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Russia, lunghissima fila di auto alla frontiera con la Finlandia: decine di chilometri di coda – Video

Una lunghissima coda di auto si è formata alla frontiera fra Russia e Finlandia, l’unico confine terrestre ancora aperto per i russi con i visti Schengen. Lo segnala su Twitter il giornalista free lance Sotiri Dimpinoudis, allegando un video delle auto in fila. Secondo il reporter la coda è lunga 35 chilometri e continua a crescere. La notizia arriva dopo l’annuncio della parziale mobilitazione dei riservisti fatta oggi dal presidente russo Vladimir Putin. I voli aerei per lasciare la Russia sono già esauriti. In Finlandia, intanto, sta crescendo la preoccupazione per un possibile massiccio afflusso di cittadini russi. Già negli ultimi due giorni prima dell’annuncio, un totale di 6.500 russi sono entrati nel Paese, di cui circa un terzo con visto turistico, secondo il quotidiano Iltalehti.

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Battaglia di Gaza, perché Hamas sinora è rimasta nell’ombra e Israele evita di provocarla puntando contro la Jihad islamica

Hamas non ha sinora partecipato attivamente ai combattimenti nella Striscia di Gaza. Certo il leader di Hamas – Ismail Haniyeh – ha incolpato Israele per l’escalation iniziata venerdì e ha minacciato che “tutte le opzioni sono aperte”. Ma i suoi comandanti militari sono rimasti nei tunnel sotto la città di Gaza, mentre i suoi “lanciatori” hanno atteso ordini che non sono mai arrivati. Hamas non è sembrato ansioso di farsi trascinare in uno scontro prolungato con Israele. La discesa in campo avrebbe potuto trasformare la battaglia in una guerra totale. La scommessa israeliana di dividere il fronte islamista di Gaza è apparsa sin qui vincente.

La Jihad islamica, attiva nel lancio dei razzi di queste ore, è il più piccolo dei due principali gruppi militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, ampiamente superato per mezzi e uomini da Hamas. Ma gode del sostegno finanziario e militare diretto dell’Iran ed è diventata la forza trainante negli attacchi missilistici e altri scontri con Israele. Hamas, che ha preso il controllo di Gaza nel 2007 strappandolo militarmente all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, è spesso limitata nella sua capacità di agire perché ha la responsabilità di gestire gli affari quotidiani di un territorio impoverito e sempre sull’orlo di una catastrofe umanitaria. La Jihad islamica non ha tali doveri ed è emersa quindi come la fazione più militante, che ha sfidato più volte anche l’autorità di Hamas.

Hamas e la Jihad islamica mantengono un quartier generale operativo congiunto in cui le decisioni militari e politiche devono essere concordate. A prima vista, le due organizzazioni hanno un obiettivo comune: portare alla fine dell’occupazione e spazzare via Israele. Tuttavia, le divisioni ideologiche impediscono loro di unirsi. Hamas, in quanto ramo della Fratellanza islamica, si è costruito come movimento sociale populista basato su cuori e menti vincenti che porterà alla creazione di uno stato governato dalla legge religiosa islamica. L’ideologia della Jihad islamica è continuare a combattere e rimuovere regimi indegni, e solo allora stabilire uno stato di diritto islamico.

Mentre Hamas vede la ricostruzione di Gaza, il miglioramento economico dei suoi cittadini e la creazione di un ampio sostegno pubblico come tappe essenziali sulla strada per il raggiungimento del suo obiettivo ideologico, la Jihad non ha alcun interesse a ricostruire la Striscia, creare istituzioni pubbliche e welfare o condurre attività politiche all’estero al di là di quanto
strettamente necessario per ottenere denaro e armi. In questo contesto, nel corso degli anni sono emerse profonde differenze tra le due organizzazioni, anche se sono state costrette a collaborare. Mentre Hamas ha un grande vantaggio militare ed economico, la Jihad islamica ha la capacità di colpire il monopolio di Hamas e minarne il controllo sfruttando le reazioni istintive dell’ esercito israeliano.

Questa rivalità lega anche Israele e lo porta a intraprendere azioni contraddittorie che vengono interpretate come una politica confusa. Da un lato, Israele vede Hamas come l’entità suprema responsabile di tutto ciò che accade a Gaza, e quindi suppone che Hamas debba pagare il prezzo di qualsiasi azione militare ostile, anche quando proviene da altri gruppi. Allo stesso tempo, affinché Hamas possa esercitare il suo controllo – ed essere l’unico a cui Israele rivolge tutte le sue richieste, soprattutto quando si tratta di mantenere il silenzio – deve essere dotato degli strumenti necessari per gestire gli affari civili . Ciò include il trasferimento di denaro per pagare gli stipendi (che arrivano dal Qatar in accordo con Israele) e la ricostruzione nella Striscia, e quindi rafforzare il sostegno pubblico ad Hamas.

Le radici di questa contraddizione stanno nella decisione di Israele di sfruttare la forte rivalità tra Fatah e Hamas, e tra l’Autorità Palestinese e la leadership dei gruppi della Striscia di Gaza, per vanificare ogni possibilità di negoziati diplomatici. Secondo Israele, poiché l’Anp non può controllare Hamas o impedirne il terrore, non rappresenta comunque l’intero popolo
palestinese, quindi non può essere un partner negoziale. Questa politica ha finora raggiunto i suoi obiettivi, ma allo stesso tempo non solo rafforza la posizione di Hamas nella Striscia di Gaza, ma gli conferisce anche potere di veto su qualsiasi mossa diplomatica. La necessità di manovrare tra queste considerazioni contraddittorie pone a Israele e Hamas un serio dilemma, il cui cuore è come rispondere in un modo che non costringa Hamas a collaborare con la Jihad islamica.

In questi tre giorni di combattimenti Israele non ha danneggiato le infrastrutture civili, le basi di Hamas e gli impianti di produzione di armi. Non ha minacciato di uccidere i suoi leader e continua a trasmettere messaggi attraverso l’Egitto che il gruppo non è nella sua lista di obiettivi. Ironia della sorte, questa posizione impone a Israele la necessità di differenziare tra le organizzazioni e di concentrare le sue capacità militari solo contro un’ organizzazione secondaria, in contrasto con la sua dichiarazione secondo cui Hamas è l’unico responsabile, perché Israele ora ha davvero bisogno di Hamas per limitare la portata del battaglia e non farla diventare un’altra guerra.

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Ucraina, Amnesty International denuncia gravi violazioni del diritto umanitario. “Anche Kiev responsabile”. Kuleba: “Rapporto ingiusto”

Bombe a grappolo– messe al bando dalla comunità internazionale-, armi esplosive che producono effetti su larga scala, per non parlare del bombardamento di interi centri abitati che ha causato migliaia di vittime civili e la devastazione di un Paese che non si riconosce più. Nella guerra in Ucraina, tutte le regole del diritto internazionale umanitario sono state violate non solo da parte dell’invasore- la Russia– ma anche da parte di chi l’invasione l’ha subita, l’Ucraina. E’ quello che emerge dalle indagini condotte sul campo dagli esperti dell’ organizzazione non governativa Amnesty International che punta il dito anche contro Kiev. “Chiediamo al governo ucraino di assicurare immediatamente l’allontanamento delle sue forze dai centri abitati o di evacuare le popolazioni civili dalle zone in cui le sue forze armate stanno operando. Gli eserciti non devono mai usare gli ospedali per attività belliche e dovrebbero usare le scuole o le abitazioni dei civili solo come ultima risorsa, quando nessun’altra alternativa sia percorribile”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. La tattica utilizzata più frequentemente dalle forze ucraine, secondo Amnesty, sarebbe quella di collocare obiettivi militari all’interno di centri abitati, come se questo potesse dissuadere le forze russe dal bombardare donne uomini e bambini. “Nel tentativo di respingere l’invasione russa iniziata a febbraio,- afferma Amnesty- le forze ucraine hanno messo in pericolo la popolazione civile collocando basi e usando armamenti all’interno di centri abitati, anche in scuole e ospedali. Queste tattiche violano il diritto internazionale umanitario perché trasformano obiettivi civili in obiettivi militari“. Dall’altro lato, l’ong ammonisce Mosca in maniera chiara: anche se Kiev utilizza questi espedienti per ottenere un vantaggio militare strategico nei combattimenti, ciò non giustifica in alcun modo attacchi indiscriminati da parte russa.

L’indagine che ha portato Amnesty a queste conclusioni è durata diverse settimane tra aprile e luglio, durante le quali i suoi esperti hanno potuto ispezionare le regioni di Kharkiv, del Donbass e di Mykolaiv, intervistare i sopravvissuti, i testimoni e i familiari delle vittime, analizzando anche le armi usate. Le prove raccolte dimostrano come le forze ucraine abbiano lanciato attacchi da centri abitati, a volte dall’interno di edifici civili, in 19 città e villaggi.

Il Crisis Evidence Lab, una sezione di Amnesty International che utilizza strumenti di indagine digitale per documentare a distanza le violazioni dei diritti umani, si è servito di immagini satellitari per convalidare le prove relative alla cattiva condotta delle truppe ucraine. La maggior parte dei centri abitati dove si trovavano i soldati ucraini erano a chilometri di distanza dalle linee del fronte e, dunque, ci sarebbero state alternative che avrebbero potuto evitare di mettere in pericolo la popolazione civile. Amnesty International però precisa di non essere a conoscenza di casi in cui l’esercito ucraino che si era installato in edifici civili all’interno dei centri abitati abbia chiesto ai residenti di evacuare i palazzi circostanti o abbia fornito assistenza nel farlo. Se fosse provata una tale circostanza, Kiev sarebbe venuta meno al dovere di prendere tutte le possibili precauzioni per proteggere le popolazioni civili. La risposta del governo di Volodymyr Zelensky alla accuse è arrivata puntuale. “Questo rapporto di Amnesty International non intende trovare e denunciare la verità al mondo, ma creare una falsa equivalenza tra l’autore del reato e la vittima, tra il Paese che distrugge centinaia e migliaia di civili, città, territori e un Paese che si difende disperatamente”, ha dichiarato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che ha definito il lavoro di Amnesty un rapporto “ingiusto”.

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Iraq, i manifestanti pro Muqtada al Sadr assaltano per la seconda volta il Parlamento di Baghdad. Almeno 60 i feriti

Per la seconda volta nel giro di pochi giorni, il Parlamento iracheno è stato preso d’assalto dai sostenitori del leader sciita Muqtada al-Sadr, nel giorno in cui l’Assemblea legislativa si sarebbe dovuta riunire per eleggere il primo ministro e il presidente. Video diffusi su twitter mostrano i manifestanti mentre oltrepassano le barriere di cemento che cinge la Green Zone di Baghdad, dove si trovano gli edifici delle istituzioni politiche del Paese, delle rappresentanze diplomatiche e delle organizzazioni internazionali. Le forze dell’ordine hanno lanciato gas lacrimogeni per impedire ai manifestanti di raggiungere la zona protetta. L’assalto avviene a pochi giorni di distanza da un altro episodio simile. Quella volta, dopo alcune ore, gli assalitori hanno lasciato la sede del Parlamento su sollecitazione da parte dello stesso leader sciita Muqtada al- Sadr. Secondo fonti sentite da Al Jazeera, in quell’episodio, la folla inferocita è riuscita ad accedere alla sede istituzionale, agevolati dalle stesse forze di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere l’edificio. I manifestanti si oppongono alla candidatura di Mohammed Shia al-Sudani- ex ministro del governo di Al-Khadimi- decisa dall’ Alleanza del Quadro di Coordinamento, coalizione di partiti vicina all’Iran, Paese rivale storico dell’Iraq. Almeno 60 i feriti trasportati nell’ospedale di Baghdad.

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Crisi di governo, le reazioni all’estero. In Usa garantiscono: ‘Italia rimane stretto partner’. La presidente dei Socialisti in Ue: ‘Preoccupati’

La crisi di governo e la prospettiva sempre più concreta di un voto anticipato vengono seguite con attenzione anche al di fuori dei confini italiani. Tra i Paesi più attenti all’evolversi della situazione a Roma ci sono certamente gli Stati Uniti, tra i più stretti alleati di Mario Draghi in campo internazionale. Un portavoce della Casa Bianca, poco dopo il voto di fiducia al Senato, ha voluto sottolineare che “la partnership con l’Italia è forte e continueremo a collaborare a stretto contatto su una serie di questioni prioritarie, tra le quali il sostegno all’Ucraina contro l’aggressione della Russia”, pur precisando di non voler commentare su questioni di politica interna ma di “sostenere e rispettare” le decisioni del Paese.

Toni ben più preoccupati arrivano da Bruxelles, sponda socialista, dove la presidente del Gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, la spagnola Iratxe Garcia Perez, ha manifestato “preoccupazione per l’evolversi della crisi di governo in Italia”. Per poi passare all’attacco nei confronti degli altri gruppi dell’Eurocamera: “I populisti assieme al Ppe sono i responsabili di questa situazione”.

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Usa, in due diverse sparatorie sei morti e 25 feriti in Tennessee e Pennsylvania

Negli Stati Uniti non si fermano gli episodi violenti e le sparatorie. Sono oggi i morti sono stati sei, mentre almeno 25 sono rimaste ferite. Tre le persone uccise e 14 colpite non mortalmente vicino ad un nightclub a Chattanooga, in Tennessee. Due persone sono morte in seguito alle ferite d’arma da fuoco, una dopo essere stata travolta da un’auto mentre tentava di fuggire. Tra le persone colpite anche un minore. Da una prima ricostruzione ci sarebbero stati più tiratori. La polizia ritiene che si tratti di un episodio isolato e ha lanciato un appello a chiunque possa fornire informazioni. Ignoto per ora il movente della sparatoria.

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Tre decessi e almeno 11 feriti invece in una sparatoria a South Street, la zona della movida di Filadelfia in Pennsylvania (FOTO). In questo caso un agente ha sparato al presunto assalitore, ma non è chiaro se questi sia rimasto colpito, ha spiegato l’ispettore Pace in una conferenza stampa. Nessun arresto è stato fino a ora effettuato. La polizia ha recuperato due armi.

Ieri una donna morta e altre 8 persone sono state colpite in una serie di sparatorie avvenute in un’area commerciale di Phoenix, in Arizona. Secondo la ricostruzione fornita dalla polizia, circa 100 persone si erano raccolte per una festa quando è scoppiata una lite fra diversi gruppi. È stato di un morto e cinque feriti il bilancio di una sparatoria avvenuta venerdì a Chester nei pressi di Richmond in Virginia. Gli agenti giunti sul posto hanno trovato un uomo gravemente ferito da colpi di arma da fuoco e poi deceduto sul posto mentre altre cinque persone sono state portate in ospedale.

Due giorni fa il presidente Joe Biden ha chiesto al Congresso di vietare l’acquisito delle armi d’assalto: “Dobbiamo vietare le armi d’assalto. Quante altre carneficine siamo disposti ad accettare?” ha detto l’inquilino della Casa Bianca di fronte al ripetersi infinito di tragedie legate alla facilità con cui negli Usa si acquistano pistole e fucili. Rivolgendosi direttamente agli americani in un discorso in prime-time, il presidente chiede al Congresso di agire perché in America non è più tollerabile che le scuole e gli ospedali siano “campi di sterminio”.

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Guerra in Ucraina, il leader della protesta di Hong Kong: “Smettiamola di considerare la Cina come estranea, Pechino e Mosca molto vicine”

“È arrivato il momento di svegliare il mondo. I leader europei dovrebbero rivedere i rapporti con le dittature come quella russa e cinese se vogliono preservare i valori della democrazia e della libertà”. Lo dice Nathan Law, uno dei leader della protesta degli ombrelli di Hong Kong diventato, a soli 23 anni, il più giovane parlamentare della storia del suo Paese. Oggi vive a Londra in esilio. “È questo il prezzo che ho pagato per la lotta per la libertà” racconta a ilFattoQuotidiano.it a margine dell’evento organizzato dal gruppo Radicali+Europa in Regione Lombardia. “Dovremmo smettere di considerare la Cina come una terza parte in questo conflitto – spiega Law – perché ha avuto un ruolo in tutto quello che la Russia fa. Dobbiamo fare di più per ridurre la loro influenza e per difendere la democrazia”.

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Guerra Russia – Ucraina, la pianista Anna Fedorova: “I musicisti russi che hanno avuto il coraggio di criticare Putin? Per me sono eroi”

Le prime note del Preludio anticipano la sontuosità di un’opera destinata all’immortalità. La carica drammatica del Piano Concerto n. 2, Op.18 di Sergeij Vasil’evic Rachmaninov, il grande compositore, pianista e direttore d’orchestra russo morto negli Stati Uniti nel marzo del 1943, sembra cucita su misura per quanto sta accadendo nel conflitto in seno all’Europa. Sul palco, a riprodurre la magia del genio musicale, c’è Anna Fedorova, 32 anni, stella luminosa del firmamento della musica classica mondiale. La grande pianista originaria di Kiev, sebbene da sette anni viva in maniera stabile ad Amsterdam, ex bambina prodigio cresciuta nei migliori conservatori e la tecnica affinata anche a Imola. Oltre alla sua produzione personale è nota per essere una delle migliori interpreti dei capolavori artistici di Rachmaninov. La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 che pose fine al potere dei Romanov costrinse il compositore e la sua famiglia a trasferirsi prima in Crimea e poi, a causa della difficile situazione a lui non congeniale, a lasciare per sempre la Russia alla fine dello stesso anno. Prima i Paesi scandinavi, poi gli Stati Uniti e l’ultimo concerto in Europa alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Corsi e ricorsi storici, ma c’è da chiedersi come avrebbe reagito oggi Rachmaninov all’aggressione militare della sua Russia ai danni dell’Ucraina: “Così come accadde nel 1917 oggi lui sarebbe scappato dal suo Paese, non ci sarebbe stato spazio per la sua voce – confida Anna Fedorova nell’intervista rilasciata a ilfattoquotidiano.it -. Lui amava la Russia, la cultura prodotta, ma la sua musica apparteneva al mondo e non poteva essere ingabbiata da un regime. Proprio nel momento peggiore della sua vita e della sua carriera artistica, afflitto da una violenta crisi depressiva, Rachmaninov ha reagito regalando a tutti noi proprio il Piano Concerto n.2, un capolavoro, simbolo della sua rinascita e pietra miliare della musica classica”.

Russi di ieri e russi di oggi nelle parole della pianista: “Lo stesso paragone può essere fatto col presente, lo choc in cui vivono tantissimi miei colleghi musicisti russi. Alcuni di loro sono stati coraggiosi a parlare apertamente e criticare la decisione del presidente Putin di invadere l’Ucraina. Per me sono degli eroi e meritano rispetto, non è facile comportarsi come loro. In linea generale le persone non vanno trattate in base al passaporto, ma per la loro essenza. Non sopporto le discriminazioni e credo che questo conflitto aprirà una crisi infinita anche sotto quel profilo. Personalmente ho degli amici e colleghi che vivono in Russia e sono in pena per loro”.

Russia e Ucraina, due Paesi gemelli, due culture affini, eppure ciò non è bastato a evitare un conflitto sanguinoso: “Mio padre è nato in Russia, a casa si parlava russo. Nessuno, io compresa, si attendeva che saremmo arrivati a questo punto. E poi gli orrori di Bucha e altri che stanno emergendo: scioccante, disumano, inimmaginabile. Prima della guerra – racconta la pianista ucraina – tornavo a Kiev dai miei genitori e dai miei amici almeno un paio di volte l’anno. L’ultima è stata nell’autunno 2021. A gennaio, con la minaccia militare sempre più concreta, ho iniziato a preoccuparmi per la sorte della mia famiglia e così il 13 febbraio ho imposto ai miei di lasciare la capitale e venire qui in Olanda da me. Ho organizzato tutto, ogni dettaglio del viaggio, anche se loro erano contrari e non temevano alcuna escalation bellica. Sono stata prudente e lungimirante. La mattina del 25 febbraio ho appreso dell’attacco dalle news: avevo ragione io. In futuro avevamo pianificato di vivere ad Amsterdam e avviare insieme a mio padre un’accademia di musica. Forse abbiamo anticipato i tempi, certo dovremo tornare tutti a Kiev prima o poi per recuperare le cose, rendere meno traumatici gli addii, perché lì è rimasto tutto il nostro mondo, il passato, gli affetti, la vita”.

Tra aprile e maggio lei e suo marito, Nicholas Schwartz, contrabbassista di fama internazionale, avevano pianificato una tournée nelle maggiori città ucraine, dalla capitale a Kharkiv, da Leopoli a Odessa per una serie di concerti con l’orchestra filarmonica: “È saltato tutto ovviamente, speriamo di poter tornare presto. Dopo lo choc iniziale seguito all’attacco di fine febbraio, per diversi giorni sono rimasta ‘paralizzata’ dalla paura e dall’orrore, poi c’è stata una scossa. Dovevo reagire e agire, dare una mano al mio paese e così ho organizzato raccolte fondi e aiuti umanitari attraverso concerti di beneficenza. C’è stata grande partecipazione, di musicisti e di pubblico, e in poche settimane è stato possibile raccogliere quasi 500mila euro, tutti devoluti all’Ucraina attraverso canali di fiducia”.

Il personaggio storico che Anna Fedorova disprezza di più è Adolf Hitler e proprio il capo del Cremlino ha giustificato l’attacco per denazificare l’Ucraina: “Tutto questo è semplicemente ridicolo, sono accuse inaccettabili. L’ucraina non è un Paese nazista, lo dice la storia e, ripeto, i legami con la Russia, dalla lingua alla cultura, sono infiniti. L’orrore è nato in Donbass otto anni fa quando io vivevo a Londra, ora è drammaticamente peggiorato. Io so soltanto che la Russia è venuta si è presa la Crimea e il Donbass e per questo resto allibita”.

Per Anna Fedorova la Russia e la sua cultura ritornano sempre, dai grandi della musica alla sua passione per la poesia di Aleksandr Puškin, oltre a Chopin e il Don Giovanni. Predilige la lealtà e condanna il tradimento, teme la solitudine e vorrebbe vivere al mare. Ha il terrore di perdere un volo, il suo colore preferito è il rosso, il fiore il lillà e se proprio deve gustarsi qualcosa si vede davanti a del formaggio e un bicchiere di vino italiano, Brunello possibilmente. L’Italia, per alleggerire la discussione, è nel suo destino: “Ogni volta che vengo è un piacere per gli occhi e per il cuore – aggiunge la pianista ucraina -. Gli anni della scuola a Imola, i concerti, l’ultimo l’estate scorsa, gli amici, i colleghi, la cultura, l’arte, il cibo, il calore delle persone. Nei prossimi mesi tornerò più volte per suonare, a giugno alla Galleria Borghese di Roma, poi a Montalcino e quindi Cividale del Friuli”.

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Covid, in un mese 40% di contagi in più negli Usa. Licenziati 103 marines no vax. A New York raddoppiata la percentuale di positivi

Gli Usa fronteggiano una nuova nuova ondata di contagi provocati da covid: i nuovi casi del coronavirus Sars Cov 2 hanno registrato un incremento del 40% nell’ultimo mese con quasi 120.000 nuove infezioni al giorno e una media di 1.330 morti al giorno. A risentirne sono gli ospedali che registrano una impennata di ricoveri e in alcuni casi hanno i reparti vicino al limite di capacità. Difficilissima la situazione in moltissime terapie intensive che – secondo gli ultimi dati del ministero della Sanità Usa – hanno il 78% dei letti pieni. Solo a Baltimora nel Maryland (poco meno del 70% della popolazione vaccinata) le ospedalizzazioni sono salite addirittura del 72% in sole due settimane.

E “Omicron diventerà senza dubbio presto la variante dominante in Usa”, ha detto oggi l’immunologo Anthony Fauci. Il consigliere della Casa Bianca ha spiegato: “La variante Omicron ha quella che definiamo la capacità di raddoppio in tre giorni”. Ossia i contagi raddoppiano ogni tre giorni. Da oggi inoltre stanno scattando una dopo l’altra le cancellazioni di lezioni in presenza in varie scuole e college del Paese. Alcune università stanno mantenendo gli esami di fine anno in persona – sempre con prova di vaccinazione da parte degli studenti – ma stanno eliminando tutte le attività non strettamente accademiche. È il caso di Princeton e della New York University. In allerta la Cornell University dove sono stati scoperti 903 casi di cui una “alta percentuale” sono causati da Omicron.

Proprio a New York la percentuale di persone positive al Covid è raddoppiata in tre giorni fra il 9 e il 12 dicembre: un balzo che – secondo uno dei consiglieri del sindaco uscente Bill de Blasio – indica il diffondersi della variante Omicron. “Non abbiamo mai visto prima questo a New York”, ha twittato Jay Darma, professore alla Cornell e consigliere per la salute pubblica. Negli ultimi sette giorni la città ha registrato una media di 2.899 di casi positivi al giorno.

Intanto gli Usa procedono con i licenziamenti degli appartenenti alle forze armate che rifiutano il vaccino diventato obbligatorio. Il corpo dei marines ha cacciato 103. La notizia, riportata dalla Cnn, arriva nello stesso giorno in cui l’esercito ha annunciato di aver rimosso per lo stesso motivo sei ufficiali, compresi due comandanti, e che quasi 4.000 soldati si sono opposti all’immunizzazione. La percentuale di vaccinati nelle forze armate Usa è comunque alta: circa 98% nell’esercito e nella marina, 97,5% per l’aviazione e 95% per i Marines. Due giorni fa l’Air Force aveva congedato 27 piloti agli inizi di carriera e quindi giovani: nessuno di loro ha cercato un’esenzione religiosa o sanitaria. L’Air Force aveva concesso al suo personale fino al 2 novembre per la vaccinazione e in migliaia di sono rifiutati o hanno cercato di ottenere qualche tipo di esenzione. Gli Stati Uniti hanno superato le 800mila vittime.

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Omicron: efficacia vaccino crolla, ma risale al 75% con tre dosi. Le previsioni che spaventano Londra: “Almeno 25mila morti entro aprile”

Un crollo dell’efficacia per AstraZeneca ed un calo significativo per Pfizer. Due dosi di vaccino contro il Covid non sono sufficienti a scongiurare il contagio da variante Omicron: il dato emerge dal nuovo rapporto della Health Security Agency, l’agenzia britannica per la sicurezza sanitaria. La buona notizia, però, è che la cosiddetta dose booster alza significativamente la protezione fino a circa il 75%. Lo studio si è basato sull’analisi di 581 casi da variante Omicron e migliaia di Delta: viene stimata una trasmissibilità molto elevata e una crescita esponenziale dei casi. La conclusione è che entro Natale nel Regno Unito si potrà arrivare a oltre un milione di infezioni. Ma non è l’unico data a spaventare il governo di Londra: uno studio della London School of Hygiene & Tropical Medicine prevede tra le 25mila e le 75mila vittime entro aprile, ovvero nei prossimi 5 mesi.

Le prime analisi nel Regno Unito rispetto alle varianti Omicron e Delta confermano che i vaccini sono meno efficaci a fermare la nuova variante. Secondo le stime dell’Hsa, due dosi di Astrazeneca non offrono protezione dal contagio con Omicron, mentre la protezione con due dosi Pfizer si abbassa a circa il 40%. In entrambi i casi, però, la terza dose fa risalire la protezione dal contagio al 75%. È ancora troppo presto, invece, per capire se ci sia un calo anche nella protezione dal rischio di una malattia grave. Per ora, l’agenzia britannica per la sicurezza sanitaria ha comunque confermato che i vaccini offrono una buona protezione contro casi gravi di Covid per i quali è necessario il ricovero.

Il rapporto britannico segnala anche un aumento del numero di reinfezioni: il 7% dei casi di Omicron riguarda persone che avevano già contro il coronavirus, mentre questo dato si ferma allo 0,4% per quanto riguarda Delta. Ma il confronto che più preoccupa è quello che riguarda la trasmissibilità: il 19% dei casi di Omicron ha provocato focolai familiari contro l’8,5% con Delta. Per questo motivo, come la variante Delta è diventa in breve tempo quella predominante, l’agenzia britannica stima a questo punto che entro la metà di dicembre oltre la metà dei casi nel Regno Unito saranno della variante Omicron. I contagi crescono esponenzialmente, con un tempo di raddoppio a tre giorni. Per questo, conclude l’agenzia, se la crescita dovesse continuare immutata si potrà arrivare a oltre un milione di infezioni entro la fine del mese.

Sulla scorta di questi dati, il governo di Boris Johnson si interroga sulla necessità di adottare nuove restrizioni, oltre al “Piano B” appena entrato in vigore. E a mettere ulteriori pressioni su Downing Street arriva lo studio riportato oggi dal Guardian: gli esperti della London School of Hygiene & Tropical Medicine stimano che nello scenario più ottimistico (bassa fuga immunitaria di Omicron dai vaccini e alta efficacia dei booster), si prevede un’ondata di infezioni che potrebbe portare ad un totale di 175.000 ricoveri ospedalieri e 24.700 decessi tra il primo dicembre di quest’anno e fine aprile 2022. Lo scenario più pessimista preso in esame dagli esperti (elevata fuga immunitaria dai vaccini e minore efficacia dei richiami) prevede un’ondata di infezioni che rischia di portare a un picco di 492.000 ricoveri ospedalieri (circa il doppio di quello registrato a gennaio 2021) e 74.800 decessi entro aprile.

I due scenari, specifica lo studio, non tengono conto di ulteriori misure restrittive che potrebbero essere introdotto. Gli esperti però sottolineano la necessità di nuove strette, perché ritengono che indossare la mascherina e lavorare da casa non siano restrizioni sufficienti. Nonostante le incertezze su Omicron “queste prime proiezioni aiutano a guidare la nostra comprensione dei potenziali futuri in una situazione in rapida evoluzione”, ha sottolineato Rosanna Barnard, che ha co-diretto la ricerca, precisando che “il nostro scenario più pessimistico suggerisce che potremmo dover sopportare restrizioni più rigorose per garantire che il servizio sanitario nazionale non sia sopraffatto: è fondamentale che i responsabili delle decisioni considerino il più ampio impatto sociale di queste misure, non solo l’epidemiologia”.

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