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Palestina, anche i libri per ragazzi raccontano un popolo sotto occupazione

di Federica Pistono*

Gli esordi della letteratura palestinese per ragazzi si inquadrano nell’ambito più generale della narrativa araba per l’infanzia. Quest’ultima prende le mosse dalla traduzione, in ambito egiziano, delle Favole di La Fontaine, nel 1874. Sempre in Egitto, negli anni Quaranta del ‘900, la casa editrice Dār al-Maʻrif dedica una collana ai lettori più giovani, seguita, soprattutto in Algeria e in Tunisia, da nuove case editrici che si specializzano nella pubblicazione di opere rivolte all’infanzia e all’adolescenza.

Negli anni Settanta, è il Libano a presentarsi come il nuovo faro nel settore della narrativa per ragazzi, con la nascita della casa editrice Dār al-Fatà al-ʻarabī. All’iniziativa libanese si ispirano editori di altri paesi arabi che danno vita a realtà simili, come la casa editrice irachena Thaqafa al-Aṭfāl, la cisgiordana Tamer Institute e la collana per ragazzi della casa editrice egiziana Dār al-Šurūq.

La prima opera palestinese per ragazzi può forse considerarsi La piccola lanterna di Ghassan Kanafani (Amicizia Sardegna-Palestina, 2014, a cura di G. Pusceddu), un testo scritto nel 1963 che anticipa il sorgere di Dār al-Fatà al-ʻarabī. L’autore, notissimo per la sua produzione letteraria rivolta agli adulti, scrive, in occasione del compleanno della nipotina Lamis, uno splendido racconto che valorizza motivi tipici della tradizione fiabesca araba. Il testo, che denota l’assemblaggio di illustrazione e scrittura, narra la storia di una principessa che diventerà regina solo se saprà realizzare le ultime volontà del padre: portare il sole all’interno del palazzo reale. Un compito impossibile, in apparenza, ma con un significato metaforico chiaro: una grande impresa non può essere compiuta individualmente ma esige il contributo di tante persone, ciascuna delle quali porta nel palazzo una piccola lanterna, simbolo del coraggio del singolo che, unito a quello degli altri, è in grado di operare il miracolo.

Con l’avvento del nuovo millennio, la letteratura palestinese per l’infanzia focalizza l’attenzione su nuove tematiche, come quelle della disabilità, della guerra e della prigionia. La narrativa per ragazzi diviene così occasione per narrare, dal punto di vista dei più piccoli, la condizione di un popolo sotto occupazione.

Su questa linea si muove il romanzo Controcorrente di Taghreed Najjar (Giunti, 2018, trad. L. Mattar), caratterizzato da una protagonista femminile, Yusra, una ragazzina della Striscia di Gaza che, dopo la paralisi del padre, colpito in mare da una nave pattuglia israeliana, prende il posto del genitore diventando la prima pescatrice di Gaza e prendendo consapevolezza del fatto che ognuno è in grado di forgiare il proprio destino, anche quello di svolgere un ruolo considerato tradizionalmente maschile.

Il romanzo La storia del segreto dell’olio (Atmosphere libri, 2020, trad. F. Pistono) si situa, invece, alla confluenza di due filoni: quello della narrativa per ragazzi e quello della letteratura di prigionia, presentandosi come un testo sui generis, giacché la realtà della vita detentiva è osservata attraverso la lente particolare dello sguardo dell’infanzia.

Il protagonista Jud, che ha dodici anni e non ha mai visto suo padre, prigioniero da un tempo anteriore alla sua nascita, non sa raffigurarsi il volto del genitore né l’universo carcerario; sa soltanto che mura altissime, cancelli invalicabili, guardie armate lo separano dall’incontro con il padre conosciuto soltanto in fotografia. Nonostante le difficoltà, il ragazzo decide di entrare nella prigione di nascosto. Lo aiutano, nell’ardua missione, i suoi migliori amici, un gruppo di animali parlanti: un coniglio, un uccello, un gatto e un cane. Il romanzo ci presenta anche un ulivo millenario che produce olive in grado di donare l’invisibilità, grazie alla quale il ragazzo riesce a penetrare nella prigione e a conoscere finalmente il padre. Proprio l’ulivo è il depositario del segreto dell’olio e di una saggezza antichissima.

La spiegazione del segreto dell’olio contiene un evidente riferimento alla figura di Gesù e all’olio dell’unzione. L’olio, infatti, è simbolo di benedizione e prosperità, dona gioia e forza, guarisce le ferite, richiama la sapienza, l’amore e la fraternità. Il segreto offrirà una nuova speranza al popolo palestinese. Al di là della fiaba, il romanzo è una dura testimonianza sulla condizione dei figli dei prigionieri palestinesi.

* traduttrice ed esperta di letteratura araba

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Tra zar e dannazioni antiche, cinque vite che lottano per la propria identità

A ciascuno il suo lago, di Nenad Joldeski (traduzione di Davide Fanciullo; Mimesis). Poetico, secco, ermetico, a tratti nichilista, il testo dello scrittore macedone è un originale e serio collage minimalista dove le pulsioni solitarie dell’uomo sono costantemente messe a confronto con una marginale dimensione urbana e con la consistenza liquida del lago (metafora del lago di Ohrida, specchio d’acqua su cui si affaccia Struga, città d’origine dell’autore).

Verosimiglianza, realtà e situazioni surreali si susseguono in questi brevi racconti collocati in anonime stanze d’albergo, sopra a scrivanie colme di libri, nei vicoli nebbiose di città anonime che si sciolgono lentamente, sulle tracce di artisti rapiti dal proprio inconscio.

Kintu, di Jennifer Nansubuga Makumbi (traduzione di Emilia Benghi; 66thand2nd). Epopea archetipale e viscerale della storia del suo Paese, l’autrice ugandese dispiega per il lettore la maledizione sulla stirpe di Kintu Kidda, governatore della provincia di Buddu a metà del 1700, che durante una traversata di territori ostili per rendere omaggio al nuovo sovrano, è inconsapevolmente colpevole della morte del figlio adottivo, fatto che scatenerà un flagello capace di protrarsi nei secoli.

E così, nell’età contemporanea, Kamu Kintu e sua sorella Kusi, Suubi, Isaac Newton, il predicatore Kanani e gli altri discendenti di Kintu Kidda subiranno le conseguenze di quell’antica dannazione. Qualcuno perirà, fisicamente e spiritualmente, altri cercheranno di liberarsi dal fardello che si annida nel cuore della famiglia.

Con sapienza e notevole capacità storica, la scrittrice tesse un mosaico avvincente che mescola le leggende popolari, le rivendicazioni locali e un linguaggio sanguigno, a volte torbido, dove, tra le righe, si legge un atto d’accusa all’ottusità coloniale e agli uomini che hanno scimmiottato il potere straniero in quella che è diventata l’Uganda odierna.

Le tribolazioni dell’ultimo Sijilmassi, di Fouad Laroui (traduzione di Cristina Vezzaro; Del Vecchio Editore). Una riflessione in chiave narrativa sullo scontro tra la cultura occidentale e quella maghrebina, più propriamente sull’influenza occidentale nella sensibilità sociale e linguistica degli appartenenti alle classi benestanti arabe. Un’influenza capace di far esplodere vere e proprie crisi di identità e contromosse a volte schizofreniche ed estremiste.

Tratteggiato in modo grottesco, il romanzo racconta le vicende di Adam Sijilmassi, rappresentante in giro per il mondo per una grossa azienda che, al ritorno a Casablanca dall’India, decide di non prenderà mai più un aereo e di spostarsi a piedi. Questa decisione allontanerà sua moglie, preoccupata di perdere il suo status symbol altoborghese e porterà Adam a percorrere, camminando, la distanza che lo separa dal suo villaggio d’origine, convinto di ritrovare quella tradizione tipicamente marocchina che la vita “globalizzata” gli ha tolto.

Ma anche al borgo natio le incomprensioni non tarderanno a sopraggiungere, conducendo Adam al labile confine tra due modi di vedere il mondo, in una terra di mezzo fatta di equivoci, ripensamenti, riflessioni e una cinica e sagace ironia letteraria.

Piccoli miracoli, di Sandra Cisneros (traduzione di Riccardo Duranti; La Nuova Frontiera). Semplici, commoventi, ironici, i racconti di quella che è considerata tra le più importanti autrici chicane danno voce a un coro di voci femminili, che tratteggiano la crescita dall’infanzia all’età adulta delle protagoniste delle storie. Una scrittura dei cinque sensi, dove colori e odori si rincorrono narrando vicende familiari, amare e passionali con una forte connotazione geografica, sociale e antropologica.

All’ombra della collina dei galli, di Osvalds Zebris (traduzione di Paolo Pantaleo; Mimesis). Un romanzo ambientato a Riga, nel 1905, scossa da rivolte operaie, violenze e pogrom, mentre nel vasto impero russo il potere dello Zar comincia a vacillare.

Parallelamente lo scrittore lettone narra la storia di due amici che si ritrovano uno contro l’altro, della collina dove sono cresciuti in armonia e del rapimento misterioso di tre bambini. Amalgamando vari generi letterari Zebris scrive una storia intima e al contempo di un Paese, la Lettonia, alla difficile ricerca di una propria libertà e identità nazionale.

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Siria, due voci testimoniano il mondo arabo di ieri e di oggi

di Federica Pistono*

Gettando uno sguardo alle opere siriane giunte a noi in traduzione in questo 2019 appena trascorso, spiccano due titoli che meritano l’attenzione del grande pubblico.

Il primo è la raccolta di racconti La storia della sete antica di George Salem (MReditori, 2019, trad. A. D’Esposito), un autore che, definito come il più kafkiano degli scrittori arabi, fu anche traduttore e filosofo. Nella sua breve vita (1933-1976) fu un intellettuale poliedrico di fede cristiana che, influenzato dall’esistenzialismo francese, affrontò i temi del significato della vita, dell’inevitabile fine dell’uomo, della solitudine e dello sconcerto dell’individuo di fronte al mondo, della soppressione della libertà di parola in uno Stato poliziesco.

Il centro dell’universo di Salem è l’individuo, non certo le masse, un individuo che si ritrova nel mondo e non lo riconosce, come se vi fosse capitato per caso. La frantumazione del soggetto in più entità, una tematica che l’Europa aveva già conosciuto con l’io uno e plurimo di Nietzsche, rappresenta uno spunto del tutto nuovo per la cultura araba che, sulla base della religione rivelata, musulmana o cristiana, aveva dato vita a un soggetto unico e granitico, come era avvenuto nella cultura europea della prima metà dell’Ottocento.

La “sete antica” cui si riferisce il titolo dell’opera rappresenta una metafora della sete di alti valori morali, come la ricerca della libertà e dell’amore, espressa attraverso la parabola dell’esistenza umana. Lo scrittore si ispira inoltre a Jean-Paul Sartre e ad Albert Camus, come si deduce dalla riflessione sul senso della vita, in cui egli pone in rilievo la solitudine e l’inutilità del vivere.

L’assurdità della condizione umana dipende dal fatto di essere destinata alla morte e all’annullamento. In quest’orizzonte cupo, l’uomo può contare solo su se stesso. La domanda che l’autore si pone riguarda la capacità degli uomini di ricercare e di trovare, nonostante tutto, un senso al proprio esistere, che per lo scrittore è conferito dal sentimento di solidarietà, che ciascuno deve coltivare in nome dell’amore per il prossimo.

I suoi personaggi sono spesso degli emarginati che conducono una vita di sofferenze. Nella raccolta, si fa strada anche il tentativo di trovare nella religione una risposta alle domande sul senso della vita. La soluzione, però, sembra non arrivare neppure da Dio, che resta muto di fronte agli interrogativi dell’uomo. Ed ecco che appare un elemento nuovo che segna forse un punto di svolta: l’amore e la donna amata sono raffigurati come uno spiraglio di luce nelle tenebre dell’esistenza.

Tuttavia, nel momento in cui sembrava profilarsi all’orizzonte una possibilità di approdo, la sorte ci ha purtroppo privato di un intellettuale siriano che aveva ancora molto da dare. E, forse proprio perché all’autore è mancato il tempo per indicare una via da percorrere alla ricerca del senso della vita, i racconti risultano di grande fascino.

L’altro titolo senz’altro degno di grande interesse è Diario di Samira al-Khalil. Parole dall’assedio (a cura di Y. al-Haj Saleh, MReditori, 2019, trad. G. de Luca e S. Haddad). Samira al-Khalil è una dissidente e attivista siriana che ha trascorso quattro anni nelle carceri di Hafez al-Asad. Nel 2013 è stata rapita a Duma dai terroristi jihadisti con altri tre intellettuali e da allora di lei si è perduta ogni traccia. I suoi appunti sono stati raccolti, curati e organizzati in un volume dal marito, Yassin al-Haj Saleh, anch’egli intellettuale, scrittore e oppositore politico siriano che ha trascorso in carcere 16 anni a causa della propria militanza comunista.

L’autrice ci offre la sua testimonianza in un diario composto di appunti sparsi e di osservazioni postate sui social media. L’opera conduce il lettore nel cuore di al-Ghouta, la zona alla periferia di Damasco assediata tanto dall’esercito governativo di Bashar al-Asad quanto dai terroristi jihadisti. Si tratta di parole semplici, dirette, dettate dall’urgenza di testimoniare al mondo gli eventi della guerra ma anche i sentimenti più reconditi di chi si trova a vivere in stato di assedio.

Il diario rappresenta la voce di una donna che è riuscita a superare i confini del conflitto, che ci spiega che cosa diventi la vita sotto assedio, quando bisogna accettare una quotidianità sotto le bombe e continuare a vivere anche se le armi chimiche, di notte, uccidono senza ferire. Il libro ci offre dunque uno spaccato di vita giornaliera in tempo di guerra, una vita fatta di piccole cose, in cui anche la banale scelta di accendere la luce può essere pagata con la morte.

Il testo, però, non contiene soltanto riferimenti ai fatti che accadevano a Duma sotto lo sguardo indignato di Samira, ma anche un ritratto dei tre attori responsabili della distruzione della Siria: il terrorismo nichilista, il terrorismo di stato e l’indifferenza della comunità internazionale.

* traduttrice ed esperta di letteratura araba

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Scoperta una strofa inedita dei ‘Fiori del male’. Così Baudelaire ci insegna che i desideri non conoscono fine

di Selene Vatteroni

Quello con un autografo è senza dubbio l’incontro più emozionante che può capitare di fare nella ricostruzione testuale di un’opera letteraria. Paradossalmente lo sanno bene i filologi e gli studiosi della letteratura italiana, che di Dante, padre della nostra lingua e tradizione letteraria, non hanno mai trovato nemmeno una firma.

Uno straordinario incontro è toccato invece ai colleghi francesi: si tratta della strofa conclusiva, la nona, di Les Bijoux, una delle sei poesie condannate della prima edizione de Les Fleurs du Mal (Paris 1857) di Charles Baudelaire. Visione sensuale e vertiginosa di una donna vestita solo dei propri gioielli, a partire dalla seconda edizione del 1861, l’ultima curata personalmente dall’autore, Les Bijoux viene sostituita dall’allegoria tragica del male di vivere di Le Masque.

Et je fus plus plein alors de cette Verité: / Que le meilleur trésor que Dieu garde au Génie / Est a connaître à fond la terrestre Beauté, / Pour en faire jaillir le Rythme et l’harmonie” (“e allora fui pieno di questa verità: che il tesoro più grande che Dio riserva al Genio è conoscere a fondo la bellezza terrena, per farne sgorgare ritmo e armonia”): i quattro versi inediti sono stati scoperti, aggiunti dal poeta a matita in calce al testo della poesia, in un esemplare dell’editio princeps con dedica all’amico Gaston de Saint-Valry, esemplare poi confluito in una biblioteca privata e di recente messo all’asta per un prezzo di partenza stimato tra i 60 e gli 80mila euro.

Più che di una scoperta si tratta in realtà di una ri-scoperta: dell’esistenza di una testimonianza autografa della nona strofa de I gioielli – ad oggi l’unica nota – si sapeva fin dai primi del Novecento (ne dà notizia Y.-G. Le Dantec nelle Oeuvres di Baudelaire edite nella “Pléiade”, Paris 1934), ma il possessore del prezioso esemplare si era sempre rifiutato di autorizzarne la riproduzione.

Che cosa succede, allora, quando ri-emerge un autografo? Succede che lo sguardo dell’interprete sul testo e sul suo autore cambia, a volte anche molto profondamente. È stato così nel caso della scoperta, avvenuta qualche anno fa, di un esemplare delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (Venezia 1525) con annotazioni autografe dell’autore: una scoperta che, spiegano gli editori del postillato, ha cambiato l’immagine della vulgata della prima grammatica della nostra lingua (F. M. Bertolo, M. Cursi, C. Pulsoni, Bembo ritrovato. Il postillato autografo delle Prose, Roma 2018).

In un caso come quello de I gioielli, i quattro versi inediti arrivano a guidare l’interpretazione del testo in direzione “flamboyant” (v. 31), verso l’affermazione di un desiderio che non si rassegna a finire, e insieme ci dicono che il poeta, infaticabile revisore di se stesso, non aveva rinunciato a lavorare sulla poesia nemmeno dopo la sua immediata esclusione dalla raccolta.

La vicenda un po’ rocambolesca di questa ri-scoperta ricorda per certi versi quella di un altro ritrovamento, forse il più celebre della letteratura italiana: l’autografo del Decameron di Boccaccio, il manoscritto Hamilton 90 della Staatsbibliothek di Berlino. L’ipotesi dell’autografia di questo testimone era già stata avanzata all’inizio del Novecento da Alberto Chiari e Michele Barbi, ma allora non era stata resa pubblica. Nel secondo dopoguerra del manoscritto, “sfollato” da Berlino a Marburg per paura dei bombardamenti, si erano perse le tracce; e solo all’inizio degli anni Sessanta Vittore Branca, che sarebbe diventato l’editore critico del Decameron, e Piergiorgio Ricci l’avevano richiesto in prestito presso la Biblioteca Marciana di Venezia per studiarlo a fondo, rendendosi conto di avere effettivamente davanti agli occhi l’autografo di quella che è forse la più famosa prosa italiana – e dandone finalmente notizia (V. Branca-P. G. Ricci, Un autografo del Decameron (codice Hamiltoniano 90), Padova 1962).

Questo tardivo riconoscimento ha avuto conseguenze di non poco peso sia sulla restituzione del testo del Decameron così come lo leggiamo da più di 40 anni sia sull’idea che abbiamo del modo in cui lavorava Boccaccio: basti pensare che nel 1974 Charles Singleton si affrettava a dare alle stampe un’edizione diplomatico-interpretativa (ossia quasi “fotografica”) del codice berlinese che valeva come vera e propria ammenda delle critiche mosse in precedenza alla sua autorevolezza (C. S. Singleton, Decameron. Edizione diplomatico-interpretativa dell’autografo Hamilton 90, Baltimore 1974, che nell’introduzione ripercorre tutta la vicenda).

Adesso non resta che attendere che, con pari entusiasmo, il prossimo editore de Les Fleurs du Mal restituisca ai lettori Les Bijoux completa della sua ultima gemma.

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