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A giurisprudenza sempre meno iscritti. Ma il futuro non è tutto avvocatura-tribunale

Fa registrare un -38% il numero degli iscritti al primo anno nelle facoltà di Giurisprudenza italiane. Un dato che, da solo, basta a confutare l’esigenza del ricorso al numero chiuso. Rilevante anche il dato riguardante l’intero corso di studi: dall’11,1% si è scesi al 7,2%.

Studiare giurisprudenza interessa a un numero sempre minore di giovani? Così sembrerebbe stando ai numeri. A ciò si aggiunge una qualità in uscita drammaticamente scadente con troppi neolaureati incapaci di rispondere alle domande di un settore legale in evoluzione, che richiede sempre di più la presenza di nuove figure professionali. Sembrerebbe trovare riscontro, dunque, l’ipotesi che il mercato del lavoro legale sia saturo. Soprattutto a fronte di una lettura, forse fin troppo superficiale, sul numero degli avvocati.

Se, da una parte, l’Avvocatura ha rappresentato per molti una professione a cui guardare come una sorta di ammortizzatore sociale, dato il blocco del turn over nella Pa, dall’altra, occorre sfatare un mito perché non sono troppi i laureati in giurisprudenza rispetto alle attuali possibilità di inserimento che il mercato offre loro.
In realtà sono troppo pochi i neolaureati attrezzati e predisposti a entrare in un mercato del lavoro diverso da come se lo immaginavano all’inizio del percorso di studi. In Europa si parla di professione legale 4.0, perché l’impiego giuridico deve essere percepito con una nuova consapevolezza.

Si pensi, per esempio, agli smart contracts, alle identità digitali, al cyber crime. Si richiede al laureato in giurisprudenza saperi assai distanti dal radar accademico-didattico di numerosi atenei italiani. A fine laurea, gli studenti rischiano di trovarsi poco specializzati, perché reduci da uno studio mnemonico di norme e codici, a fronte di tipologie di esami che a volte sembrano modellati proprio per incentivare questo tipo di approccio allo studio, solo teorico e manualistico, con tempi dello studio marcatamente professore-centrici, dove sono totalmente assenti le discipline logiche, storiche e delle scienze umane come le sociologie.

L’acquisizione di tasks e procedure – che nella mente dello studente dovranno essere apprese e messe in pratica in un futuro piuttosto remoto – rimane sfavorita. Troppi i corsi di laurea che puntano sulla preparazione normativa manualistica tradizionale, poco sensibili alle esigenze pratiche del futuro giurista, che dovrà imparare a saper negoziare col lessico giuridico di lingue straniere, a comunicare con efficacia, a delegare, ad assumere responsabilità decisionali e a dare il feedback. Limitarsi dunque al binomio avvocatura-tribunale può rendere il mercato del lavoro legale più saturo di quel che sembra. Le facoltà dovranno preparare i loro studenti all’eventualità di decidere di volersi allontanare dalle carriere giuridiche tradizionali.

L’applicazione del diritto in aree nuove vede tra le rivoluzioni che il mondo legale sta conoscendo, prima tra tutte, quella del processo telematico. Ai neo-giuristi si chiede, infatti, dimestichezza con le nuove modalità di deposito dei ricorsi in quel settore. In questo quadro si inserisce, con la riforma Cartabia, l’”Ufficio del Processo” a cui sembrano guardare con grande interesse, come approdo, molti avvocati insoddisfatti della propria condizione professionale e della marginalizzazione economica a cui è soggetta. Si parla, non a caso di “fuga dalla professione forense” che, se realizzata davvero, concretizzerebbe, in un colpo solo, il sogno di chi vede nel numero degli avvocati la causa unica del carico della giustizia.

Ma lo scenario dell’”Ufficio del Processo” comincia già a mostrare una serie di debolezze. Non è dato sapere quali saranno “davvero” i compiti e l’organizzazione di tale “Ufficio”, in che modo si collocherà nel rapporto tra i magistrati e la cancelleria e se sovrascriverà l’attuale presenza dei tirocinanti, dei quali, del resto sembra proprio ricalcare le attività. Sarebbe stato opportuno, viceversa, indicarne sin da subito, con apposite linee guida, il corretto funzionamento e, per evitare sovrapposizioni di ruoli e mansioni, affidare il coordinamento dei funzionari, in relazione all’effettivo carico del Distretto, al Consiglio Giudiziario, sottraendo gli stessi alla signoria del singolo magistrato. Inevitabile la conclusione che, per svolgere tale mansione, non occorra una laurea magistrale né tantomeno ulteriori titoli iper-qualificanti post-laurea. Sarebbe bastato potenziare la laurea triennale in scienze giuridiche per la formazione dei futuri paralegal.

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Università, l’annuncio della ministra Messa: “La sessione di laurea estiva sarà in presenza”

“Quest’estate ci sarà la prima sessione di laurea in presenza? Penso proprio di sì, a meno che non si abbiano difficoltà a raggiungere la sede“. Intervenuta a SkyTg24, la ministra dell’Università Maria Cristina Messa ha confermato una notizia che migliaia di laureandi di tutta Italia aspettavano: per la sessione di laurea estiva si potrà tornare a discutere la tesi in aula, a patto di rispettare tutte le norme anti-contagio. Solo nel caso in cui uno studente dovesse trovarsi in zona arancione o rossa, e quindi non abbia la possibilità di spostarsi per raggiungere la propria università, si continuerà a ricorrere alle modalità telematiche. Messa ha infatti spiegato che, almeno per il momento, si dovrà “mantenere la doppia linea, in presenza e non”.

Lo stesso vale per la percentuale di studenti in aula per le lezioni: “Dipende dalla aule, sono molto diverse l’una dall’altra. Nei posti più piccoli anche al 100 per cento, quelle più grandi al 30%”. Nonostante le difficoltà iniziali, ha aggiunto la ministra, le università hanno risposto bene all’esigenza di fare lezione online e ora sono pronte alla ripartenza. Ma l’esperienza accumulata fin qui dal punto di vista tecnologico non andrà dispersa: anche dopo il coronavirus, “la modalità mista in presenza e a distanza resterà. Ma non per costrizione, bensì per aspetti positivi – ha poi spiegato Messa parlando dell’università del futuro delineata nel Recovery Plan -. Si potranno accogliere anche studenti da università straniere collegati. Sarà un’università in presenza a cui si aggiunge la distanza”.

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Io, prof universitario, vi invito a manifestare contro i concorsi truccati: chi è con me?

di Filippo Neri

Chi scrive è un professore universitario che ha presentato più volte ricorsi contro concorsi universitari (dall’Abilitazione Scientifica Nazionale ad altri) che riteneva non essere stati svolti correttamente. Ha un ricorso ancora aperto dal 2008 per una mancata chiamata. Sono passati più di 12 anni, dunque. Il ricorso è oggi in attesa di sentenza al Consiglio di Stato. Questo post è un invito a organizzare azioni civiche nel mondo reale rivolto a tutti i cittadini italiani, inclusi coloro che hanno presentato ricorsi e che vogliono mettere un freno ai concorsi universitari truccati.

Sulla base della mia esperienza personale di professore universitario e di ricorrente, credo che occorra un cambio di strategia se vogliamo avere una qualche possibilità di veder riconosciuto il nostro diritto ad una equa valutazione ai concorsi pubblici. Elenco brevemente le attività di contrasto che non sono efficaci, quelle efficaci e quelle promettenti da provare.

Partiamo dalle attività di contrasto tentate negli ultimi anni ma che purtroppo si sono dimostrate inefficaci:

1) Denunce e proteste su social media. Se gli articoli-denuncia sui quotidiani nazionali sono efficaci in quanto offrono l’opportunità di raggiungere un numero significativo di lettori, occorre invece riconoscere che le proteste sui social media non sono per nulla efficaci. Paradossalmente mettere un like sui social produce l’effetto di “anestetizzare” e “soddisfare” la coscienza civica di chi lo mette.

2) Associazioni o osservatori di ricercatori o di ricorrenti che hanno “soci virtuali”. In genere queste associazioni sono caratterizzate dall’operare su internet, gli iscritti sono anonimi ma dichiarati essere nell’ordine delle centinaia o più. Di solito c’è un solo portavoce onnipresente che parla quasi sempre del suo caso personale. Queste associazioni non tengono mai riunioni in presenza fisica e non svolgono mai attività o manifestazioni nel mondo reale con la presenza dei soci.

3) Inviare una lettera di denuncia all’Ateneo coinvolto, al Miur o a personaggi politici. Di solito si ottiene il silenzio o una risposta generica.

Le attività di contrasto che invece si sono dimostrate efficaci:

1) denunciare alla Magistratura situazioni di illegalità. Purtroppo questa linea di azione comporta costi economici importanti, richiede di trovare un avvocato competente in materia di ricorsi (difficile) e dover attendere tempi molto lunghi per la sentenza finale.

2) denunciare la situazione ai quotidiani nazionali e locali.

Attività promettenti in quanto si sono dimostrate efficaci nelle battaglie per i diritti civili:

1) intraprendere azioni civiche (manifestazioni, pressioni politiche, eccetera) in presenza, nel mondo reale, con la partecipazione di un numero importante di cittadini per creare consenso nell’opinione pubblica. L’Italia è una società dove il contatto umano e la presenza fisica sono importanti per veicolare idee che mirano a cambiare la società.

Credo che a oggi si debba provare a seguire la strada delle azioni civiche in presenza. Per essere concreti, lancio una proposta al lettore. Chi vuole venire con me a manifestare contro i concorsi truccati di fronte alla sede del ministero dell’Università e Ricerca? Se raggiungiamo le 100 persone ci andiamo ed invitiamo i giornalisti. Questa azione sì che avrebbe un impatto! Ma ci vogliono i partecipanti reali e un numero importante di loro.

Condivido qui l’idea della manifestazione in presenza con chiunque la voglia far sua. E invito i vari osservatori e associazioni contro i concorsi truccati, che dichiarano di avere centinaia di iscritti, ad organizzarla se riescono. Non ha nessuna importanza chi la organizza. I like su Facebook purtroppo non contano nulla se non sono seguiti poi da azioni nel mondo reale. Questa è la lezione che dobbiamo tutti apprendere dagli ultimi anni di denunce fatte solo su Facebook.

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I commenti social ai video virali ci dicono che dovremmo rispettare di più le emozioni altrui

di Cristian Pagliariccio

Se in Italia curassimo maggiormente lo sviluppo di competenze emotive, potremmo prevenire situazioni spiacevoli e avere una massa di commentatori e commentatrici social capaci di esprimere un maggior senso di empatia. L’empatia è la capacità di sentire e rispettare le emozioni altrui e ci fa anche capire quando è inopportuno condividere un video, perché fa male soprattutto alle persone che stanno attraversando un periodo di fragilità. Un video recente, divenuto virale, stimola riflessioni su questo aspetto, facendo luce sul bisogno di migliorare la gestione delle emozioni dirompenti e di maturare una maggiore capacità di empatia nelle nostre vite.

Nel video, una studentessa che frequenta il sesto anno di Medicina commette un errore grave durante un esame online. Il docente perde le staffe e le urla contro. La giovane, piangendo, dice di sentirsi umiliata e in sua difesa interviene la madre che, qualificandosi come medico, inizia a litigare con il docente e spiega che la figlia sta attraversando un periodo di fragilità. Tutte e tre le persone sono palesemente in balìa di emozioni forti e spiacevoli. Come al solito, in rete sono estati espressi molti giudizi non richiesti sui protagonisti del video, assolvendoli, condannandoli o, addirittura, deridendoli.

Alcune persone, in particolare il Rettore dell’Università, si sono focalizzate su chi ha pubblicato il video. Come si apprende dalla nota dell’Università, la studentessa ha dichiarato che la pubblicazione del video ha alimentato il senso di difficoltà e il disagio personale. È indubbio che, se il video non fosse stato diffuso e commentato, le persone coinvolte nella vicenda avrebbero potuto trovare un modo migliore per recuperare emotivamente, evitando di vivere un dramma esasperato e prolungato per giorni. Da psicologo che si occupa in particolare di Docenti e Studenti, credo che questa storia possa aiutarci a crescere un po’ come società, se riconosciamo due aspetti.

Il primo aspetto riguarda una forma particolare di violenza, che si lega all’assenza di empatia e si realizza giudicando le persone che vivono situazioni emotivamente spiacevoli e intense. Le reazioni sociali basate su indifferenza, critica e scherno verso persone che provano emozioni forti e spiacevoli, infatti, sono fattori che favoriscono lo sviluppo di reazioni traumatiche e rendono meno efficace l’effetto del supporto sociale ricevuto. Questa dinamica è nota già da molti anni, grazie a varie ricerche che inizialmente si sono focalizzate su fenomeni violenti che hanno coinvolto donne (come ad esempio quelle di Zoelner, Foa e Bartholomew del 1999; Ulman e Flipas del 2001).

È dunque necessario rendersi conto che le varie critiche rivolte a donne o a persone che già provano intense emozioni spiacevoli fanno male. Pochissime persone, purtroppo, si rendono conto che diffondere e commentare questa ed altre vicende alimenta il dolore altrui ed è indice di insensibilità emotiva. Di fatto, nessuno di coloro che ha espresso un giudizio negativo sui protagonisti della storia chiederà loro scusa. Credo, quindi, sia doveroso esprimere solidarietà alle persone protagoniste di questa vicenda, in particolare alla studentessa.

Il secondo aspetto riguarda il bisogno di vivere in una società migliore, anche nei contesti digitali. Per questo, abbiamo la necessità di intervenire in modo efficace. Per fare ciò, dal 1994, l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiede di introdurre appositi programmi scolastici per sviluppare le “life skills” (Abilità di vita), in modo che tutte le persone possano avere competenze per affrontare al meglio la vita.

Tra le varie life skills, ad esempio, ritroviamo la capacità di gestirsi emotivamente, anche quando si provano emozioni intense, la capacità di gestire lo stress e la capacità empatica, necessaria per cogliere e rispettare le emozioni altrui. Le ricerche italiane contenute nel rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità ISTISAN 8/21, dal titolo “La promozione della salute nelle scuole: obiettivi di insegnamento e competenze comuni”, sottolineano l’utilità dei programmi sulle life skills per ridurre comportamenti a rischio e fenomeni violenti.

In un periodo storico in cui è necessario migliorare il benessere delle persone nei contesti scolastici e universitari e della società in generale, c’è quindi da augurarsi che il nostro Paese si decida a favorire lo sviluppo emotivo delle persone. Sarebbe vantaggioso per tutti!

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Didattica online, così si lavora a Chicago. E da voi come va? Condividete le vostre storie!

Non sappiamo quanto durerà ancora questa situazione e quale sarà la nuova normalità. Meglio prepararsi al peggio o, se vogliamo essere ottimisti, progettare il nostro futuro imminente invece che limitarci a subirlo. Alcuni pezzi di società lo stanno già costruendo, come la scuola.

Vorrei usare questo spazio per raccogliere le vostre storie di studenti e insegnanti alle prese con la didattica on line: nel giro di poche settimane tutti – dalle elementari all’università – sono passati da un insegnamento tradizionale a qualcosa di completamente diverso. Al posto di quaderni, lezioni e compiti da consegnare, ci sono classi su Zoom, esercizi via WhatsApp e tanto altro.

Come vi siete adattati? Vorrei chiedervi di fare esempi concreti di cosa sta funzionando e cosa no. Quali strumenti usate, quali colli di bottiglia rendono complicata la transizione (le competenze degli insegnanti? l’assenza di tablet e pc nelle case? La connessione scarsa? E come aggirate questi vincoli?).

Un mondo come quello dell’istruzione che di solito metabolizza i cambiamenti nell’arco dei decenni si trova ora a completare una transizione in poche settimane. Per quel poco che ho sentito finora, i risultati sono sorprendenti, con più storie di successo che di fallimento.

Comincio io e vi racconto come è cambiata nell’arco di poche settimane – letteralmente due, tra la fine di un trimestre e l’inizio dell’altro – la didattica all’Università di Chicago dove lavoro ora.

La vita degli studenti degli Mba – i master in business administration che sono il programma principale offerto dalla Booth School of Business dove sto io – si svolge ora in uno spazio digitale che si chiama Canvas. Era attivo anche prima, per scaricare le slide o le letture, caricare i compiti, ricevere le comunicazioni sulla logistica, ma ora è il centro di tutto. Sparite le lezioni tradizionali – una a settimana di tre ore per ciascun corso – i professori stanno sperimentando nuove modalità.

Nessun essere umano riesce a rimanere concentrato tre ore su Zoom senza finire presto a fare altro, tra social e siti. Quindi i docenti cercano di coinvolgere gli studenti in vari modi: la lezione via Zoom prevede, per esempio, sondaggi continui, per raccogliere le opinioni della classe, quando il professore fa una domanda chi vuole rispondere può “alzare la mano” su Zoom e ottenere la parola. Ma c’è anche il momento per le discussioni in gruppi ristretti: Zoom offre al docente la possibilità di suddividere la classe in “stanze” parallele per un certo periodo di tempo.

Il tempo della didattica on line si frammenta e dilata, le dinamiche si invertono: nel mondo di prima in classe si ascoltava il professore e a casa si facevano gli esercizi. Ora è il contrario. Molti professori registrano pezzi di lezioni frontali – tra i 20 e i 45 minuti – che lo studente può guardare quando crede e poi, nella lezione “in diretta” su Zoom, si passa direttamente alla interazione, che nelle business school è soprattutto discussione di “casi” (la strategia di espansione internazionale di WalMart, le fusioni tra compagnie aeree…).

Trovare un equilibrio non è facile: è vero che stiamo tutti a casa, ma il numero di ore di una giornata non è variato. Questo tipo di didattica discontinua e interattiva richiede moltissimo tempo, anche perché oltre alle lezioni poi gli studenti di Mba hanno spesso i lavori di gruppo (altre riunioni su Zoom, altri file condivisi, altre conversazioni su Slack…).

Ci vorrà un po’ a trovare l’equilibrio.

Anche gli esami, ovviamente, devono adattarsi: addio ai test a crocette, alle domande sulle nozioni, agli esercizi che replicano quanto visto in classe o a casa. Gli esami da remoto diventano “open book”, cioè con domande che richiedono ragionamento e non aver imparato tutto a memoria, alcuni professori li abbandonano del tutto e assegnano più punti ai lavori di gruppo o alla partecipazione in classe (la fantasia delle business school su questo è infinita: domandine rapide prima della lezione, quiz durante la lezione, test su quanto appreso subito dopo….).

Ovviamente questo tipo di didattica va bene per business school con notevoli budget a disposizione e che si rivolgono ad adulti, gente che ha già una laurea e una esperienza lavorativa e investe tempo e denaro in una formazione aggiuntiva.

In questo momento la sfida per le business school è offrire una didattica da remoto che compensi anche la perdita di uno degli aspetti cruciali degli Mba, la creazione di connessioni tra studenti e con le aziende. Perché gli studenti pagano un Mba per fare un salto di carriera, non per apprendere nozioni. Altre scuole di ordine e grado diverso si confrontano con problemi e sfide completamente differenti. Non riesco neanche a immaginare come possa essere la didattica di una quarta elementare su Zoom…

Per questo spero che in tanti vogliano condividere le loro storie qui: nessun dibattito in questo momento è tanto importante come quello sulla formazione per il mondo post-Coronavirus. Anche e soprattutto in tempo di crisi e recessione, il futuro dell’economia e della società dipende dalle persone e dalle loro idee. La scuola – di ogni ordine e grado – plasma entrambe.

Raccontate qui le vostre storie o mandatemele via mail a [email protected]

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Cara ministra Azzolina, sulle lauree abilitanti c’è già una pietra tombale. Perché riesumarle?

di Antonietta Gostoli*

Ho accolto con gioia la nomina della professoressa Lucia Azzolina a ministra della Pubblica Istruzione perché esperta del mondo della scuola e soprattutto perché laureata in Filosofia (oltre che in Giurisprudenza). Per la mia esperienza, i laureati in filosofia si distinguono sempre per capacità critica e ampiezza di orizzonti culturali.

Mi sorprende che nell’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano del 31 gennaio la ministra torni a parlare di un argomento sul quale speravo fosse stata deposta la pietra tombale: l’istituzione di lauree specialistiche per l’insegnamento. Forse la ministra non sa che erano state istituite dalla ministra Letizia Moratti e che sono state smantellate per l’impegno pervicace di tanti, in particolare dei docenti universitari?

La loro realizzazione avrebbe creato la separazione tra la didattica scolastica e la ricerca universitaria, con grave danno per entrambe. La soluzione che è stata trovata, attualmente in vigore, mantiene invece il legame tra esse. Dopo le lauree triennali, che danno una preparazione di base in un determinato settore (per esempio Lettere, Beni culturali, Lingue), seguono le lauree magistrali biennali in cui si affrontano percorsi più specifici (per es. Lettere moderne, Lettere antiche, Storia dell’arte, Archeologia, Lingue orientali, ecc.) avvalendosi degli strumenti ermeneutici e critici propri di ogni ambito. Ma all’interno delle lauree magistrali ci sono 24 crediti opzionali di materie antropologiche e psico-pedagogiche che sono finalizzati alla preparazione per l’insegnamento nella scuola secondaria (con relativo tirocinio) e che permettono l’accesso ai concorsi.

Qualcuno dei laureati magistrali frequenta anche il dottorato di ricerca, ma alla fine pochi di essi riescono a intraprendere la carriera universitaria; la maggior parte andrà ad insegnare nella scuola secondaria, portando però un patrimonio di competenze superiore a quello della media degli altri docenti. Chi ha un po’ di pratica della scuola sa quanto questa tipologia di docente sia apprezzata e come faccia da traino anche ai colleghi. Nel percorso così disegnato la preparazione all’insegnamento scolastico rimane sempre saldamente agganciata all’ambito della ricerca universitaria.

Se si realizzassero le lauree specialistiche per l’insegnamento, esse sarebbero certamente concentrate sulle psico-pedagogie e sulle poche materie che si insegnano nelle scuole secondarie, con grave danno per la preparazione complessiva dei docenti. Dei miei anni scolastici ricordo bravi insegnanti didatticamente impeccabili, ma quelli che sono stati veramente importanti per la mia formazione sono stati quelli che possedevano una più ampia e approfondita preparazione, che collaboravano con docenti universitari in attesa di diventarlo loro stessi, che pubblicavano ricerche scientifiche.

Il numero esponenziale dei docenti di sostegno dimostra che la scuola ha fatto tanto per venire incontro ai bisogni degli alunni in difficoltà. Ma è sotto gli occhi di tutti che il livello generale dell’istruzione si è abbassato di molto. E’ necessario un recupero di qualità che può avvenire solo attraverso il recupero di qualità nella preparazione dei docenti. Il quale certo non si ottiene rinchiudendoli nell’area ristretta delle materie scolastiche e delle psico-pedagogie.

*Professoressa di Lingua e letteratura greca presso l’Università di Perugia

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Gaetano Manfredi e quell’indagine per falso come collaudatore delle case per i terremotati dell’Aquila: “Atto formale, tutto regolare”

“Una contestazione puramente formale a tutte le commissioni di collaudo. Ma non ho fatto nulla di irregolare”. Il nuovo ministro della Ricerca e dell’Università, Gaetano Manfredi, risponde così in un’intervista al Corriere della Sera quando gli viene chiesto delle indagini nei suoi confronti per i collaudi nella ricostruzione dell’Aquila. Secondo Il Tempo, infatti, sul nuovo titolare del (mezzo) dicastero di Lorenzo Fioramonti “pende un’accusa di falso come collaudatore delle case che Silvio Berlusconi fece costruire a L’Aquila. Dopo il rovinoso crollo di un balcone, la procura guidata all’epoca da Fausto Cardella mise sotto inchiesta, nel 2015, 37 persone, fra cui proprio Manfredi”.

In quattro anni, però, non si è ancora arrivati a processo, visto che la richiesta di rinvio a giudizio non è mai stata esaminata per vari contrattempi e problemi di attribuzione che l’hanno spostata fino al 5 febbraio 2020, quando per i 29 imputati rimasti, compreso Manfredi, è stata fissata l’udienza preliminare: a ostacolare il regolare corso della giustizia, scrive Il Tempo, sono stati “l’intervento della procura di Piacenza, il rinvio in Cassazione, il trasferimento definitivo a L’Aquila, il giudice che si è a lungo ammalato, udienze continuamente saltate ed errori di notifica”.

Alle accuse, che visto il tempo trascorso rischiano di finire in prescrizione, Manfredi ha però risposto dicendo che si tratta di un atto formale ed è poi passato ad esporre i suoi piani da nuovo ministro. Innanzitutto, rispondendo a chi gli chiede se le sue critiche passate per i mancati fondi all’università non rappresentino una contraddizione, visto che sono il motivo delle dimissioni del suo predecessore: “So che quella cifra, 1 miliardo, è quanto è stato tagliato dei fondi per l’università negli ultimi anni e che dovrebbe essere recuperato – ha detto al Corriere – Ma so anche che la situazione della finanza pubblica è difficile e che non è possibile recuperare tutto subito. Però non possiamo considerare l’università e la ricerca come la cenerentola del Paese, serve un impegno da parte di tutto il governo e un piano per rispondere a queste esigenze in tempi ragionevoli”.

Alla domanda su eventuali garanzie offerte da Conte su questo punto, il neoministro risponde: “Un piano pluriennale si deve fare. La prima cosa, però, è ascoltare gli enti di ricerca e capire come muoversi. Siamo d’accordo, lo faremo insieme, io e il presidente del Consiglio”.

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