisce alla prima squadra interamente dedicato a ragazze e ragazzi non vedenti”.

Dalle Olimpiadi di Atene del 2004, il calcio a cinque per non vedenti è riconosciuto come disciplina paralimpica. Tra i progetti futuri dell’associazione c’è la possibilità di partecipare a corsi di vela, tiro con l’arco, atletica leggera. “Stiamo cercando di avere un campo di calcio a 5 tutto per noi che preveda, così come da regolamento internazionale, la presenza delle sponde lungo le linee laterali. L’affiliazione a qualche società dilettantistica romana sarebbe per noi importante, proprio per iniziare a coltivare i nuovi progetti”.

Quando la Roma ha vinto la Conferenze League, lo scorso 25 maggio, la società ha organizzato un evento per incontrare i tifosi nei quartieri. Anche Michela e le sue compagne hanno potuto così toccare da vicino la Coppa. “È stata un’emozione unica – racconta Sauro, presente con tutta la squadra –. L’hanno accarezzata, coccolata”. Quando sono arrivati la prima volta al campo in tanti non camminavano. Erano insicuri, la paura li bloccava. Oggi tutti corrono liberi dietro la palla. “In certi casi noi allenatori – conclude – diventiamo per loro la luce”.

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Uber e taxi, i motivi per cui il servizio online sbaraglia la concorrenza

di Derek

Viaggiando da anni per lavoro, specialmente negli Stati Uniti, ho una certa dimestichezza con Uber. Iniziai ad usarlo durante una fiera a Las Vegas. Arrivato a notte fonda in aeroporto presi il taxi per l’hotel. Il solito tragitto tra terminal e Strip, una decina di chilometri, che già diverse volte avevo fatto. A destino l’autista mi chiese 38 dollari come mostrava il tassametro. Solitamente ne spendevo tra i 15 e 20; mi ero accorto che aveva allungato la strada, turista straniero, notte fonda: ci ha provato. Ero talmente stanco che non persi tempo a discutere inutilmente, pagai con la carta di credito (almeno quella la prendono sempre), entrai in stanza e complice il jet-lag scaricai l’applicazione e creai l’account. Da quella volta raramente quando è presente Uber uso i taxi.

Chi ha usato il servizio può facilmente capire la serie di motivi:

1) La cosa principale è che sai prima di prenotare la corsa quanto spenderai (potendo scegliere tra diversi servizi tra cui alcuni davvero super economici come le corse condivise). Questo assicura anche, tra l’altro, che l’autista faccia sempre la strada più breve;

2) Si paga con la carta di credito associata all’app, non c’è scambio di denaro, pretesa di mance (che puoi dare sempre tramite l’applicazione) o sorprese dell’ultimo;

3) Si prenota la “presa” con l’app nel punto in cui ci si trova;

4) Quasi sempre ho trovato auto più nuove e pulite;

5) Il sistema delle recensioni che incentiva l’autista a essere cordiale e veloce;

6) Report dei viaggi via mail, molto utile per esempio quando si viaggia per lavoro per la compilazione delle note spese. (Credo tra l’altro che sia disponibile l’integrazione con i servizi on line usati da molte aziende per le note spese).

Viaggiando molte volte da solo mi è capito di chiacchierare con agli autisti e indagare come la comparsa di Uber sia stata vissuta nel loro territorio, scoprendo che, come sempre, c’è stata la rivolta dei taxi; cosa che ovviamente non ha impedito l’introduzione del servizio (compresi i concorrenti come Lyft) e la convivenza. Mi è addirittura capitato di conoscere anche driver che lavoravano per le compagnie dei taxi e arrotondavano con Uber. Ovviamente non sarà tutto rose e fiori, ma mi sono sempre sembrati contenti di come venivano trattati e pagati.

Qualche soluzione per privilegiare i taxi in America è stata adottata. Per esempio la zona pick-up negli aeroporti non è la stessa dei taxi (che è immediatamente fuori dal terminal), spesso devi camminare un po’ per arrivarci, magari fino al parcheggio multipiano; stessa soluzione che ho visto anche in molti hotel e centri commerciali.

Si deve certamente lottare per i propri diritti, specialmente se si è pagata una licenza molti soldi, tuttavia la storia insegna che non ci si può opporre al progresso. La strada credo debba essere quella di cavalcarlo, rendendosi a propria volta concorrenziali in termini di servizio, professionalità e, se possibile, innovando a propria volta.

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Greta Beccaglia: quand’è che le donne possono ricevere solidarietà ed empatia da noi uomini?

di Jakub Stanislaw Golebiewski

Ieri pomeriggio ho assistito a una polemica tra Marco, un mio conoscente, e sua figlia adolescente sulla manata inflitta dal tifoso dell’Empoli alla giornalista Greta Beccaglia. Il padre le spiegava che quella “semplice” pacca sul sedere era certamente frutto di maleducazione, ma non era poi un fatto così grave perché “c’è di peggio”. Continuando con tono pacato le diceva che quell’uomo, comunque, avrebbe pagato amaramente la sconsideratezza del gesto col Daspo, non avrebbe potuto seguire la squadra del cuore per tre anni e avrebbe persino subito un processo rischiando dai 6 ai 12 anni di carcere. Per di più stava subendo una gogna e tutto questo per una semplicissima pacca sul sedere.

La figlia controbatteva: “Voi uomini dite così perché non sapete cosa significa avere le mani addosso“.

Mi è sembrato che Marco fosse abbastanza indifferente alle parole e alla rabbia della figlia. Se fossi stato al suo posto mi sarei preoccupato e avrei chiesto se per caso fosse capitato anche a lei di subire palpeggiamenti o altre forme di aggressione verbale per strada o a scuola.

Tra quel noi (le donne) e quel voi (gli uomini), nelle parole concitate di quella adolescente, stava tutta la distanza tra la condizione maschile e quella femminile. Tra chi camminando per strada può essere apostrofata, palpeggiata e molestata e chi può camminare tranquillo perché non sarà mai trattato come una preda sessuale. Il catcalling o molestie sessuali sono un fenomeno tutt’altro che banale, che condiziona la vita di milioni di donne nel mondo.

Un paio di anni fa, il gruppo americano “Hollaback!”, in collaborazione con la Cornell University, ha condotto una ricerca coinvolgendo 22 Paesi sull’impatto delle molestie sessuali sui comportamenti delle donne che le subiscono. È emerso che l’84% delle donne intervistate ha ricevuto molestie dalla strada prima dei 17 anni con conseguenze psicologiche negative. Le vittime hanno raccontato di provare sentimenti di rabbia e umiliazione. L’Italia è risultata essere tra i Paesi con la più alta percentuale di donne che hanno scelto di cambiare strada per tornare a casa dopo aver subito episodi di catcalling.

Non possiamo quindi minimizzare come ha fatto Marco che, come tanti altri, pensa: “Che cos’è poi una pacca sul sedere, uno strusciamento, qualche parola lasciva? Le violenze sono ben altre”.

Eppure, anche quando le violenze sono ben altre e si tratta di stupri e abusi che le donne denunciano, noi uomini non ci troviamo mai immersi in una corale e comune indignazione a sostegno alla vittima. Ci sono sempre dei “se” e dei “ma”, ci sono le giustificazioni per gli stupratori, ritenute attenuanti, e i giudizi sommari sulle donne che hanno subito lo stupro a significare (per loro) che è la stessa donna la causa dello stupro. O non si crede alle vittime, dubitando della loro parola, o le si denigra per essersi messe in quella situazione, per aver bevuto, per essere andate in giro di notte in minigonna e autoreggenti, per le loro scelte sessuali, per aver provocato. Ma allora quand’è che le donne possono dire no a una violenza, che sia una pacca sul sedere, un commento volgare o uno stupro, ricevendo solidarietà ed empatia da parte di tutti, e mi riferisco soprattutto a noi uomini?

In fondo l’ipocrisia del benaltrismo cela malamente il fastidio per un silenzio che è stato rotto. I tifosi che hanno innalzato lo striscione nello stadio la domenica successiva all’aggressione di Beccaglia – “Razzisti, sessisti mai giornalisti” – hanno addirittura sbandierato un orgoglio misogino e maschilista, come del resto ha fatto anche il giornalista Filippo Facci dopo essere stato bannato da Facebook per aver ironizzato sull’aggressione a Greta Beccaglia.

C’è chi si sarebbe sentito molto meglio se quest’ultima avesse sorriso e fatto finta di niente. Quando invece le donne rompono il silenzio e dismettono la maschera del sorriso perché un uomo pensa di poterle trattare come “pali della luce da prendere a calci”, in troppi reagiscono con stizza e rancore. Forse, e ne sono fermamente convinto, hanno qualche scheletro nell’armadio o temono prima o poi di averlo.

Cari maschietti alfa, svegliamoci da questo incantesimo cercando di essere civili, sempre e con chiunque.

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Clima, anche il papa interviene: ormai si parla di Eof, ‘the Economy of Francesco’

“Lotta alla povertà, istruzione, ecologia”, titola l’Avvenire riferendosi ai lavori che ad Assisi hanno inaugurato il mese di ottobre con gli approfondimenti su quella che ormai si chiama Eof: the Economy of Francesco.

Recentemente papa Bergoglio è nuovamente intervenuto sul tema cruciale del cambiamento climatico, criticando in un videomessaggio al convegno Youth4Climate l’insufficienza delle misure tecniche e politiche sin qui adottate. “Non è più il tempo di aspettare, bisogna agire”, ha sottolineato. È il momento di “superare le frammentazioni e di ricostruire il tessuto delle relazioni di modo che possiamo giungere a un’umanità più fraterna”.

Quanto più si avvicina l’appuntamento del Cop26, la conferenza sul clima promossa dalle Nazioni Unite che si terrà a Glasgow a novembre, tanto più aumenta il nervosismo dei governi. I problemi sono complessi e molteplici: economici, sociali, geopolitici. Resta il fatto che la svolta sui gas serra è urgente per la pura e semplice salvaguardia del pianeta.

Che il papa argentino sia in prima fila in questa vicenda cruciale dimostra la capacità dei pontefici da Giovanni XXIII a oggi (con la sola eccezione del papa “non politico” Ratzinger) di collocarsi di volta in volta agli incroci decisivi della storia contemporanea, ponendosi come interlocutori della società nonostante la crisi della secolarizzazione aggredisca le strutture della Chiesa.

Molto prima che Greta Thunberg si affacciasse sulla scena, papa Bergoglio aveva lanciato nel 2015 la prima enciclica verde cattolica, Laudato si’, la cui importanza sta nel fatto di avere individuato e denunciato con chiarezza lo stretto legame tra degrado naturale e degrado sociale, tra politiche, interessi e comportamenti che rovinano la natura ed esiti rovinosi sul piano della qualità della vita di miliardi di uomini in quanto frantumano il “bene comune”.

Incendi, alluvioni, desertificazioni, inquinamenti non sono più incidenti casuali, ma espressioni di una malattia permanente. Non a caso, nella drammatica preghiera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta, Francesco esclamò che non era possibile pensare di “rimanere sempre sani in un mondo malato”.

È noto che all’elaborazione dell’enciclica Laudato si’ ha collaborato il brasiliano Leonardo Boff, teologo della liberazione messo alle strette negli anni Ottanta dal cardinale Ratzinger (allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede) e definitivamente costretto all’uscita dall’ordine francescano dalla persecuzione di Giovanni Paolo II. Le sue riflessioni, pubblicate nel pamphlet Abitare la terra. Quale via per la fraternità universale (ed. Castelvecchi), sono un pungolo anche al pensiero laico, perché uomini e donne di qualsiasi impostazione filosofica o religiosa rileggano con attenzione le due encicliche fondamentali di Bergoglio: Laudato si’ e Fratelli tutti.

Il tema è attualissimo perché in questi mesi i governi dei paesi avanzati si stanno misurando con la ripresa economica e sociale, dopo i colpi catastrofici inferti dalla pandemia di Covid-19 nel biennio 2020-21. Anche in Italia viviamo in queste settimane l’interrogativo se Recovery significherà ripristinare lo stato delle cose precedente o imboccare una nuova strada – come avvenne in Europa dopo la II guerra mondiale con la costruzione dello stato sociale.

Boff parla il linguaggio senza sconti di chi conosce, dalla sua esperienza brasiliana, la brutalità dello sfruttamento delle masse subalterne. “Lo 0,1% per cento dei miliardari che controllano il 90% per cento delle risorse economiche e speculative – scrive il teologo che si occupa da anni di economia sostenibile – si sta già attivando per imporre un ordine capitalista ultra-neoliberista ancora più radicale di quello precedente la pandemia”.

Di sicuro le resistenze al cambiamento di direzione della macchina economico-sociale sono e saranno fortissime. Sulla scena si misurano volontà di potenza da un lato e miseria, fragilità ed emarginazione di miliardi di uomini e donne dall’altro. Chiudere gli occhi è una scelta, non può passare per distrazione. Boff cita Francesco, che in Fratelli tutti considera che “far funzionare meglio” ciò che si faceva prima, migliorando soltanto i sistemi e le regole esistenti, significa che si sta “negando la realtà”. Così come – sempre Francesco – ricorda nella Laudato si’ che l’idea di una crescita infinita e senza limiti “suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta”.

Sottolinea Boff che la scelta del cambiamento esige nei cuori e nelle menti un mutamento di paradigma: il passaggio dal dominus al frater. Dal padrone alla fratellanza. Non è un gioco di parole. Basti solo pensare in tempi di pandemia alla cornice di socialità insita in un sistema sanitario nazionale e all’impronta darwiniana insita nel sistema sanitario assicurativo personale all’americana.

Francesco, con provocazione profetica, parla della necessità di dare spazio anche nella politica ad un atteggiamento che realizzi la “tenerezza” nei rapporti. Il che implica al tempo stesso – come ammonisce il papa argentino – che la politica non deve subordinarsi supinamente ai dettami dell’economia e della tecnocrazia.

Quanto profonde siano le radici del cattolicesimo sociale, che Bergoglio sviluppa, lo nota nella prefazione Pierluigi Mele quando rievoca la concretezza e la passionalità di Giorgio La Pira, sindaco a Firenze nell’aspra stagione della Guerra Fredda: “Non posso essere indifferente… Posso restare inerte di fronte alle disuguaglianze”, alla dignità calpestata, ai diritti umani conculcati?

A ogni tornante storico l’interrogativo si ripropone.

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A giurisprudenza sempre meno iscritti. Ma il futuro non è tutto avvocatura-tribunale

Fa registrare un -38% il numero degli iscritti al primo anno nelle facoltà di Giurisprudenza italiane. Un dato che, da solo, basta a confutare l’esigenza del ricorso al numero chiuso. Rilevante anche il dato riguardante l’intero corso di studi: dall’11,1% si è scesi al 7,2%.

Studiare giurisprudenza interessa a un numero sempre minore di giovani? Così sembrerebbe stando ai numeri. A ciò si aggiunge una qualità in uscita drammaticamente scadente con troppi neolaureati incapaci di rispondere alle domande di un settore legale in evoluzione, che richiede sempre di più la presenza di nuove figure professionali. Sembrerebbe trovare riscontro, dunque, l’ipotesi che il mercato del lavoro legale sia saturo. Soprattutto a fronte di una lettura, forse fin troppo superficiale, sul numero degli avvocati.

Se, da una parte, l’Avvocatura ha rappresentato per molti una professione a cui guardare come una sorta di ammortizzatore sociale, dato il blocco del turn over nella Pa, dall’altra, occorre sfatare un mito perché non sono troppi i laureati in giurisprudenza rispetto alle attuali possibilità di inserimento che il mercato offre loro.
In realtà sono troppo pochi i neolaureati attrezzati e predisposti a entrare in un mercato del lavoro diverso da come se lo immaginavano all’inizio del percorso di studi. In Europa si parla di professione legale 4.0, perché l’impiego giuridico deve essere percepito con una nuova consapevolezza.

Si pensi, per esempio, agli smart contracts, alle identità digitali, al cyber crime. Si richiede al laureato in giurisprudenza saperi assai distanti dal radar accademico-didattico di numerosi atenei italiani. A fine laurea, gli studenti rischiano di trovarsi poco specializzati, perché reduci da uno studio mnemonico di norme e codici, a fronte di tipologie di esami che a volte sembrano modellati proprio per incentivare questo tipo di approccio allo studio, solo teorico e manualistico, con tempi dello studio marcatamente professore-centrici, dove sono totalmente assenti le discipline logiche, storiche e delle scienze umane come le sociologie.

L’acquisizione di tasks e procedure – che nella mente dello studente dovranno essere apprese e messe in pratica in un futuro piuttosto remoto – rimane sfavorita. Troppi i corsi di laurea che puntano sulla preparazione normativa manualistica tradizionale, poco sensibili alle esigenze pratiche del futuro giurista, che dovrà imparare a saper negoziare col lessico giuridico di lingue straniere, a comunicare con efficacia, a delegare, ad assumere responsabilità decisionali e a dare il feedback. Limitarsi dunque al binomio avvocatura-tribunale può rendere il mercato del lavoro legale più saturo di quel che sembra. Le facoltà dovranno preparare i loro studenti all’eventualità di decidere di volersi allontanare dalle carriere giuridiche tradizionali.

L’applicazione del diritto in aree nuove vede tra le rivoluzioni che il mondo legale sta conoscendo, prima tra tutte, quella del processo telematico. Ai neo-giuristi si chiede, infatti, dimestichezza con le nuove modalità di deposito dei ricorsi in quel settore. In questo quadro si inserisce, con la riforma Cartabia, l’”Ufficio del Processo” a cui sembrano guardare con grande interesse, come approdo, molti avvocati insoddisfatti della propria condizione professionale e della marginalizzazione economica a cui è soggetta. Si parla, non a caso di “fuga dalla professione forense” che, se realizzata davvero, concretizzerebbe, in un colpo solo, il sogno di chi vede nel numero degli avvocati la causa unica del carico della giustizia.

Ma lo scenario dell’”Ufficio del Processo” comincia già a mostrare una serie di debolezze. Non è dato sapere quali saranno “davvero” i compiti e l’organizzazione di tale “Ufficio”, in che modo si collocherà nel rapporto tra i magistrati e la cancelleria e se sovrascriverà l’attuale presenza dei tirocinanti, dei quali, del resto sembra proprio ricalcare le attività. Sarebbe stato opportuno, viceversa, indicarne sin da subito, con apposite linee guida, il corretto funzionamento e, per evitare sovrapposizioni di ruoli e mansioni, affidare il coordinamento dei funzionari, in relazione all’effettivo carico del Distretto, al Consiglio Giudiziario, sottraendo gli stessi alla signoria del singolo magistrato. Inevitabile la conclusione che, per svolgere tale mansione, non occorra una laurea magistrale né tantomeno ulteriori titoli iper-qualificanti post-laurea. Sarebbe bastato potenziare la laurea triennale in scienze giuridiche per la formazione dei futuri paralegal.

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Covid, la vaccinazione non è un dovere ma un diritto: basta col clima da caccia alle streghe

di Luciano Sesta*

Pur essendo fortemente raccomandata da governi e autorità sanitarie, la vaccinazione anti-Covid rimane in quasi tutti gli Stati del mondo giuridicamente facoltativa, e non può dunque essere considerata né necessariamente immorale (come pensano i no vax), né moralmente necessaria (come pensano i pro-vax).

Ora, in un contesto in cui esiste, formalmente, il diritto giuridico di non vaccinarsi, non si può essere considerati né giuridicamente né moralmente responsabili delle conseguenze che derivano dall’averlo esercitato. Se avvalersi di un diritto comportasse, ipso facto, conseguenze penali o immorali, un simile diritto non esisterebbe nemmeno. Diverso è naturalmente il caso del dovere, giuridico o morale, che io posso avere o non avere al di là del mio diritto di non vaccinarmi. Si tratta del dovere di agire con responsabilità, morale e giuridica, nei confronti degli altri. Questo dovere, sia morale sia giuridico, oggi è previsto; non lo è quello di vaccinarsi, che è appunto un diritto e non un dovere, ma quello di osservare le norme di prevenzione – mascherina e distanziamento – richieste a tutti, vaccinati e non.

Se, come invece pensano oggi in tanti, il dovere (morale e giuridico) di non danneggiare terzi, e dunque di tutelare la propria e l’altrui salute, potesse essere assolto unicamente tramite la vaccinazione, non esisterebbe per i vaccinati il dovere supplementare (morale e giuridico) di usare la prudenza richiesta anche ai non vaccinati. Questa circostanza accomuna tutti i cittadini nei doveri di solidarietà (mascherine e distanziamento), diversificandoli nei diritti di libertà (vaccinarsi, non vaccinarsi). In questo modo siamo tutti oggettivamente uniti nel contrastare il virus e diversi solo nel modo personale di farlo.

Come si può notare, il carattere giuridicamente facoltativo del vaccino è pienamente compatibile con la comune responsabilità, richiesta a ogni cittadino, di tutelare la propria e l’altrui salute. Eppure, nonostante ciò, chi ha deciso di non vaccinarsi appare oggi, in Italia, non già come un soggetto con cui interagire in uno Stato costituzionale di diritto, ma come l’oggetto di una rieducazione sociale. Non a caso i principali organi di stampa e i media usano spesso espressioni come “caccia ai non ancora vaccinati” per indicare lo sforzo finale di una campagna in dirittura di arrivo. Dove il termine “caccia” fa ben intendere come i cittadini che si avvalgono del pur riconosciuto diritto di non subire un trattamento non imposto dalla legge sono non già “qualcuno con cui parlare”, ma “qualcosa su cui agire”. E dove l’espressione “non ancora vaccinati” lascia trasparire, in quell’avverbio di tempo, il carattere solo provvisorio di una resistenza destinata a essere piegata dal trionfale procedere dell’immunizzazione collettiva.

Intercettarli, snidarli, ricattarli, minacciarli di finire intubati, escluderli, esasperarli, sfibrarli, persino corromperli con offerte di alcolici, gelati, denaro e persino sostanze stupefacenti. C’è un nervoso crescendo in questo “tutto per tutto” disposto a carte false pur di inoculare anche una sola dose in più di fronte a chi, ancora legalmente, risponde: “no, grazie”.

Sintomo del disagio che, nella storia, il potere ha sempre sperimentato di fronte al limite dell’habeas corpus, il risentimento con cui alcuni conducono la campagna vaccinale, divenuta ormai “caccia” del non ancora vaccinato o sua decretata esclusione dallo spazio protetto della vita sociale, dipinge i non vaccinati come dei veri e propri untermenschen. Come se una persona non vaccinata contro il Covid fosse, in quanto tale, un soggetto arcaico e viscerale, collocato ai margini della civilizzazione, ancora immerso in quello stato di natura dove vale la legge dell’individualismo animale e del rozzo egoismo di chi non comprende che, non ricevendo il siero, farà mancare agli altri la necessaria protezione dal rischio di ammalarsi e di morire.

Costringerlo è dunque l’unico modo di addomesticarlo, limitando i danni del suo ottuso rifiuto. A ciò si aggiungano le proposte punitive di rifiutare l’assistenza ai non vaccinati eventualmente bisognosi di ospedalizzazione o di addossar loro i costi delle cure, come se chi ne ha diritto ne godesse non in qualità di contribuente, ma perché si è moralmente comportato in un certo modo, secondo una logica che lascerebbe senza scampo fumatori, bevitori e amanti dei cibi grassi. O si pensi anche, nei casi più estremi, all’augurio, frequentemente rivolto ai non vaccinati sui social, di finire intubati per poter finalmente “capire”. È in questo linguaggio e in questo clima di moralismo sanitario che si consuma la percezione, da parte dei non vaccinati, di essere non tanto gli interlocutori di un dialogo finalizzato a persuaderli, quanto i nemici di una guerra che mira a sconfiggerli.

In questo desolante quadro, è davvero così impensabile provare ad aprire lo spazio di un confronto civile in cui, pur rimanendo ciascuno convinto della superiore bontà della propria opinione, possa almeno evitare di criminalizzare quella altrui? Nella situazione in cui ci troviamo oggi, fatta salva la necessità di continuare a promuovere una vaccinazione libera e informata dei soggetti fragili – e questo allo scopo di contribuire ulteriormente alla già bassa incidenza di ricoveri e decessi – anche la vaccinazione di tutti gli altri cittadini dovrebbe rimanere libera, senza discriminazioni per chi decide, legittimamente, di tutelare la propria e l’altrui salute in modo diverso dalla vaccinazione. Del resto, dopo tutto ciò che abbiamo appreso sulla contagiosità dei vaccinati, siamo davvero così certi che, anche quando agiscono nella comune prudenza richiesta a tutti, i non vaccinati che non sono comunque a rischio siano i soli responsabili di ciò che accade nello spazio pubblico e negli ospedali? Perché invece non vedere, nelle norme di prevenzione imposte a vaccinati e non vaccinati, un segno della comune dignità di tutti i cittadini a prescindere da green pass e vaccinazione?

Gli antropologi, qui, sembrano trovare abbondante materia di conferma delle loro ipotesi: la logica del “capro espiatorio” è insopprimibile. Il bisogno di prendersela con qualcuno, attribuendogli la responsabilità di un problema comune, supera il desiderio di risolverlo insieme a lui. Impedendo a tutti noi di aprire gli occhi, magari per scoprire che, anche se sta usando armi diverse dalle nostre, persino chi sembra un nemico è in realtà un nostro alleato.

*docente di bioetica e filosofia morale dell’Università di Palermo

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Basta armi a chi è sottoposto a Tso, ma sarà sufficiente a ridurre gli atti criminosi?

di Giambattista Giangreco

Il 30 luglio è diventato legge l’emendamento del deputato Pd Umberto Buratti, che consente al sindaco di comunicare al Prefetto i nominativi di coloro che sono sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori (Tso) per patologie che pregiudichino i requisiti psico-fisici per l’idoneità al porto d’armi. L’istituzione, a cura del Prefetto, di liste o registri nominativi impedirebbe che chi abbia subito un Tso vada in giro a sparare alla gente. Parrebbe un’iniziativa lodevole; in realtà siamo di fronte all’ennesimo provvedimento legislativo inefficace e, cosa ancor più grave, inutilmente discriminatorio. La norma non tiene conto della legislazione che regola il Tso, né delle norme vigenti per l’ottenimento del porto d’armi.

Se l’intento della legge è limitare la possibilità per i soggetti sottoposti a Tso di prendere la licenza per il porto d’armi, va detto che l’essere sottoposto a questa misura non è di per sé indicatore di comportamenti pericolosi, né di disturbi mentali protratti nel tempo, ma di una condizione di disagio specifica e transitoria. Si tratta per l’appunto di un dispositivo sanitario, raramente utilizzato, e inserito in un percorso di cura nei confronti di persone con sofferenza psichica. Inserire il loro nominativo in registri appare ingiustificato, inefficace rispetto agli obiettivi della norma e soprattutto gravemente discriminatorio; si torna indietro di più di quarant’anni, prima della Riforma Basaglia del 1978, che fissava il principio base che il “matto” non è pericoloso a prescindere. Del resto, non ci sono dati da cui emerga una significativa correlazione tra atti criminosi agiti con l’utilizzo di armi e l’essere affetti da patologie psichiatriche.

In Italia, poi, il rilascio del porto d’armi è subordinato alla verifica di condizioni di idoneità psicofisica, con una valutazione psichiatrica. Il certificato di idoneità risulta quindi necessario per il “nulla osta” e va rinnovato ogni cinque anni. La normativa garantisce pertanto un controllo tale da ridurre al minimo la possibilità che una persona con problemi psichici ottenga l’idoneità al porto d’armi. Alla luce di ciò, può l’istituzione di registri nominativi presso le Prefetture ridurre il numero di fatti violenti compiuti con l’utilizzo di armi da fuoco?

Alcuni recenti fatti di cronaca inducono a rispondere “no”, pur avendo influito nel dibattito sull’emendamento Buratti che destituiscono il fondamento: sono tutti stati compiuti da soggetti cosiddetti “normali” che, a quanto risulta, non sono mai stati sottoposti a Tso o ad altri trattamenti di natura psichiatrica. Si pensi al carabiniere che spara alla moglie e alle figlie e poi si suicida (marzo 2018); al giovane che, in possesso della pistola del padre, uccide un anziano e due bambini (giugno 2021); all’assessore comunale “sano” che spara ad una persona “non sana” togliendole la vita (luglio 2021).

Questi avvenimenti dimostrano quanto istituire registri che discriminano cittadini con sofferenza mentale per proteggere la collettività sia il risultato di una mistificazione della realtà. Le origini della violenza agita con le armi da fuoco e la pericolosità sociale a essa connessa andrebbero cercate al di fuori del perimetro della Salute Mentale. L’utilizzo di sostanze stupefacenti, l’abuso di alcol, le condotte delinquenziali e antisociali sembrano essere le cause maggiormente scatenanti. Da non sottovalutare, inoltre, la presenza di situazioni stressanti o comunque a rischio (ad esempio una separazione o la grave malattia di un congiunto).

Come prevenire allora il verificarsi di atti criminosi legati all’uso di armi? Senza discriminare nessuno si potrebbe, ad esempio, modificare la norma che prevede il rinnovo del porto d’armi ogni cinque anni. Si tratta di un intervallo lunghissimo durante il quale molte cose possono cambiare nell’esistenza di un essere umano. Riducendo significativamente questo periodo, sarebbe più facile individuare le situazioni a rischio.

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Le ingenti risorse destinate alla spesa militare sarebbero preziose se destinate altrove

di Giovanni Casciaro

L’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri, www.sipri.org.) nel suo rapporto annuale riporta: nel 2020 la spesa militare totale nel mondo è salita a 1.981 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6% rispetto al 2019, malgrado una diminuzione del Pil globale del 4,4%. E per il 2021 è previsto un ulteriore aumento con il superamento della cifra di 2.000 miliardi di dollari. Questo avviene mentre la pandemia e la crisi climatica condannano milioni di persone alla povertà: non è un uso scellerato delle risorse pubbliche?

In particolare, dal rapporto risulta che gli Stati Uniti, al primo posto nel mondo per spese militari, hanno investito nel 2020 circa 778 miliardi di dollari, con un aumento del 4,4% rispetto al 2019, arrivando al 39% della spesa militare totale; la Cina, al secondo posto, ha impegnato circa 252 miliardi di dollari, con un aumento dell’1,9%; e la spesa militare della Russia si aggira intorno a 61,7 miliardi di dollari, con un aumento del 2,5%. Significative sono state le spese militari della Nato, che hanno raggiunto la cifra di 1.100 miliardi di dollari, con un aumento del 13,6% rispetto al 2019, rappresentando quasi il 56% del totale della spesa militare mondiale.

Si tratta di risorse pubbliche ingenti: sarebbero preziose se fossero utilizzate nella lotta alla povertà, nel potenziamento della sanità e della scuola. Tali enormi spese a favore dell’apparato bellico, con Stati Uniti e Nato in testa, decise dai governanti dei Paesi per “assicurare sicurezza e stabilità”, in realtà aggravano le contrapposizioni e la pericolosa escalation al riarmo. E, se si considerano anche le mega esercitazioni militari, la “guerra dei dazi”, le sanzioni economiche, le espulsioni, le ritorsioni, si avverte la dimensione della crescente tensione internazionale.

In questa situazione allarmante numerose sono le iniziative delle organizzazioni della società civile in diversi Paesi. In Italia “Sbilanciamoci”, “Rete Italiana Pace e Disarmo” e altre associazioni hanno sollecitato i governi di tutto il mondo a ridurre drasticamente le spese militari, limitare gli enormi profitti del settore bellico e utilizzare le risorse risparmiate per far fronte alle gravi emergenze in ambito sanitario, umanitario, economico, climatico e ambientale. Lo slogan lanciato da queste organizzazioni è: “Definanzia gli eserciti, difendi le persone e il Pianeta”.

Per quanto riguarda l’Italia, l’istituto Sipri riporta per il 2020 una spesa di 28,9 miliardi di dollari, con un aumento del 7,5% rispetto al 2019. E per il 2021 è previsto un ulteriore aumento, superiore all’8%, a cui aggiungere le rilevanti ricadute del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a favore del settore militare. Quindi sono ingenti le risorse impegnate dai governanti italiani per le spese militari, malgrado l’enorme debito pubblico e i tanti bisogni disattesi dei cittadini. Mentre la maggioranza degli italiani, secondo un recente sondaggio condotto da YouGov per conto di Greenpeace, è favorevole alla loro riduzione e contraria all’esportazioni delle armi soprattutto verso i paesi dittatoriali.

Intanto l’apparato industriale e finanziario del settore bellico, forte degli enormi profitti realizzati, continua a influenzare pesantemente i decisori politici attraverso azioni di pressione, “porte girevoli”, finanziamento dei partiti e delle loro fondazioni. Per questo è necessario opporsi alle scelte politiche in atto, garantendo un forte sostegno alle iniziative a favore della Pace realizzate dalle organizzazioni della società civile.

Bisogna pretendere la soluzione delle controversie internazionali, non con minacce e guerre, ma attraverso trattative nelle sedi internazionali preposte. È importante affermare quanto stabilito dalla Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

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“In Calabria ci dicevano che non c’era niente. Ma siamo tornati per allevare bachi da seta imparando dagli anziani”


“Ci hanno sempre detto che qui in Calabria non c’era niente. Se non c’è niente, abbiamo pensato, allora c’è tutto da fare”. Miriam Pugliese ha 30 anni, alle spalle un lavoro a Milano e poi uno a Berlino; Domenico Vivino ne ha 32, è laureato in Sociologia con 110 e lode; Giovanna Bagnato, 30 anni, è nata e cresciuta in Calabria. Ed è proprio qui, nel borgo di San Floro, 730 abitanti in cima a una collina nella provincia di Catanzaro, che i 3 giovani hanno deciso di tornare, lanciando una cooperativa agricola che vanta seimila visitatori l’anno, un’Accademia della seta con studenti da tutto il mondo e una filiera in collaborazione con le artigiane del territorio. “E pensare che ci prendevano per pazzi, all’inizio”.

Una sera d’estate Miriam, Domenico e Giovanna si ritrovano a San Floro: “Siamo amici da sempre – raccontano –. Volevamo fare qualcosa per il nostro territorio. Siamo partiti dalle nostre radici, miscelando tradizione e innovazione”. Nel 2015 chiedono al Comune di poter ottenere la convenzione per lavorare circa 5 ettari di terreno in disuso, assieme ad un museo della seta all’interno di un vecchio castello. “Il recupero e rispetto della tradizione sono un pilastro fondamentale della nostra cooperativa e filosofia di lavoro”, raccontano. Specialmente in questo borgo, dove la lavorazione della seta era una tradizione molto radicata. Col tempo, però, dimenticata.

“Quando abbiamo iniziato non eravamo esperti né di seta né di bachicoltura – sorride Miriam –. Abbiamo seguito gli anziani che lavoravano nella filiera serica del borgo, cercando di impararne i segreti”. I tre amici sono stati poi in Asia, in Thailandia, India e Messico, dove hanno studiato modi non convenzionali per la lavorazione della seta. “E così abbiamo pensato di creare un sistema di artigiani e di coinvolgere (al 90%) le donne del territorio, che ci aiutano a lavorare la fibra”. In più è nata una vera e propria Accademia per tramandare la lavorazione serica. “Mai potevamo pensare ad un’affluenza da diverse parti del mondo: Argentina, Inghilterra, Finlandia”.

Sveglia presto, giornate piene, ritmi serrati. “Non vogliamo vivere in posti dove non si vede più il cielo”, sorridono. Miriam, Domenico e Giovanna hanno cercato di riprodurre tutta la filiera serica, dall’allevamento del baco, passando per la lavorazione delle more di gelso, l’agricoltura biologica, l’agriristoro. Senza tralasciare la parte turistica. “Molti vengono a vivere una eco-esperienza nel mondo della seta”, spiega Miriam. E lo fanno giungendo qui da tutto il mondo.

L’ostacolo più grande? La burocrazia. Un aiuto dallo Stato? Mai visto. “I finanziamenti mirati a sostenere determinate attività, specie in aree svantaggiate come la nostra, sarebbero importanti. Ad oggi gli aiuti regionali o europei nei nostri confronti sono pari a zero”, spiega Domenico.

Con l’emergenza sanitaria legata alla pandemia si è “ripensato il modo di fare impresa”, puntando sul commercio online: i ragazzi di Nido di Seta hanno creato dei kit per l’allevamento del baco e la filatura da casa. Durante il lockdown, così, “tantissimi ragazzi e ragazze hanno provato l’emozione di allevare i bachi da seta nella propria casa, proprio come si faceva un tempo”. In più è stata lanciata la campagna #adottaungelso, il primo progetto di agricoltura condivisa del settore, con centinaia di iscrizioni raccolte dalla Calabria agli Stati Uniti.

Miriam, Domenico e Giovanna dicono di non essersi mai pentiti, nonostante mille difficoltà, di essere tornati in Calabria. “La nostra sfida è un riscatto sociale che parte dal basso, stiamo ravvivando l’economia di un territorio, diamo un’altra idea di una regione martoriata solo da notizie di cronaca nera. Facciamo quasi seimila visitatori l’anno che arrivano, visitano e consumano sul territorio”.

Detto questo, lo stile e il costo della vita è decisamente diverso da quello che i tre ragazzi hanno conosciuto in passato, e quindi “anche le nostre entrate ora sono congrue”. Il ricordo più bello rimane quello del primo pullman di americani arrivato per visitare l’azienda: “Gli anziani del Paese sono usciti dai balconi per capire chi fossero”, sorridono. Miriam, Domenico e Giovanna non vogliono dare consigli né creare falsi miti: “Siamo sicuri di una cosa, però: ogni territorio del nostro Paese possiede delle ricchezze nascoste. Quello che possiamo fare è cercare di custodirle e valorizzarle. Noi, almeno, ci abbiamo provato”. Dopo aver viaggiato, studiato ed essersi confrontati con altre culture questi tre ragazzi sono tornati alla (loro) terra. “E tra 10 anni – concludono – ci immaginiamo ancora qui, in Calabria, con le mani nella terra e la seta tra le dita”.

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Violenza sulle donne, così funziona l’inferno della ripetizione post traumatica

Ho partecipato a diversi incontri che trattano la violenza sulla donna. A breve sarà l’8 marzo.
Voglio qui riassumere, con le dovute cautele e tutele, l’esperienza devastante di una violenza sul corpo che non riesce ad essere simbolizzata.

Mi vedo, ma non mi percepisco. Le parti del mio corpo sono slegate, frammentate. Punto la sveglia ogni giorno ad un orario diverso, avanzando ogni volta di un quarto d’ora, ma non riesco a forzare una gabbia temporale che non riparte se non dal momento in cui avvenne il tutto. Erano le quattro del mattino. Da allora, ogni ora per me è sempre le quattro del mattino. Alle 4 mi alzo, alle 4 mangio. Alle 4 faccio la doccia, alle 4 mi corico. Financo le nuvole, il sole, la pioggia, seppur io li veda muoversi e susseguirsi con immenso sforzo come fossero rallentati, paiono ruotare in un lasso di tempo che va dalle 4 alle 4 e mezza. Alle 4 e mezza del mattino venni raccolta per strada. Ricordo la luce che filtrava dalle dita protese del mio soccorritore. Quando persi i sensi pioveva, faceva freddo. Seppi solo dopo che erano le quattro di mattina. Un giorno che è diventato un’epoca, mutata in un’era ghiacciata e ripetitiva.

A volte la mia mente, spontaneamente, apre i cancelli e sono sopraffatta da qualcosa che sembra un ricordo: la voce di mio padre, la scuola dei miei figli. Ma sono immagini spettrali, rachitiche, nebbie che si dissolvono all’arrivo del ricordo inchiodato di quel giorno. Erano in cinque, mi sbatterono a terra, mi violentarono mentre uno di loro mi strappava orecchini e orologio. I loro visi, all’imbrunire e al fare del mattino, ancora appaiono, tenui e ghignanti, sovrapponendosi a quelli dei miei familiari. Quante volte mio figlio è stato costretto a dirmi “Ehi, mamma! Sono io ehi?” quando mi vede immobile, mentre fisso il vuoto, momento che precede lo sprofondo nel ricordo di quel giorno alle 4 di mattina.

In palestra mi metto davanti allo specchio, ma i volti di quei tizi mi compaiono alle spalle, per questo mi siedo e mi metto al vogatore. Devo sempre avere la musica in sottofondo, pena l’udire le loro voci sporche di saliva “Stai ferma! Cosa gridi, alle 4 non ti sente nessuno!” Da allora non posso più essere toccata, sfiorata. La mia dermatologa usa un paio di guanti doppi, e pian piano mi accarezza le gote chiedendomi se e quando la sua mano diventa la loro, la sua voce sfuma nelle loro voci. Allora si blocca. Il mio analista non può più mettermi sul lettino, perché la posizione favorisce l’arrivo dei loro volti. Il mio medico non mi visita più, dalla ginecologa non riesco più ad andare perché la parte bassa del mio corpo è come se fosse ancora sanguinante ed intoccabile.

Quando mi faccio il bagno, chiudo a doppia mandata ponendo davanti alla porta una sedia messa di traverso. Sento che arrivano, avverto il loro odore. Non posso appisolarmi perché temo che al mio risveglio li possa ritrovare lì, tutti e 4, dentro al mio bagno. Poi vado a letto, ingoio un sonnifero. Non appena prendo sonno, rivedo e rivivo quella scena fin verso le sei del mattino. Quando mi alzo bevo il tè, osservo l’orologio, e vedo che sono di nuovo le 4. È così da almeno due anni.

Questa storia non è la storia di una sola donna, ma quella di Tania, Maria, Roberta, Emma e tante altre ancora. In queste righe si trovano le vite interrotte di tutte quelle donne che, dopo aver subito una violenza sessuale, cadono nell’inferno della ripetizione post traumatica, costrette a rivivere la scena dello stupro per mesi, a volte anni.

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