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Ti ricordi… Maickel Ferrier, famoso per il manichino razzista impiccato nella curva dei tifosi dell’Hellas Verona

Neanche un minuto. In Serie A non ci ha giocato neppure un minuto eppure la sua impronta c’è ancora, suo malgrado. L’eco di un’impronta, più che altro: perché a gridarlo “impronta” ti torna dietro “onta”, “onta”, “onta”. E fu un’onta a tutti gli effetti quella che a soli 20 anni subì Maickel Ferrier. Un ragazzone olandese alto un metro e novanta per novantacinque chili che nel 1996 giocava nel Volendam: modesta formazione dell’Eredivisie senza grosse individualità, tra i compagni più conosciuti la futura meteora leccese Govedarica e il portiere futuro campione d’Europa col Feyenoord Zoetebier. Un’epoca in cui inizia a muovere i primi passi come procuratore Mino Raiola, di base in Olanda, aveva già portato in Italia Brian Roy, al Foggia, e intravedeva in quel centrocampista possente un buon potenziale. D’altronde all’epoca la Serie A era nettamente il campionato più ambito e quindi quando si prospetta la possibilità di andarci a giocare per un ventenne che sogna di emulare Rijkaard, cui pure qualcuno nel solito gioco troppo azzardato dei paragoni lo aveva accostato, si accende un sorriso carico di speranze.

Raiola ha già pronta la sistemazione per Ferrier: in serie B l’Hellas Verona sta giocando un grande campionato con Attilio Perotti, ha ottime possibilità di arrivare in Serie A ed essendo una squadra tutta di italiani la dirigenza può decidere liberamente di puntare su acquisti stranieri e anche con un certo anticipo visti i buoni risultati. Si punta su un esperto difensore croato nel giro della nazionale, Elvis Brajkovic e poi su Ferrier, mediano o difensore giovane considerato un buon investimento da far crescere accanto a compagni più esperti come Marco Baroni, Eugenio Corini, Stefano Fattori, Vincenzo Italiano, nella rosa che in Serie A sarà guidata dall’allenatore Cagni.

Mickael, assieme al papà e a Raiola arrivano a Verona per firmare il contratto, ma intanto al Bentegodi si gioca il derby tra Hellas e Chievo: dalla curva dell’Hellas a un certo punto due uomini vestiti coi cappucci del Ku Klux Klan lasciano cadere un manichino nero impiccato con lo slogan “Negro Go Away” e sullo sfondo compare lo striscione “El negro I ve la’ regalà: dasighe el stadio da netar”. In italiano: “Il negro ve l’hanno regalato, dategli lo stadio da pulire”. Come se non bastasse dalla curva si alza pure il coro indirizzato al presidente di allora Mazzi, impegnato nel settore dell’edilizia: “El negher portalo in cantier”. Il manichino resta appeso in curva una quarantina di minuti, i cori continuano, la gara si gioca e finisce con la vittoria dell’Hellas per 1 a 0 con gol di Totò De Vitis. Seguita l’indignazione del giorno dopo, che dura giusto il giorno dopo, con la dirigenza del Verona che assicura che lo smacco ai razzisti sarà vedere Ferrier giocare con la maglia gialloblù. Qualcuno ricorda pure una leggenda secondo cui per lo stesso motivo, nel 1952, a Verona non arrivò nientemeno che O’Rey Pelè, ma stavolta sarebbe stato diverso.

E invece Ferrier non giocherà con la maglia gialloblù: vengono fuori non meglio precisati problemi fisici dalle visite mediche e il contratto viene stracciato. Il ragazzo in Italia però ci giocherà: Raiola lo porterà alla Salernitana in B, dove Ferrier giocherà solo 4 partite e guadagnerà un coretto tra l’ironico e il profetico che ogni tanto la tifoseria granata intona ancora: “Me l’ha detto a me, me l’ha detto a me, me l’ha detto a me: tornerà Ferrier”. Poi si trasferirà a Catania in C2, dove di partite ne giocherà 14. Insomma, era evidente che non fosse adatto al calcio italiano, come chiarirà nelle interviste rilasciate negli ultimi anni, e perciò farà ritorno in Olanda, per cinque anni al Cambuur, poi nelle serie minori con l’Helmond Sport, il Telstar e per chiudere poi la carriera al Top Oss. La dirigenza del Verona invece, contestata nonostante la Promozione in Serie A, in quella sessione di mercato in cui rinunciò a tesserare Ferrier forse anche per motivi di immagine ripiegò su altri due ragazzi di colore: il brasiliano Reinaldo, che farà una sola presenza, e il camerunense Bietek, che però non giocherà mai. Ferrier dopo il calcio si è cimentato nel campo della ristorazione ed oggi compie 47 anni…già, proprio oggi.

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Europa League e Conference League, ecco i calendari: Lazio, esordio decisivo. Per Roma e Fiorentina partenza soft

La Uefa ha stilato i calendari di Europa League e Conference League. L’inizio è previsto per l’8 settembre con la fase a gironi che si chiuderà il 3 novembre. Obiettivo per tutte e tre le italiane impegnate è il primo posto al fine di evitare un sorteggio, sulla carta, maggiormente complicato per Roma e Lazio e saltare i sedicesimi di finale per quanto riguarda la Fiorentina.

I giallorossi debutteranno in trasferta contro i bulgari del Ludogorets, ma la partita decisiva per la corsa al primato nel girone sarà la doppia sfida con il Betis in programma il 6 e il 13 ottobre. Per la Lazio, invece, l’esordio sarà con gli olandesi del Feyenoord, la formazione in apparenza più accreditata per impensierire i biancocelesti. Seguiranno i match con Sturm Graz (13 ottobre) e Midtjylland (27 ottobre).

In Conference League, la Fiorentina dopo aver eliminato il temibile Twente, ha pescato un gruppo in cui parte nettamente favorita rispetto agli avversari. I viola cominceranno l’8 settembre con i lettoni del Riga, per proseguire il 15 settembre con l’Istanbul Başakşehir e il 6 ottobre con l’Heart of Midlothian. Ecco tutti gli incontri delle italiane.

Europa League

Prima giornata, 8 settembre: 18.45 Ludogorets-Roma; 21 Lazio-Feyenoord.

Seconda giornata, 15 settembre: 18.45 Midtjylland-Lazio; Roma-Helsinki.

Terza giornata, 6 ottobre: 18.45 Roma-Betis; 21 Sturm Graz-Lazio.

Quarta giornata, 13 ottobre: 18.45 Betis-Roma; 21 Lazio-Sturm Graz.

Quinta giornata, 27 ottobre: 18.45 Lazio-Midtjylland; 21 Helsinki-Roma.

Sesta giornata, 3 novembre: 18.45 Feyenoord-Lazio; 21 Roma-Ludogorets.

Conference League

Prima giornata, 8 settembre: 18.45 Fiorentina-Riga.

Seconda giornata, 15 settembre: 21 Istanbul Başakşehir-Fiorentina.

Terza giornata, 6 ottobre: 21 Heart of Midlothian-Fiorentina.

Quarta giornata, 13 ottobre: 18.45 Fiorentina-Heart of Midlothian.

Quinta giornata, 27 ottobre: 18.45 Fiorentina-Istanbul Başakşehir.

Sesta giornata, 3 novembre: 16.30 Riga-Fiorentina.

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Paul Pogba tiene in ansia la Juventus: fissata una nuova visita al ginocchio in Francia, sarà quella decisiva

Paul Pogba prende tempo. Il francese non ha ancora deciso cosa fare con il suo ginocchio destro al quale ormai una settimana fa ha riportato una lesione al menisco laterale. Inizialmente si era ipotizzato di sottoporre il centrocampista all’intervento già negli Stati Uniti, dove la Juve sta svolgendo il ritiro estivo, ipotesi poco dopo accantonata. L’operazione, però, è inevitabile anche perché il problema perseguita il centrocampista da tempo. Resta da definire la data e la tipologia di intervento. La paura più grande di Pogba è saltare il Mondiale in Qatar e tornare in campo con i bianconeri a inizio 2023 sacrificando tutta la prima parte della stagione.

Un primo consulto medico ha previsto dai tre ai cinque mesi di stop. Ora il francese tornerà in patria per visite più approfondite. L’appuntamento è stato rimandato a dopo il weekend e con ogni probabilità sarà fissato lunedì primo agosto. Il medico incaricato di visitarlo è Bertrand Sonnery-Cottet, specialista del ginocchio che opera a Lione. In passato si è già preso cura di Zlatan Ibrahimovic ed è considerato uno dei migliori nel proprio campo.

Il dubbio è capire se l’intervento di sutura, ipotizzato negli Usa, è evitabile. L’alternativa è la meniscetomia, ovvero l’asportazione del pezzetto di menisco, ma va capito se sia efficace. Questa operazione ridurrebbe i tempi di recupero a 40-60 giorni. La decisione dovrà essere presa da Pogba stesso che per farlo si consulterà anche con i sanitari della nazionale transalpina.

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Zlatan Ibrahimovic è tornato: “Se mi ritiro, il calcio muore”. Poi nella diretta spunta Donnarumma

“Quando mi ritiro? Mai. Se mi ritiro, il calcio muore“: con queste parole Zlatan Ibrahimovic ha risposto a un tifoso durante una diretta Instagram. La sua voglia di proseguire la carriera ancora per qualche anno è più viva che mai anche ora che è alle prese con la riabilitazione dopo l’operazione. Lo svedese attualmente si trova in vacanza in Sardegna e dal video si notava chiaramente lo strumento sanitario applicato sul ginocchio sinistro. Nonostante questo, Ibra non ha perso la voglia di fare lo spaccone e scherzare con i suoi fan, che lui chiama “believers”.

L’attaccante ha accettato l’invito a partecipare alla diretta di Gianluigi Donnarumma, in partenza dal Giappone dopo la tournée estiva con il Paris-Saint-Germain. Dopo alcune battute e molti sorrisi i due si sono salutati dandosi appuntamento per il futuro, magari da avversari nella prossima Champions League.

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Fa 120 km per restituire il portafoglio a Neuer, il portiere gli regala una maglietta. “Una presa in giro”

Un tassista trova il portafoglio di Manuel Neuer mentre sta ripulendo la sua auto. Dentro ci sono i documenti del portiere del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, che poco prima aveva usufruito di una corsa da Odeonsplatz, una piazza centrale di Monaco. Il tassista finisce il turno e decide di restituire il portafogli: dentro ci sono 800 euro in contanti e due carte di credito, oltre ai documenti personali. Per farlo deve guidare per circa 120 chilometri. Due settimane dopo arriva la ricompensa: una maglia del Bayern Monaco.

La vicenda, che risale a qualche settimane fa, è stata svelata dallo stesso tassista che ha sfogato la sua rabbia ai microfoni di Sky Sport.de: “Al termine del turno mi sono recato all’appartamento dove l’avevo accompagnato, ma non c’era nessuno. Non era nemmeno all’indirizzo riportato sul documento. Alla fine ho consegnato tutto alla polizia, a cui ho lasciato il mio contatto. In totale ho percorso circa 120 chilometri per restituire il portafogli”, racconta il tassista tedesco. Poi la beffa: “Ho ricevuto una maglia del Bayern Monaco, personalizzata con il mio nome, ma senza dedica o biglietto di ringraziamento. La ricompensa è una presa in giro. Ho quattro figli e non posso fare nulla con una maglietta”.

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Gareth Bale e la sua gabbia d’oro chiamata Real Madrid

I giornali spagnoli hanno scelto vocaboli molto diversi per descrivere lo stesso episodio. I più generosi hanno raccontato di una “sonora bocciatura”. I più realisti hanno preferito parlare di “pioggia colossale di fischi” o di “linciaggio pubblico”. È successo tutto durante la partita fra Real Madrid e Getafe di sabato 9 aprile. Al minuto numero 74, con il risultato già abbondantemente in ghiaccio, Carlo Ancelotti ha deciso di richiamare in panchina Karim Benzema. C’era pur sempre un ritorno dei quarti di finale di Champions League contro il Chelsea da giocare. Servivano forze fresche, giocatori al massimo della loro condizione. Eppure la mossa dell’allenatore ha finito per scontentare tutti. Nel vero senso della parola. E non tanto per chi è stato chiamato a lasciare il campo, ma per chi è stato buttato dentro: Gareth Bale è tornato a calpestare l’erba verde del Santiago Bernabéu dopo 773 giorni. Che poi sono 26 mesi. Ossia più di due anni.

La sua ultima volta era stata il 26 febbraio 2020, negli ottavi di finale di Champions contro il Manchester City. Da allora è successo praticamente di tutto. Infortuni assortiti, un trascurabilissimo trasferimento in prestito al Tottenham, il confinamento ai margini della rosa prima con Zidane e poi con Ancelotti. Il problema, però, è stato soprattutto un altro. Perché l’ammirazione sconfinata da parte dei tifosi è degradata velocemente in astio feroce. Sabato il pubblico di Bernabéu ha deciso di dimostrarlo di nuovo. Ogni volta che Bale toccava il pallone, giù gragnolate di fischi. Ogni volta che la sfera si avvicinava ai suoi piedi, giù una pioggia di insulti. Uno strazio che non si è protratto troppo a lungo. Il gallese ha completato con successo quattro passaggi, ne ha sbagliato uno, ha tentato due dribbling e ha tirato un volta. E basta. Fino a quando è stato in campo ha risposto ai tifosi ostentando un sorriso così largo da diventare surreale. Poi dopo il fischio finale ha imboccato il tunnel degli spogliatoi senza neanche accennare un saluto.

È la cristallizzazione di un ossimoro. Il calciatore che è stato determinante in due finali di Champions League vinte dal Real Madrid è diventato zimbello. Colpa di un presente che non è più coerente con il passato, di una grandezza ostentata che è evaporata nel giro di qualche anno. Bale e il Real sono ostaggi uno dell’altro, incatenati insieme da un contratto da 18 milioni di euro a stagione la cui scadenza, fissata il prossimo 30 giugno, ha il sapore di una vera e propria liberazione. Per il club, per i tifosi, per il giocatore. Il gallese a Madrid non corre più, si trascina verso un futuro diventato incerto. Qualcuno afferma che stia pensando al ritiro, altri che sarebbe disposto ad andare a giocare addirittura in Championship, allo Swansea. Il campione si è liquefatto, lasciando spazio a un uomo ricchissimo costretto a fare economia sui propri sogni, un carcerato che conta i giorni che lo separano dall’addio alla patria galera.

Bale è arrivato al Real Madrid nell’estate del 2013. Per più di cento milioni di euro. L’acquisto più costoso della storia del calcio, anche se solo per qualche anno. Una cifra che gli si è tatuata addosso, che ha finito per contenere un giudizio. Perché le aspettative erano altissime. E mantenerle sarebbe stato difficile per chiunque. La storia del gallese con la Casa Blanca è fatta di amore. Ma anche di repulsione. Più il suo rendimento calava, più il suo fisico veniva addentato dall’obsolescenza, più Bale si ritrovava sotto assedio. Il bersaglio perfetto per la stampa. Le cose sono precipitate nel 2019, quando Zidane prima lo ha lasciato in panchina durante l’ultima giornata della Liga e poi si è presentato davanti ai microfoni dicendo: “Non lo avrei fatto entrare neanche se avessi avuto il quarto cambio”. Una frase polemica alla quale ha fatto seguito una risposta sgradevole. “Ho altri 3 anni di contratto – ha detto il gallese – Se vogliono che me ne vada, qualcuno mi deve dare 17 milioni netti a stagione. Altrimenti rimango qui, anche a giocare a golf“. Poco dopo Predrag Mijatovic aveva spiegato ad AS: “Penso che Bale sia una persona strana“. E ancora: “Non ho mai parlato con lui, ma dimostra di pensare prima al Galles, poi al golf e solo dopo al Real Madrid”.

Sembra un affondo, invece è un assist. Quattro giorni già tardi il Galles ha battuto l’Ungheria e ha staccato il biglietto per Euro 2020. Bale ha esultato a modo suo: con una bandiera dove c’era scritto: “Galles. Golf. Real Madrid. In questo ordine preciso”. Una dichiarazione di guerra che lo ha trasformato in un corpo estraneo e in un capro espiatorio. Le cose però sono precipitate meno di un mese fa, quando il calciatore ha saltato il Clasico contro il Barcellona per infortunio ma ha risposto alla convocazione della sua Nazionale. Segnando anche due gol nello spareggio Mondiale contro l’Austria. I tifosi lo hanno soprannominato “Zecca”. Marca, invece, lo ha definito “un parassita che succhia i soldi del Real Madrid”. Una rampogna infinita che ha fatto andare il calciatore su tutte le furie. “La pressione quotidiana sugli atleti è immensa – ha risposto Bale – ed è chiaro come l’attenzione negativa dei media possa spingere nel baratro un atleta già sotto stress o una qualsiasi persona già nell’occhio del ciclone”. Ora l’ex fenomeno sta vivendo i suoi ultimi giorni da comune mortale in uno spogliatoio imbottito di divinità del calcio. Una via crucis fatta di sei partite di campionato e un numero ancora variabile di match di coppa. Poi sarà finalmente libero di cercare altrove la sua felicità. Sono gli ultimi giorni di pazienza per un ex fenomeno che a Madrid è diventato come Alex, il protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo: “Inutile e triste come la birra senz’alcool“.

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Italia-Svizzera, chi perde rischia il Mondiale: azzurri decimati (come gli elvetici) per un match dai più visto come un fastidioso intoppo

Una partita di qualificazione ai Mondiali decisiva. Da giocare in casa, in un grande stadio, tutto azzurro. Suona familiare e speriamo tutti che non lo sia. Tre anni fa di questi tempi, nella notte più buia della storia del calcio italiano, l’Italia perdeva lo spareggio contro la Svezia a San Siro e non si qualificava ai Mondiali di Russia 2018. Stasera contro la Svizzera all’Olimpico sarà di nuovo come uno spareggio: due squadre appaiate a pari punti, un solo posto disponibile per la partecipazione diretta alla Coppa del Mondo in Qatar 2022, la seconda dovrà passare dai playoff che, come ormai ben sappiamo, sono una roulette russa. Vietato perdere (la differenza reti ci premia), ma sarebbe ancora meglio vincere in vista dell’ultima giornata, lunedì in Irlanda del Nord.

È una partita da dentro-fuori, vitale per il calcio italiano: non qualificarsi ai Mondiali per la seconda volta di fila sarebbe una tragedia, chiuderebbe il ciclo Mancini e travolgerebbe i vertici federali, cancellerebbe in un sol colpo il trionfo europeo. Eppure non sembra. La sosta, sempre sgradita ai tifosi, arriva proprio quando il campionato è entrato nel vivo, tra il derby di Milano e la prossima Inter-Napoli che dirà tanto sulla corsa scudetto. Si parla solo della fuga delle capoliste, delle difficoltà della Juve, della crisi di Mourinho, ci si preoccupa per i propri calciatori, chiedendosi quanto freschi e riposati rientreranno alla base. L’impressione è che l’Italia stia arrivando a questo appuntamento con la concentrazione sbagliata. Di sicuro non ci arriva nella forma migliore: Mancini deve rinunciare a Verratti, Pellegrini, Zaniolo, Immobile e Chiellini, con anche Barella, Bonucci e Bastoni in condizione precaria (ma dovrebbero stringere i denti). L’assenza del capitano al centro della difesa sarà pesante, il centravanti è un rebus (favorito Belotti). Il Mondiale se lo deve conquistare la nazionale campione d’Europa, che però in questo momento è una nazionale incerottata, e anche piuttosto appannata nelle ultime uscite.

La buona notizia è che gli avversari non sono messi meglio, anzi. La Svizzera è una sorpresa nel girone ma fino a un certo punto: probabilmente nessuno se l’aspettava così in alto, ma viene pur sempre da un grande Europeo dove ha eliminato la Francia. In casa ci ha costretti allo 0-0 e la goleada della partita inaugurale di Euro 2021 all’Olimpico sembra un lontano ricordo. Nelle ultime settimane però ha perso il suo leader Xhaka, il difensore centrale Elvedi, i due attaccanti titolari Embolo e Seferovic, oltre a Fassnacht, Zuber, Kobel. A parità di assenze, quelle elvetiche pesano molto di più su una rosa con meno talento e meno alternative. Quella che scenderà in campo all’Olimpico sarà una squadra di seconda fascia, che non può spaventare gli azzurri. Ma è il peso della posta in palio a mettere pressione. E la classifica.

Italia, per un girone leggermente sottotono (pesa l’1-1 casalingo con la Bulgaria), e Svizzera per un percorso sopra ogni aspettativa, arrivano allo scontro diretto a pari punti. Gli azzurri hanno il vantaggio della differenza reti (rispettivamente +11 e +9) quindi in teoria possono giocare per due risultati su tre, anche col pareggio manterrebbero la vetta. Attenzione però: il girone non finisce stasera, ma lunedì. Ci sarà anche un’ultima giornata, da non sottovalutare: perché l’Italia sarà impegnata in Irlanda del Nord, campo storicamente ostico, mentre la Svizzera riceverà in casa una Bulgaria demotivata, contro cui potrà anche provare a ribaltare la differenza reti (dovrebbero vincere con due gol in più del risultato degli azzurri a Belfast). Dunque, stasera l’Italia non può perdere, ma farebbe meglio a vincere, per mettersi al riparo da possibili goleade e altre brutte sorprese. Oggi è come uno spareggio, ma l’incubo sarebbe finire davvero agli spareggi.

Twitter: @lVendemiale

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“Mourinho, stasera pippiamo”: bufera sul video in cui compare il giovane attaccante della Roma Zalewski

Una serata con gli amici e un video che finisce su Instagram e, presto, fa il giro dei social. Il giovane attaccante della Roma, Nicola Zalewski, compare insieme a due persone, euforiche, durante una festa. Una delle due, a un certo punto, si rivolge all’allenatore della squadra, José Mourinho: “Stasera pippiamo, José, stiamo a fa’ schifo, abbiamo pippato“. La società non ha commentato quanto accaduto e sembra intenzionata a tenere la vicenda il più possibile sotto traccia. Per il 19enne arriverà una multa, ma c’è molta comprensione per il ragazzo, a cui poco meno di due settimane fa è morto il padre.

Video Instagram

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Record di perdite per la Juventus, non è solo colpa della pandemia: ammortamenti e salari eccessivi, ecco i motivi del ‘rosso’ bianconero

Al momento della loro pubblicazione, le cifre di bilancio 2020/21 della Juventus avevano battuto il record di perdite relative a una singola annualità detenuto dall’Inter del 2006/07: 210 milioni contro i 206 dei nerazzurri. I quali, pochi giorni dopo, si sono ripresi questo poco esaltante primato facendo registrare una perdita di esercizio di 245,6 milioni. Quindici anni fa non si stava transitando in mezzo a una pandemia, pertanto è ovvio che questi dati possano essere messi a confronto solo per mera curiosità statistica. Il Covid-19 è la principale, se non unica, giustificazione fornita dalle rispettive dirigenze in merito a cifre tanto negative. Se l’impatto del virus sui conti del calcio globale è stato ovviamente innegabile, quelle di Juventus e Inter rimangono tuttavia mezze verità. Dietro le quali, nel caso dei bianconeri, si nasconde una tendenza verso saldi finanziari negativi presente già prima della pandemia.

Nella stagione 2016/17 la Juventus chiuse con un avanzo netto di 43 milioni di euro. Ma a partire dall’anno successivo i numeri hanno cominciato a tingersi di rosso (-19 milioni), dando vita a un’emorragia poi esplosa in tempi recenti (-40 milioni nel 2018/19, -90 milioni nel 2019/20, – 210 milioni nel 2020/21). Eppure il fatturato dell’ultimo anno (trasferimenti esclusi) è diminuito solo del 6% rispetto a quello degli anni pre-Covid, passando dai 464 milioni del 18/19 ai 438 dell’ultimo bilancio presentato. Numeri migliori rispetto a quelli di buona parte dei top club europei, le cui entrate sono diminuite in maniera più drastica. Pertanto la perdita record non può essere imputata al calo del fatturato. Il problema sono i costi, esplosi negli ultimi anni con l’arrivo di Cristiano Ronaldo, ma anche di altri giocatori che hanno comportato esborsi notevoli, senza però fornire prestazioni sul campo equiparabili a quelle del portoghese. Una precisazione doverosa per ribadire come l’operazione CR7 ha contribuito a trasformare la Juventus in un club dal bilancio in perdita strutturale, ma non è stata la sola responsabile.

Alla base delle spese fuori controllo c’è stata la volontà di restare al passo con i top club, nonostante i bianconeri potessero contare su ricavi ben inferiori. A livello di fatturato, infatti, la società di Torino appartiene alla terza fascia d’Europa, quella che genera entrate tra i 400 e i 500 milioni. Livello Chelsea, Arsenal e Tottenham Hotspur, per inquadrare il contesto. La seconda fascia (Paris Saint Germain, Bayern Monaco, Liverpool e Manchester City) gravita attorno ai 600-700 milioni, mentre la prima (Real Madrid, Barcellona, Manchester United) si attesta tra i 700 e gli 850 milioni. Dopo una lieve flessione della voce di spesa relativa agli stipendi registrata nel 19/20 (284 milioni contro i 328 della gestione precedente, grazie alla riduzione degli stipendi nel periodo in cui non si è giocato), c’è stata una nuova impennata fino a raggiungere i 323 mln. In un mondo del calcio ancora ben lontano dal riprendersi dagli effetti della pandemia, un simile incremento ha portato al 74% l’incidenza del costo del personale sul budget in casa Juventus. Per ogni euro incassato, 74 centesimi sono destinati agli stipendi. Nel 17/18 tale quota si attestava al 64%, in piena regola con le direttive Uefa.

Fino a un paio di stagioni fa la Juventus riusciva a compensare le alte spese in stipendi con operazioni in uscita sul mercato che portavano nelle casse del club una media di 130 milioni l’anno. Nel 2020/21 questa cifra è scesa a 31 milioni, sia a causa di un mercato ancora rigido, dove in pochi possono permettersi di continuare a spendere e spandere, sia per una rosa piena di giocatori il cui livello non è pari a quello dello stipendio percepito, rendendoli fuori target per la stragrande maggioranza dei club. Il ventre molle del bilancio juventino è rappresentato dalla voce di costo ‘Ammortamenti e svalutazioni diritti calciatori’, che indica il valore patrimoniale attribuito al parco calciatori. Maggiore è la qualità della rosa, più alta risulta questa cifra. Matthijs de Ligt, attualmente il giocatore più costoso in casa Juve, può fungere da esempio: nell’estate 2019 è stato acquistato per 86 milioni con un contratto quinquennale. Di conseguenza, nei cinque esercizi di bilancio successivi all’arrivo dell’olandese la Juventus deve registrare 17 milioni di svalutazione per il suo difensore. Nel 2015-16 la cifra complessiva di tale costo ammontava a 67 milioni, per poi crescere progressivamente: 83, 108, 149, 167, per arrivare agli attuali 195 milioni.

Numeri più che raddoppiati negli ultimi cinque anni e causa principale del record di perdite della società. Sottraendo infatti agli ammortamenti gli incassi sul mercato (195-31) si ottengono 166 milioni di euro, che compongono il 79% del disavanzo complessivo. La cessione di Ronaldo rappresenta senza dubbio una boccata di ossigeno per le finanze juventine, non solo per 15 milioni incassati dal Manchester United, ma anche per l’alleggerimento di 30 milioni alla voce ammortamenti (120 mln di costo suddiviso in quattro anni di contratto), anche se poi questa cifra andrebbe calcolata al netto del calo dei ricavi commerciali derivanti dalla partenza del giocatore. Cinque invece sono i milioni risparmiati dalla cessione di Cristian Romero all’Atalanta, che ha pagato il difensore 16 milioni. Gli arrivi di Weston McKennie (Schalke 04), Mohammed Ihattaren (PSV) e Kaio Jorge (Santos) riportano però la questione al punto di partenza, con gli ammortamenti destinati a salire ancora. Senza considerare le formule del prestito con successivo pagamento dilazionato che hanno portato in bianconero Federico Chiesa e Manuel Locatelli. Numeri alla mano, per sistemare il bilancio nel 2022 la Juventus dovrebbe vendere giocatori per una cifra che oscilla tra i 120 e i 140 milioni di euro. Nel proprio rapporto annuale la dirigenza sostiene che il mancato guadagno della scorsa stagione ammonta a circa 70 milioni e ciò significa che, anche computando tali entrate, il disavanzo si sarebbe comunque attestato sui 140 milioni. Una situazione che, anno dopo anno, può essere sostenuta solo da continue ricapitalizzazioni. Oppure dal progetto Superlega, di cui la Vecchia Signora è, assieme a fabbriche di debiti quali Real Madrid e Barcellona (quest’ultimo un club tecnicamente fallito), la più strenua sostenitrice.

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Juventus e Atalanta, la Champions vi fa belle: i bianconeri dominano a Malmoe, finisce 0-3. Prezioso pari dei nerazzurri a Villareal: 2-2

Alex Sandro allontana gli spettri, poi l’uno-due di Dybala e Morata chiude la partita ancora prima dell’intervallo: nella prima serata di Champions League la Juventus di Max Allegri torna dominatrice e batte con un netto 3 a 0 il Malmoe. A 2.300 km di distanza, allo stadio della Ceramica, l’Atalanta splendo alla sua prima in Europa e pareggia 2-2 contro il Villareal. In una serata piena di rimpianti per gli uomini di Giampiero Gasperini, al gol in apertura di Remo Freuler rispondono Trigueros nel primo tempo e poi Danjuma al 73esimo. Alla fine però arriva Gosens e regala un pareggio prezioso.

La Juve formato Champions sembra lontana parente di quella vista finora in campionato. Giusto l’inizio appare un po’ balbettante, poi però l’azione di due sudamericani (quelli mancati ad esempio a Napoli) scioglie gambe e testa: Cuadrado crossa, Alex Sandro con un tuffo di testa segna l’1-0. È il 23esimo: da quel momento per i bianconeri diventa una gara in discesa. Arrivano altre occasioni, anche se i due gol sono tutti allo scadere del primo tempo. Dybala trasforma il rigore guadagnato da Morata, poi lo stesso spagnolo sfrutta un velo dell’argentino per firmare il 3 a 0. Nel secondo tempo la Juve potrebbe anche dilagare e al subentrato Kean viene annullata una rete per fuorigioco. Anche mantenere la porta inviolata, però, è un bel segnale dopo i 5 gol presi in 3 partite di Serie A. Certo, l’avversario era più che modesto. Intanto però i bianconeri guidano il girone H a pari punti col Chelsea, che a fatica ha battuto lo Zenit. Già dal prossimo turno si comincia a fare sul serio. La Juve, in ogni caso, si è sbloccata.

L’Atalanta formato Champions resta invece un viaggio sulle montagne russe. Anche i nerazzurri avevano mostrato più di qualche fragilità in campionato. Anzi, dopo la Juve era apparsa la squadra più in difficoltà (appena 4 punti). Invece in Spagna la Dea è tornata la squadra asfissiante che sa macinare calcio e occasioni, ma anche concedere in fase difensiva. L’inizio è perfetto, il destro preciso di Freuler lo impreziosisce con la rete del vantaggio al sesto minuto. La squadra di Gasperini appare in controllo, poi un errore di De Roon regala una chance ai padroni di casa che con Trigueros non perdonano. La ripresa comincia con lo stesso copione: l’Atalanta crea tantissimo, spreca e questa volta la traversa nega il gol a Zapata. Poi al 73esimo è Freuler a perdere una palla sanguinosa: Danjuma d’esterno al volo sigla il 2-1. I nerazzurri reagiscono, ricominciano a giocare e all’83esimo Gosens trova la rete con una delle sue classiche incursioni in area su cross di Ilicic. Un minuto dopo viene espulso Coquelin, il Villareal resta in 10 e l’Atalanta quasi sfiora il colpaccio. Un pareggio in trasferta a casa dei vincitori dell’Europa League resta però un risultato preziosissimo. Intanto il Manchester United è rimasto a 0, sconfitto dalla Young Boys che per ora è in testa al girone.

L’articolo Juventus e Atalanta, la Champions vi fa belle: i bianconeri dominano a Malmoe, finisce 0-3. Prezioso pari dei nerazzurri a Villareal: 2-2 proviene da Il Fatto Quotidiano.

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