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Prodi: “Pace in Ucraina? Bisogna far presto, il rischio è che Europa e Stati Uniti si dividano ancora di più”

Usa e Cina sono decisivi per la pace in Ucraina. L’Europa, così divisa, non può fare molto, può fare da incoraggiamento”. A dirlo, ospite del Festival dell’economia di Trento, è stato l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, intervistato dall’Ansa. Il professore ha posto l’attenzione su un aspetto: “Bisogna fare presto, perché il rischio è che gli interessi dell’Europa e degli Stati Uniti si dividano ancora di più”.

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Usa, la Casa Bianca annuncia il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi di Pechino 2022

È arrivata la comunicazione ufficiale, dopo ripetuti annunci e avvisi. La Casa Bianca ha annunciato che nessun rappresentante dell’amministrazione statunitense sarà presente ai Giochi Invernali di Pechino 2022: un boicottaggio diplomatico, che non coinvolgerà gli sportivi. Si punta a mandare alla Cina un messaggio in merito alla difesa dei diritti umani nel Tibet a Hong Kong e nello Xinjiang. Pechino è infatti accusata di soffocare la voce degli oppositori e di violare le libertà delle minoranze religiose come quella degli uiguri, perseguitata e oggetto di torture e violenze. Una situazione, quest’ultima, che la Casa Bianca ha definito senza giri di parole “genocidio”. La decisione di Joe Biden potrebbe indurne altre, simili, da parte di alcuni Paesi. Fra questi Australia e Regno Unito.

Poco prima dell’annuncio ufficiale il ministero degli Esteri cinese si era fatto sentire: “Se gli Stati Uniti insistono nell’andare sulla propria strada adotteremo sicuramente contromisure risolute. Le Olimpiadi Invernali non possono essere il palcoscenico per una provocazione politica”, queste le parole del portavoce Zaho Lijian. “Sarebbe una grave macchia per lo spirito della Carta Olimpica e una grave offesa per un miliardo e mezzo di cinesi”.

Una scelta forse simbolica che però rischia di mettere fine al tentativo di disgelo avviato settimane fa nel corso del summit virtuale fra Biden e Xi Jinping. Il no alle Olimpiadi di Pechino da parte degli Usa, pur salvaguardando la partecipazione degli atleti americani, si andrebbe infatti ad aggiungere alle tensioni legate alla questione Taiwan. Con quest’ultima, a differenza della Cina, invitata alla Conferenza per la democrazia convocata da Biden per i prossimi giorni. Decisiva verso il boicottaggio diplomatico di Pechino 2022 sarebbe stata la vicenda della star cinese del tennis Peng Shuai, per tre settimane sparita dalla scena pubblica dopo aver denunciato di aver subito violenze sessuali da parte di un ex alto responsabile del Partito Comunista.

La presa di posizione di Washington era nell’aria da tempo, viste le pressioni di molti ambienti fuori e dentro il Congresso. Per tornare a situazioni di boicottaggio olimpico bisogna risalire al 1980, quando l’amministrazione di Jimmy Carter guidò oltre 60 Paesi che non parteciparono ai Giochi di Mosca per protesta re contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Come rappresaglia quattro anni più tardi quindici Paesi insieme all’Unione Sovietica boicottarono i Giochi di Los Angeles.

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Afghanistan, per il Pentagono il raid che ha ucciso 10 civili (tra cui 6 bambini) “non è stato irragionevole”: “Poco tempo per fare verifiche”

Nessuna violazione della legge marziale, ma solo “errori di esecuzione”. È questo il risultato dell’inchiesta interna condotta dal Dipartimento della Difesa americano riguardo al raid con drone effettuato a Kabul, in Afghanistan, il 29 agosto scorso e che ha provocato la morte di 10 civili, tra cui 6 bambini. In quell’occasione, il Pentagono fece sapere che l’attacco, avvenuto a poche ore di distanza dall’attentato Isis all’aeroporto della capitale afghana, aveva neutralizzato un commando dello Stato Islamico che voleva di nuovo colpire lo scalo dal quale, in quei giorni, stavano partendo cittadini afghani e stranieri, personale diplomatico e militare che stavano evacuando il Paese. La verità, emersa successivamente, è che su quell’auto non viaggiava alcun terrorista, ma solo una famiglia innocente.

La Difesa Usa, per bocca del generale Sami Said, ispettore generale dell’Air Force, scarica sul particolare stato emergenziale in cui si trovavano in quei giorni il Paese e le forze militari straniere, dovuto anche all’intensificazione degli attacchi Isis e a un’interruzione delle comunicazioni che ha impedito ai militari di svolgere le necessarie verifiche sul veicolo nei minuti che hanno preceduto il bombardamento, le responsabilità di ciò che è successo.

Le forze americane rimaste sul terreno erano nell’aeroporto, ricorda Said, e l’intelligence pensava che altri attacchi fossero imminenti. Per questo il raid, che ha definito “di autodifesa”, è stato gestito in modo diverso dalle solite operazioni antiterrorismo, in cui viene monitorato anche per giorni un potenziale target. Gli analisti militari hanno avuto poco tempo per valutare i materiali d’intelligence a disposizione che indicavano l’auto, una Toyota Corolla bianca che viaggiava nei pressi dell’aeroporto, come un pericolo. Nello specifico, ha spiegato, non era stato possibile monitorare e seguire il mezzo e i suoi occupanti nei giorni precedenti alla decisione di bombardarlo, come viene fatto invece solitamente quando i militari si apprestano a svolgere operazioni di antiterrorismo. Per fare un esempio, anche nel caso della famosa operazione di Abbottabad, in Pakistan, nella quale venne ucciso il capo di al-Qaeda, Osama bin Laden, l’intelligence monitorò a lungo l’edificio per stabilire con una percentuale d’errore ritenuta accettabile che all’interno si nascondesse il fondatore de La Base, oltre a verificare anche la presenza di bambini nella struttura e permettendo così ai Navy Seal del Team Six di operare con questa consapevolezza.

In questo caso, invece, si è deciso di agire pur non essendo in possesso di queste informazioni preliminari, ha ammesso Said. A questo si è aggiunto un problema tecnico: nel corso del monitoraggio che ha preceduto l’attacco, sono state interrotte le comunicazioni che hanno impedito di poter continuare a vedere il veicolo che era stato localizzato in un posto associato allo Stato Islamico nella provincia del Khorasan. Quando le comunicazioni sono riprese, ha poi aggiunto il generale, mancavano appena due minuti al lancio del razzo e si è optato per l’autorizzazione. In quell’arco ristretto di tempo, però, secondo le immagini e per lo stesso Said, era evidente la presenza di almeno un bambino, anche se “non era al 100% ovvio”, ha detto il generale. Nella fretta dell’azione, ha aggiunto, gli operatori non hanno analizzato a fondo le immagini: “Noi abbiamo avuto tutto il tempo di farlo durante l’inchiesta”, ha detto ancora giustificando il team responsabile del raid. Arrivando alla conclusione che sulla base delle informazioni a disposizione, “in un’operazione complicata in uno scenario complicato”, è stato deciso in modo non arbitrario o negligente che l’auto costituisse una minaccia. “Non è stata una decisione irragionevole, solo non corretta”, ha affermato ancora Said. Costata dieci vite di civili innocenti.

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Afghanistan, se si vuole affermare la democrazia è necessario debellare la povertà

di Giovanni Casciaro

La caduta di Kabul, con la fuga degli Stati Uniti e dei loro alleati dall’Afghanistan, è un evento su cui riflettere. L’intervento bellico, “Operation Enduring Freedom”, durato 20 anni, ha provocato altissimi costi umani ed economici. Vi sono stati 241mila morti. La popolazione civile ha pagato il prezzo più alto con oltre 70mila morti; vittime anche fra gli operatori umanitari e i giornalisti; ingenti perdite fra i militari e i poliziotti afghani, i talebani e gli altri oppositori; perdite consistenti fra i militari e i contractor Usa, fra i militari alleati, anche italiani. Vi sono stati molti feriti e traumatizzati, milioni di profughi e sfollati. Un vero disastro umanitario!

Smisurati anche i costi economici. Gli Usa hanno speso oltre 2.300 miliardi di dollari; Italia, Gran Bretagna, Canada, Germania e Francia hanno contribuito con decine di miliardi. Molte di queste risorse sono state assorbite dall’apparato militare, una parte destinate a privilegi e corruzione, pochissime utilizzate per far fronte alla povertà diffusa e oppressiva. Costi elevatissimi per i contribuenti, ma lauti profitti per il settore bellico, vero vincitore di questa come di altre guerre.

È incredibile l’affermazione del presidente Usa Joe Biden: la guerra è stata fatta per “vendicare” l’abbattimento delle Torri gemelle, che fu opera di terroristi di Al Qaeda in massima parte sauditi. E il nome dell’operazione: “Libertà Duratura”? In Afghanistan vi è stata così una ulteriore conferma del fallimento della strategia delle guerre “umanitarie” per “esportare la democrazia”. Si è verificato quanto previsto da Gino Strada, che con Emergency ha dedicato la propria vita a offrire cure alle vittime della guerra. Non solo non è stata “esportata la democrazia”, ma vi è stato un attacco alla libertà d’informazione negli stessi paesi occidentali. Julian Assange, fondatore di Wikileaks, e Chelsea Manning, analista dell’intelligence Usa, sono vittime di una pesante persecuzione per aver osato svelare una verità occultata: quanto sono disumane le “guerre umanitarie”.

Mentre in Italia fu calpestata la democrazia sostanziale quando, malgrado le grandi manifestazioni e una volontà diffusa dei cittadini contro la guerra, il governo decise l’intervento militare. Purtroppo su quelle decisioni si verificò il sostegno di quasi tutti i partiti italiani, e oggi non vi è alcuna profonda riflessione critica su quelle scelte, tutte subalterne agli Stati Uniti. Ai politici occorrerebbe ricordare che se si vuole “diffondere la democrazia”, non si dovrebbero considerare “amici” i governanti autoritari, a volte sostenitori dei gruppi terroristici, solo per mero calcolo economico e geopolitico; non si dovrebbero armare e finanziare gruppi estremisti, come è successo in passato per i talebani da parte degli Usa. Basta con il “realismo” politico o, meglio, con il cinismo dagli evidenti esiti nefasti.

Inoltre, è noto che le popolazioni in povertà possono essere facile preda dell’estremismo politico, religioso e dei signori della droga, e sono in una condizione che ostacola l’esercizio dei diritti politici. Se si vuole affermare la Democrazia è necessario debellare la povertà. Le ingenti risorse impiegate nelle guerre si dovrebbero utilizzare per affermare il diritto al lavoro, all’educazione, alla salute e all’informazione libera. Come si dovrebbe realizzare una equa distribuzione delle risorse, invece dell’attuale ingiusta accumulazione da parte di ristrette minoranze, locali o straniere.

Infine, data l’evidente corresponsabilità e per senso di umanità, è doverosa la nostra solidarietà a favore del popolo afghano e, in particolare, verso le donne afghane. Per evitare poi una continua tragica ripetizione della storia, bisogna richiedere una politica estera, italiana ed europea, non subalterna alle logiche di guerra, che permetta di realizzare la soluzione dei conflitti e delle crisi in modo pacifico, attraverso le istituzioni internazionali e secondo quanto previsto dalla Costituzione italiana.

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Afghanistan, la guerra fredda tutta economica: l’alleanza tra califfati 2.0 e potenze anti-Usa in nome del denaro e della supremazia

A quasi mezzo secolo dalla caduta di Saigon, le scene terrificanti che arrivano nelle nostre case da Kabul sembrano déjà-vu della guerra fredda, quando il prezzo del benessere postbellico dell’Occidente era la guerra permanente, un conflitto che Washington e Mosca combattevano lungo i confini che loro avevano tracciato tra mondo libero e comunismo. Anche la guerra in Vietnam è durata vent’anni ed anche allora si cercò prima di distruggere il nemico, poi di contenerlo infine si cercò di dar vita ad una società funzionante che gli si potesse contrapporre. Nessuna di queste opzioni funzionò e così si decise di riportare le truppe a casa. Le similitudini finiscono qui.

La sconfitta americana in Afghanistan è immensamente più seria in termini simbolici ed anche in termini reali della caduta di Saigon e della capitolazione sovietica in Afghanistan. Saigon venne conquistata dalle truppe comuniste due anni dopo l’evacuazione di quelle americane, i mujaheddin impiegarono tre anni ad entrare a Kabul dopo il ritiro sovietico del 1989, Kabul, invece, è caduta in mano talebana tre settimane prima della data ufficiale del ritiro degli americani.

In termini reali, l’occupazione apparentemente pacifica di Kabul quando i soldati statunitensi sono ancora presenti, ci ricorda che se è vero che la storia si ripete il presente non è mai identico al passato. Nel 1975 la tensione “fredda” tra i due blocchi, quello filosovietico e comunista da una parte e quello coccolato dal sogno americano dall’altra, era ormai consolidata e si avviava a rimanere contenuta in aree specifiche del mondo, il Vietnam era una di queste. Nel 1989, invece, sulla scacchiera geopolitica della guerra fredda l’Unione Sovietica aveva subito scacco matto, la partita era finita. Oggi il nuovo conflitto geopolitico, che potrebbe anche non rimanere freddo, è agli albori, siamo, insomma all’inizio della partita a scacchi tra Cina e suoi alleati da una parte e Stati Uniti ed alleati dall’altra. L’Afghanistan è un fante che Washington ha appena perso mettendo a rischio altre pedine.

Secondo molti analisti la mossa di abbandonare Iraq, Siria e Afghanistan è strategica. Joe Biden, come Trump ed Obama, volevano porre fine alla guerra infinita iniziata da George W. Bush contro il fondamentalismo islamico perché è un nemico tanto, troppo elusivo. Il pericolo è che questo tipo di nemico assorba troppe risorse, troppa energia e finisca per far distrarre la leadership americana dal nemico concreto, la Cina. Analisi, questa, che non fa una grinza, peccato che ormai la sovrapposizione del nemico elusivo con quello concreto sia in moto da tempo. Come è possibile?

La nuova guerra fredda non è ideologica né religiosa, non ha bisogno di foglie di fico, è volutamente brutale, apertamente economica e di supremazia. La Cina ce lo ha detto ripetutamente ed anche i talebani, il regime siriano, quello turco e, naturalmente, anche Putin lo hanno ammesso. L’alleanza tra questi sistemi non avviene sotto la bandiera rossa né sotto quella di Allah, ma in nome del denaro e del potere. Ecco perché Pechino può sopprimere i musulmani in casa e fare affari con i Talebani all’estero. Ma non basta. A Pechino importa poco la condizione delle donne afghane o la corruzione siriana, il regime cinese non è ostaggio dell’opinione pubblica ed al popolo cinese non interessa cosa succede fuori dei confini nazionali, la politica estera non esiste se non minaccia la propria vita. Neppure in Russia si manifesta contro le atrocità commesse in Siria dalle forze speciali russe, chi ha il coraggio di scendere in piazza lo fa per ribellarsi contro gli abusi in casa loro.

Anche negli Stati Uniti, dove c’è democrazia, la gente è stufa di pensare alle tragedie in terra straniera, agli americani della politica estera importa solo quando tocca il loro portafoglio. La maggioranza di loro concorda con Joe Biden che l’obiettivo delle guerre in Medio Oriente era far fuori Bin Laden ed al Qaeda non di trapiantare in questa regione i germogli della democrazia. E quindi è bene riportare i soldati a casa e smettere di spendere i soldi del contribuente per una guerra già vinta. Solo gli europei sembrano voler rimanere aggrappati a principi encomiabili come la difesa dei diritti umani, ma anche loro si limitano a fare petizioni su facebook ed a raccogliere collette. I corridoi umanitari? Certo, se ne parla, ma per ora siamo ad agosto, i governi ed i parlamenti sono in vacanza, ci penseranno a settembre intanto i Talebani fanno “pulizia” in casa.

Gli europei, comunque, in Afghanistan erano in seconda linea. I dati del Watson institute for international public affairs della Brown university ci dicono che gli americani hanno perso 2.442 soldati regolari e 3.846 contractors, essenzialmente mercenari, gli alleati 1.144, ingenti sono invece state le perdite delle truppe afgane, 69mila. Il nemico, composto da jihadisti locali e stranieri ha perso 51.191 uomini, poco più delle perdite civili, 47.245. Il costo complessivo per il contribuente americano è stato di 2.261 miliardi di dollari. Tanto, troppo. E per i talebani? Basta guardare i dati della esportazione di eroina, è stata quella polvere bianca la loro manna dal cielo.

È dunque ora di riportare i ragazzi americani a casa come era ora di farlo nel 1975 dopo che 58mila ragazzi avevano fatto rientro nelle bare che volavano da Saigon in un surreale viaggio di ritorno sugli stessi aerei con i quali Washington aveva portato loro e tanti altri nel Vietnam, a combattere una guerra impopolare come quella in Afghanistan. Allora come oggi il ritiro delle truppe avvenne senza una vittoria ma con una sconfitta mai pubblicamente dichiarata che prolungò la guerra fredda per altri 15 anni. E forse è questa la similitudine più agghiacciante tra le due guerre ventennali americane.

È vero: il corpo di Bin Laden giace in fondo all’oceano, la vecchia al Qaeda non esiste più ma a Kabul sono tornati i Talebani, quelli del Califfato, tanto fondamentalisti quanto i loro amici dell’Isis, con i quali sono in contatto perché entrambi fanno parte della rete del jihadismo mondiale, una rete che anche se allentata è ancora ben avvinghiata al nostro collo. E presto tornerà a stringercelo. Ma non basta, oltre confine il califfato talebano 2.0 oggi ha nuovi alleati, si trovano a Mosca, a Pechino, a Istanbul ma anche nel Golfo Persico, in quegli Stati ricchi grazie al petrolio dove la futura leadership ha vissuto in esilio nell’agio e nel rispetto che quel mondo manifesta ai futuri califfi.

Nemico elusivo e nemico reale si sono alleati da tempo, quando ce ne accorgeremo?

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Perché difendere Cuba è una battaglia di civiltà

Lunedì scorso, nel primo pomeriggio, ho avuto modo di partecipare a un presidio convocato da varie organizzazioni solidali con Cuba, in concomitanza colla manifestazione promossa davanti all’ambasciata cubana da un gruppo di cubani, alcune decine, fortemente critici nei confronti dell’attuale governo di Diaz-Canel. L’impressione è che dietro questa manifestazione, così come quelle che si sono svolte a Cuba e in altre parti del mondo nei giorni scorsi, vi sia una scelta precisa delle forze contrarie al sistema socialista cubano di approfittare della pandemia e della crisi economica che la accompagna per scatenare un nuovo attacco frontale.

Joe Biden può smentire quanto vuole di essere lui il reale artefice di queste mobilitazioni, ma è a tutti chiaro come il governo degli Stati Uniti costituisca il principale referente di coloro che, pur di rovesciare il socialismo cubano, sarebbero ben contenti di vedere lo sbarco di migliaia di marines pronti ad issare sull’isola la bandiera stellata in modo da ottenere finalmente, a circa sessant’anni di distanza, la rivincita sulla Baia di Porci – invasione fallita che lasciò sul terreno molti controrivoluzionari inquadrati, armati, equipaggiati e finanziati dall’amministrazione statunitense dell’epoca.

Sessant’anni sono passati ma resta invariato e incrollabile l’intento delle amministrazioni statunitensi di fare piazza pulita, finalmente, dell’anomalia cubana. Si tratta a questo punto di una questione nettamente psicoanalitica oltre che politica; la classe dirigente statunitense, abituata almeno dal 1945 a dominare il mondo, anche se ora visibilmente lo domina molto meno, non può tollerare che, nel proprio cortile di casa, o meglio nella tinozza caraibica, esista uno Stato così diverso dal modello basato sulla sopraffazione individuale, sugli spiriti animali del capitalismo e sull’imposizione urbi et orbi dei suoi punti di vista su mercato, democrazia e diritti. Da questo punto di vista Biden non è affatto diverso da Donald Trump, anche se all’interno del Partito democratico esistono posizioni diverse, non riconducibili al deep State e alle sue intramontabili velleità egemoniche.

Lo strumento del quale gli Stati Uniti si avvalgono per tentare di far naufragare l’esperienza socialista cubana, una volta verificata l’impraticabilità dell’opzione militare, è da sei decenni a questa parte il famigerato bloqueo. I danni inferti da quest’ultimo sono attentamente analizzati da tempo ed è chiaro, a chiunque non sia completamente in malafede, come il fatto di dover gestire un’economia che non è in grado di commerciare liberamente col resto del mondo costituisca un peso gravissimo, che sarebbe insopportabile per chiunque – tanto più che si tratta di un terreno insulare non ricchissimo di materie prime e che il bloqueo in questione dura ormai da troppo tempo, nonostante praticamente tutta la comunità internazionale, colla costante eccezione degli Stati Uniti e del loro vassallo israeliano che in cambio riceve annualmente le somme necessarie a sopravvivere, condanni da tempo questa evidente violazione del diritto internazionale, della libertà di commercio, dei diritti umani e del diritto di autodeterminazione.

A ben vedere la capacità di Cuba non solo di sopravvivere ma anche di svilupparsi, raggiungendo livelli di soddisfazione dei diritti umani che ci sogniamo anche in Paesi a capitalismo avanzato come l’Italia, ha costituito, per questi 60 e passa anni, un vero e proprio miracolo, cui le varie amministrazioni statunitensi che si sono succedute hanno assistito con stizza e sconcerto crescente, anche per il notevole peso elettorale dei fuoriusciti cubani stanziati a Miami e dintorni.

La maledetta pandemia ha costituito, per Biden & C., un aiuto insperato. La risposta cubana è stata esemplare sia sul piano interno, riuscendo fino ad oggi a contenere il contagio e attuando un importante piano di vaccinazione con vaccini, verificati internazionalmente, prodotti in casa sulla base di quell’altro miracolo che è la ricerca farmaceutica cubana, sia su quello internazionale, indirizzando l’impegno delle brigate come la “Henry Reeve” anche verso Paesi capitalistici come l’Italia e la Spagna. Ma di questo le oscene destre europee, compresi i loro segmenti italici ed iberici, si sono a quanto pare dimenticate, come dimostra il vergognoso voto recente del Parlamento europeo.

Oggi però la proliferazione delle varianti pone nuove sfide e soprattutto il danno economico è enorme, dato che colpisce a fondo soprattutto il turismo che per Cuba è stata la principale fonte di valuta pregiata specie nell’ultimo ventennio. Il malcontento quindi ha cause e radici reali. Ma, conoscendo un poco la realtà cubana, ritengo che i controrivoluzionari non abbiano in ultima analisi granché di cui rallegrarsi. La risposta della parte più cosciente e organizzata del popolo cubano che è scesa in piazza rispondendo all’appello del presidente Diaz-Canel è stata importante e siamo solo all’inizio.

A tutti coloro che si fregano le mani di fronte alla situazione attuale lasciandosi andare a frettolosi vaticini sulla presunta imminente fine del socialismo cubano consiglierei quindi un’estrema prudenza e maggiore ponderazione di giudizio. Torna d’attualità lo slogan che ha accompagnato i momenti più difficili dell’esperienza in questione: qui non si arrende nessuno (“Aquì no se rinde nadie”). Insieme all’altro coniato a suo tempo da Rosa Luxemburg, anch’esso oggi di grande attualità, a Cuba e nel mondo intero: “Socialismo o barbarie”.

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‘Covid era già negli Usa a dicembre 2019’: lo studio federale su un milione di volontari

Negli Stati Uniti, secondo i dati ufficiali, il primo caso di Covid-19 in Illinois è stato intercettato il 24 gennaio 2020. A essere positiva, una donna appena atterrata da Wuhan, epicentro della pandemia. Poi sono emersi a inizio febbraio i primi casi in Massachusetts e Wisconsin, mentre in Pennsylvania e Mississippi sono stati registrati a marzo. Ma oggi uno studio federale condotto dal National Institute of Health (Nhi) sposta all’indietro le lancette e data la prima infezione da Sars-Cov-2 in Illinois a dicembre 2019, ben prima che fossero riportati i nuovi dati ufficiali. Lo studio ha infatti individuato nove persone che si erano contagiate alla fine del 2019 in cinque stati: Illinois, Wisconsin, Pennsylvania, Mississippi e Massachusetts. La ricerca “All of us”, spiega la Cnn, è stata effettuata grazie ad un milione di volontari che hanno donato il sangue in modo da mappare la diffusione della pandemia. L’esame di 24mila campioni raccolti all’inizio del 2020 hanno individuato in nove persone anticorpi del coronavirus, hanno sottolineato i ricercatori in un articolo della rivista Clinical Infectious Diseases.

I ricercatori hanno riscontrato anticorpi in individui il cui campione è stato prelevato “il ​​7 gennaio dall’Illinois, l’8 gennaio dal Massachusetts, il 3 febbraio dal Wisconsin, il 15 febbraio dalla Pennsylvania e il 6 marzo dal Mississippi”, e visto che gli anticorpi si sviluppano a circa due settimane dall’infezione significa che alcuni dei volontari che hanno preso parte alla ricerca si sono contagiati a dicembre. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, uno studio della rivista Clinical Infectious Disease aveva riscontrato già il 13 dicembre 2019 anticorpi in alcuni soggetti colpiti dal coronavirus, mentre un’altra ricerca sul Journal of Medical Internet Research dimostrava che il virus fosse arrivato sempre a dicembre negli Usa.

Guardando invece alla Cina, a marzo 2020 il South China Morning Post, facendo riferimento a documenti governativi mai resi pubblici, aveva scritto che il primo caso accertato di Covid-19 non risaliva all’8 dicembre – come dichiarato dal governo di Pechino all’Organizzazione Mondiale della sanità (Oms) – bensì al 17 novembre 2019 e si trattava di un 55enne residente nella provincia dell’Hubei, dove si trova Wuhan. Solo il 27 dicembre, però, Zhang Jixian, medico dell’Hubei Provincial Hospital of Integrated Chinese and Western Medicine ma anche membro del Partito Comunista Cinese, comunicò alle autorità che la polmonite anomala rilevata in numerosi pazienti era causata da un coronavirus, quando almeno 180 persone erano ormai state contagiate e l’epidemia, che si è poi allargata a tutta la regione e in altri Paesi, era già diffusa. Quanto invece all’Europa, il primo caso di Covid risale al 27 dicembre, quando un uomo venne ricoverato a Bondy. Prima che la Cina lanciasse l’allarme sulla pandemia.

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Le ingenti risorse destinate alla spesa militare sarebbero preziose se destinate altrove

di Giovanni Casciaro

L’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri, www.sipri.org.) nel suo rapporto annuale riporta: nel 2020 la spesa militare totale nel mondo è salita a 1.981 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6% rispetto al 2019, malgrado una diminuzione del Pil globale del 4,4%. E per il 2021 è previsto un ulteriore aumento con il superamento della cifra di 2.000 miliardi di dollari. Questo avviene mentre la pandemia e la crisi climatica condannano milioni di persone alla povertà: non è un uso scellerato delle risorse pubbliche?

In particolare, dal rapporto risulta che gli Stati Uniti, al primo posto nel mondo per spese militari, hanno investito nel 2020 circa 778 miliardi di dollari, con un aumento del 4,4% rispetto al 2019, arrivando al 39% della spesa militare totale; la Cina, al secondo posto, ha impegnato circa 252 miliardi di dollari, con un aumento dell’1,9%; e la spesa militare della Russia si aggira intorno a 61,7 miliardi di dollari, con un aumento del 2,5%. Significative sono state le spese militari della Nato, che hanno raggiunto la cifra di 1.100 miliardi di dollari, con un aumento del 13,6% rispetto al 2019, rappresentando quasi il 56% del totale della spesa militare mondiale.

Si tratta di risorse pubbliche ingenti: sarebbero preziose se fossero utilizzate nella lotta alla povertà, nel potenziamento della sanità e della scuola. Tali enormi spese a favore dell’apparato bellico, con Stati Uniti e Nato in testa, decise dai governanti dei Paesi per “assicurare sicurezza e stabilità”, in realtà aggravano le contrapposizioni e la pericolosa escalation al riarmo. E, se si considerano anche le mega esercitazioni militari, la “guerra dei dazi”, le sanzioni economiche, le espulsioni, le ritorsioni, si avverte la dimensione della crescente tensione internazionale.

In questa situazione allarmante numerose sono le iniziative delle organizzazioni della società civile in diversi Paesi. In Italia “Sbilanciamoci”, “Rete Italiana Pace e Disarmo” e altre associazioni hanno sollecitato i governi di tutto il mondo a ridurre drasticamente le spese militari, limitare gli enormi profitti del settore bellico e utilizzare le risorse risparmiate per far fronte alle gravi emergenze in ambito sanitario, umanitario, economico, climatico e ambientale. Lo slogan lanciato da queste organizzazioni è: “Definanzia gli eserciti, difendi le persone e il Pianeta”.

Per quanto riguarda l’Italia, l’istituto Sipri riporta per il 2020 una spesa di 28,9 miliardi di dollari, con un aumento del 7,5% rispetto al 2019. E per il 2021 è previsto un ulteriore aumento, superiore all’8%, a cui aggiungere le rilevanti ricadute del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a favore del settore militare. Quindi sono ingenti le risorse impegnate dai governanti italiani per le spese militari, malgrado l’enorme debito pubblico e i tanti bisogni disattesi dei cittadini. Mentre la maggioranza degli italiani, secondo un recente sondaggio condotto da YouGov per conto di Greenpeace, è favorevole alla loro riduzione e contraria all’esportazioni delle armi soprattutto verso i paesi dittatoriali.

Intanto l’apparato industriale e finanziario del settore bellico, forte degli enormi profitti realizzati, continua a influenzare pesantemente i decisori politici attraverso azioni di pressione, “porte girevoli”, finanziamento dei partiti e delle loro fondazioni. Per questo è necessario opporsi alle scelte politiche in atto, garantendo un forte sostegno alle iniziative a favore della Pace realizzate dalle organizzazioni della società civile.

Bisogna pretendere la soluzione delle controversie internazionali, non con minacce e guerre, ma attraverso trattative nelle sedi internazionali preposte. È importante affermare quanto stabilito dalla Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

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Tom Hanks, il figlio sotto accusa per la sua nuova linea d’abbigliamento: “Lo stesso carattere del Mein Kampf di Hitler”

Pioggia di critiche nei confronti Chet, figlio della star americana Tom Hanks, per aver utilizzato un carattere considerato “razzista” nella sua nuova collezione di merchandising dal nome “White Boy Summer“. Come riportato dal Guardian, la sua collezione di felpe, magliette, pantaloncini, etc. utilizza un carattere in stile gotico che non è stato affatto gradito da molti utenti sui social, in quanto “simile a quello di Fraktur, utilizzato nella Germania nazista e in modo più evidente sulla copertina del libro Mein Kampf di Hitler“.

A rendere tutto ancora più discutibile, il fatto che la scorsa settimana Chet Hanks abbia pubblicato un video su Instagram in cui affermava: “Ho appena avuto questa sensazione, amico, che questa estate sarà un’estate da ragazzo bianco“. “Mi dispiace ma qualcuno deve dire a Chet Hanks che ‘estate da ragazzo bianco’ suona come il titolo di un documentario Netflix sulle sparatorie di massa“, ha commentato una ragazza su Twitter. “Suona come l’annuncio di una convention del Klan”, ha aggiunto un altro. In seguito il figlio del divo hollywoodiano ha annunciato che rilascerà anche una gamma di prodotti “Black Queen Summer“, insieme a prodotti che utilizzano uno slogan simile per gli uomini di colore e quelli di origine asiatica e latina.

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La Porsche di Pablo Escobar va in vendita in Florida a 2,2 milioni di dollari

La Porsche dell’ex re del narcotraffico Pablo Escobar è stata messa in vendita alla cifra record di 2,2 milioni di dollari dall’Atlantis Motor Group di Palm Beach, in Florida. Il prezzo così alto, oe alla notorietà del passato proprietario, è da attribuire al fatto che si tratta di una rara Porsche 911 IROC RSR, prodotta nella prima edizione del 1974 (quella in questione) in soli 15 esemplari tutti impegnati nell’International Race of Champions (IROC), vinta quell’anno dall’americano Mark Donohue. L’esemplare in vendita (di colore Beige del Sahara) è quello guidato dal brasiliano Fittipaldi, che negli anni è poi finito nella collezione privata di Escobar (dove rimase fino alla sua morte nel 1993) che la guidò in varie competizioni in Colombia. Dopo la parentesi colombiana l’auto, conosciuta come la “Fittipaldi Car”, fu riportata negli Stati Uniti dall’ex pilota Roger Penske, che l’ha pure ripristinata nella sua versione originale.

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