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Paul Pogba tiene in ansia la Juventus: fissata una nuova visita al ginocchio in Francia, sarà quella decisiva

Paul Pogba prende tempo. Il francese non ha ancora deciso cosa fare con il suo ginocchio destro al quale ormai una settimana fa ha riportato una lesione al menisco laterale. Inizialmente si era ipotizzato di sottoporre il centrocampista all’intervento già negli Stati Uniti, dove la Juve sta svolgendo il ritiro estivo, ipotesi poco dopo accantonata. L’operazione, però, è inevitabile anche perché il problema perseguita il centrocampista da tempo. Resta da definire la data e la tipologia di intervento. La paura più grande di Pogba è saltare il Mondiale in Qatar e tornare in campo con i bianconeri a inizio 2023 sacrificando tutta la prima parte della stagione.

Un primo consulto medico ha previsto dai tre ai cinque mesi di stop. Ora il francese tornerà in patria per visite più approfondite. L’appuntamento è stato rimandato a dopo il weekend e con ogni probabilità sarà fissato lunedì primo agosto. Il medico incaricato di visitarlo è Bertrand Sonnery-Cottet, specialista del ginocchio che opera a Lione. In passato si è già preso cura di Zlatan Ibrahimovic ed è considerato uno dei migliori nel proprio campo.

Il dubbio è capire se l’intervento di sutura, ipotizzato negli Usa, è evitabile. L’alternativa è la meniscetomia, ovvero l’asportazione del pezzetto di menisco, ma va capito se sia efficace. Questa operazione ridurrebbe i tempi di recupero a 40-60 giorni. La decisione dovrà essere presa da Pogba stesso che per farlo si consulterà anche con i sanitari della nazionale transalpina.

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Zlatan Ibrahimovic è tornato: “Se mi ritiro, il calcio muore”. Poi nella diretta spunta Donnarumma

“Quando mi ritiro? Mai. Se mi ritiro, il calcio muore“: con queste parole Zlatan Ibrahimovic ha risposto a un tifoso durante una diretta Instagram. La sua voglia di proseguire la carriera ancora per qualche anno è più viva che mai anche ora che è alle prese con la riabilitazione dopo l’operazione. Lo svedese attualmente si trova in vacanza in Sardegna e dal video si notava chiaramente lo strumento sanitario applicato sul ginocchio sinistro. Nonostante questo, Ibra non ha perso la voglia di fare lo spaccone e scherzare con i suoi fan, che lui chiama “believers”.

L’attaccante ha accettato l’invito a partecipare alla diretta di Gianluigi Donnarumma, in partenza dal Giappone dopo la tournée estiva con il Paris-Saint-Germain. Dopo alcune battute e molti sorrisi i due si sono salutati dandosi appuntamento per il futuro, magari da avversari nella prossima Champions League.

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Record di perdite per la Juventus, non è solo colpa della pandemia: ammortamenti e salari eccessivi, ecco i motivi del ‘rosso’ bianconero

Al momento della loro pubblicazione, le cifre di bilancio 2020/21 della Juventus avevano battuto il record di perdite relative a una singola annualità detenuto dall’Inter del 2006/07: 210 milioni contro i 206 dei nerazzurri. I quali, pochi giorni dopo, si sono ripresi questo poco esaltante primato facendo registrare una perdita di esercizio di 245,6 milioni. Quindici anni fa non si stava transitando in mezzo a una pandemia, pertanto è ovvio che questi dati possano essere messi a confronto solo per mera curiosità statistica. Il Covid-19 è la principale, se non unica, giustificazione fornita dalle rispettive dirigenze in merito a cifre tanto negative. Se l’impatto del virus sui conti del calcio globale è stato ovviamente innegabile, quelle di Juventus e Inter rimangono tuttavia mezze verità. Dietro le quali, nel caso dei bianconeri, si nasconde una tendenza verso saldi finanziari negativi presente già prima della pandemia.

Nella stagione 2016/17 la Juventus chiuse con un avanzo netto di 43 milioni di euro. Ma a partire dall’anno successivo i numeri hanno cominciato a tingersi di rosso (-19 milioni), dando vita a un’emorragia poi esplosa in tempi recenti (-40 milioni nel 2018/19, -90 milioni nel 2019/20, – 210 milioni nel 2020/21). Eppure il fatturato dell’ultimo anno (trasferimenti esclusi) è diminuito solo del 6% rispetto a quello degli anni pre-Covid, passando dai 464 milioni del 18/19 ai 438 dell’ultimo bilancio presentato. Numeri migliori rispetto a quelli di buona parte dei top club europei, le cui entrate sono diminuite in maniera più drastica. Pertanto la perdita record non può essere imputata al calo del fatturato. Il problema sono i costi, esplosi negli ultimi anni con l’arrivo di Cristiano Ronaldo, ma anche di altri giocatori che hanno comportato esborsi notevoli, senza però fornire prestazioni sul campo equiparabili a quelle del portoghese. Una precisazione doverosa per ribadire come l’operazione CR7 ha contribuito a trasformare la Juventus in un club dal bilancio in perdita strutturale, ma non è stata la sola responsabile.

Alla base delle spese fuori controllo c’è stata la volontà di restare al passo con i top club, nonostante i bianconeri potessero contare su ricavi ben inferiori. A livello di fatturato, infatti, la società di Torino appartiene alla terza fascia d’Europa, quella che genera entrate tra i 400 e i 500 milioni. Livello Chelsea, Arsenal e Tottenham Hotspur, per inquadrare il contesto. La seconda fascia (Paris Saint Germain, Bayern Monaco, Liverpool e Manchester City) gravita attorno ai 600-700 milioni, mentre la prima (Real Madrid, Barcellona, Manchester United) si attesta tra i 700 e gli 850 milioni. Dopo una lieve flessione della voce di spesa relativa agli stipendi registrata nel 19/20 (284 milioni contro i 328 della gestione precedente, grazie alla riduzione degli stipendi nel periodo in cui non si è giocato), c’è stata una nuova impennata fino a raggiungere i 323 mln. In un mondo del calcio ancora ben lontano dal riprendersi dagli effetti della pandemia, un simile incremento ha portato al 74% l’incidenza del costo del personale sul budget in casa Juventus. Per ogni euro incassato, 74 centesimi sono destinati agli stipendi. Nel 17/18 tale quota si attestava al 64%, in piena regola con le direttive Uefa.

Fino a un paio di stagioni fa la Juventus riusciva a compensare le alte spese in stipendi con operazioni in uscita sul mercato che portavano nelle casse del club una media di 130 milioni l’anno. Nel 2020/21 questa cifra è scesa a 31 milioni, sia a causa di un mercato ancora rigido, dove in pochi possono permettersi di continuare a spendere e spandere, sia per una rosa piena di giocatori il cui livello non è pari a quello dello stipendio percepito, rendendoli fuori target per la stragrande maggioranza dei club. Il ventre molle del bilancio juventino è rappresentato dalla voce di costo ‘Ammortamenti e svalutazioni diritti calciatori’, che indica il valore patrimoniale attribuito al parco calciatori. Maggiore è la qualità della rosa, più alta risulta questa cifra. Matthijs de Ligt, attualmente il giocatore più costoso in casa Juve, può fungere da esempio: nell’estate 2019 è stato acquistato per 86 milioni con un contratto quinquennale. Di conseguenza, nei cinque esercizi di bilancio successivi all’arrivo dell’olandese la Juventus deve registrare 17 milioni di svalutazione per il suo difensore. Nel 2015-16 la cifra complessiva di tale costo ammontava a 67 milioni, per poi crescere progressivamente: 83, 108, 149, 167, per arrivare agli attuali 195 milioni.

Numeri più che raddoppiati negli ultimi cinque anni e causa principale del record di perdite della società. Sottraendo infatti agli ammortamenti gli incassi sul mercato (195-31) si ottengono 166 milioni di euro, che compongono il 79% del disavanzo complessivo. La cessione di Ronaldo rappresenta senza dubbio una boccata di ossigeno per le finanze juventine, non solo per 15 milioni incassati dal Manchester United, ma anche per l’alleggerimento di 30 milioni alla voce ammortamenti (120 mln di costo suddiviso in quattro anni di contratto), anche se poi questa cifra andrebbe calcolata al netto del calo dei ricavi commerciali derivanti dalla partenza del giocatore. Cinque invece sono i milioni risparmiati dalla cessione di Cristian Romero all’Atalanta, che ha pagato il difensore 16 milioni. Gli arrivi di Weston McKennie (Schalke 04), Mohammed Ihattaren (PSV) e Kaio Jorge (Santos) riportano però la questione al punto di partenza, con gli ammortamenti destinati a salire ancora. Senza considerare le formule del prestito con successivo pagamento dilazionato che hanno portato in bianconero Federico Chiesa e Manuel Locatelli. Numeri alla mano, per sistemare il bilancio nel 2022 la Juventus dovrebbe vendere giocatori per una cifra che oscilla tra i 120 e i 140 milioni di euro. Nel proprio rapporto annuale la dirigenza sostiene che il mancato guadagno della scorsa stagione ammonta a circa 70 milioni e ciò significa che, anche computando tali entrate, il disavanzo si sarebbe comunque attestato sui 140 milioni. Una situazione che, anno dopo anno, può essere sostenuta solo da continue ricapitalizzazioni. Oppure dal progetto Superlega, di cui la Vecchia Signora è, assieme a fabbriche di debiti quali Real Madrid e Barcellona (quest’ultimo un club tecnicamente fallito), la più strenua sostenitrice.

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Trasferimenti irregolari di calciatori nigeriani minorenni, la Fifa sanziona lo Spezia: ‘Mercato fermo per 4 sessioni e 460mila euro di multa’

Mercato bloccato per quattro sessioni a partire dalla prossima finestra invernale, sia a livello nazionale che internazionale, e una multa da 500mila franchi svizzeri (circa 460mila euro). È questa la maxi-sanzione comminata dalla Fifa allo Spezia Calcio per aver violato le norme sui trasferimenti internazionali di giocatori minorenni ed emersa dopo un’indagine portata avanti dal Dipartimento di Esecuzione Regolamentare della Federazione. Insieme alla società ligure, ad essere colpite dalle sanzioni sono anche la USD Lavagnese 1919 e la Valdivara 5 Terre, entrambe obbligate allo stop sul mercato per quattro sessioni e a pagare una multa di 4mila Franchi svizzeri a testa (3.685 euro circa).

La Commissione ha spiegato che la vecchia proprietà del club spezzino, che aveva già patteggiato con la Figc per 60mila euro di multa, ha violato l’articolo 19 del Regolamento Fifa sullo status e sul trasferimento dei giocatori avendo portato in Italia parecchi calciatori nigeriani minorenni usando un sistema finalizzato ad aggirare il suddetto articolo, oltre alle norme nazionali sull’immigrazione. Nonostante ciò, a pagare la sanzione saranno i nuovi proprietari della società ligure.

Nello specifico, come spiegato in un articolo di Domani, dietro a queste manovre c’era l’ex patron e imprenditore italo-nigeriano Gabriele Volpi che, oltre alla società ligure, aveva coinvolto anche il Rijeka e il Football College Abuja. Fu lo stesso Volpi che, nel 2019, venne indagato e poi archiviato con l’ex furbetto del quartierino Gianpiero Fiorani in un’inchiesta simile che coinvolgeva sempre la società ligure. In poche parole, i giovani ragazzi nigeriani venivano portati minorenni in Italia per partecipare a dei tornei giovanili. Ma quando arrivava il momento di tornare a casa, questi rimanevano nel Paese come minori non accompagnati, in maniera illegale, continuando a giocare per le squadre dilettantistiche che servivano come appoggio fino al compimento del 18esimo anno di età, quando le promesse del calcio erano a quel punto pronte per firmare un contratto professionistico con la società spezzina. La Procura di La Spezia ha inoltre aperto un’inchiesta per immigrazione irregolare.

Da parte sua, la società ha annunciato che farà ricorso contro la decisione della Fifa: “Il Club è sorpreso ed estremamente deluso da questa sentenza – si legge in un comunicato – Le presunte irregolarità imputate allo Spezia Calcio sono avvenute nel periodo compreso tra il 2013 e il 2018, quindi sotto la precedente amministrazione del club. Tutti i membri della precedente proprietà e del team di management appartenente ad essa attualmente non ricoprono ruoli di responsabilità all’interno del club. Quando il nuovo gruppo proprietario ha acquisito lo Spezia Calcio, nel febbraio del 2021, l’indagine Fifa non è stata esposta in maniera adeguata. Il Club è stato informato soltanto ad aprile e ha agito immediatamente per condurre un controllo interno su tali accuse, per dimostrare che le irregolarità non riguardano l’attuale proprietà”.

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Chi dice che la Nazionale di Roberto Mancini ha risollevato le sorti del calcio italiano mette la polvere sotto il tappeto

È sempre la solita storia. Ce ne ricordiamo quando i nostri club rimediano figuracce su figuracce in Champions e non abbiamo nemmeno una squadra nelle prime otto in Europa: e allora giù paginate di giornali, dibattiti da bar e da salotto sui motivi del declino. Ma poi ce ne dimentichiamo alla prima vittoria della nazionale contro modesti avversari, celebrate come grandi imprese. Già si parla di “Rinascimento” del calcio italiano. Ma il movimento è in crisi e non sarà una vittoria di club o nazionale, che tutti ci auguriamo e potrebbe persino essere all’orizzonte, a cambiare la realtà.

La sosta delle nazionali ha messo in stand-by campionati e coppe, già concluso il dibattito che aveva suscitato la clamorosa eliminazione di Atalanta, Lazio e soprattutto Juventus dagli ottavi di Champions, peggior risultato per i nostri club degli ultimi cinque anni. Due settimane fa il calcio italiano sembrava morto, superato, finito. Con la nazionale riprende fiato. I meriti sono quasi tutti di Roberto Mancini. Il ct ha costruito un gruppo e ridato un’anima a questa squadra, ormai lo si ripete da tempo. È stato bravo ad individuare alcuni punti fermi (soprattutto in mezzo al campo, dove ad esempio l’esplosione di Barella e Chiesa è iniziata prima in nazionale che nei club). È stato anche agevolato dalla possibilità di ripartire da zero e ricostruire sulle macerie lasciate da Ventura, dopo di cui era davvero difficile far peggio.

Oggi l’Italia è una squadra vera, con uno spogliatoio coeso e un’identità di gioco precisa. In virtù di questo, si presenterà ai prossimi Europei se non come favorita, comunque come una delle possibili vincitrici finali. E dopo la mancata partecipazione ai Mondiali di Russia 2018 già questo è un successo. A guardarla da lontano sembra la fotografia di un movimento in salute, quantomeno in ripresa. Più ti avvicini, però, e più si notano le imperfezioni, i difetti. L’eliminazione dei club italiani, che in Europa non vincono per il loro provincialismo, la mancanza di personalità, struttura e ovviamente risorse, è una ferita aperta che non si può archiviare in un paio di settimane.

Poi c’è la nazionale, che vince e convince, ma quanto fino in fondo? È vero, è un momento un po’ strano per il calcio europeo. In giro per il continente non c’è molto di meglio. Ma nemmeno di peggio. A parte la Francia che in questo momento è di un altro pianeta, Spagna e Germania sono in crisi, però a differenza nostra hanno vinto tutto nell’ultimo decennio, una fase di transizione se la possono permettere, e soprattutto i tedeschi trainati dal Bayern hanno già iniziato la ricostruzione. Olanda, Portogallo non hanno il nostro stesso blasone. L’Inghilterra chissà se vincerà mai qualcosa d’importante, ma si consola col campionato più bello e ricco al mondo, che ha anche ripreso a sfornare talenti propri.

L’Italia invece cosa ha? Un gruppo unito che gioca bene, questo sì. E che vince con continuità, però fin qui solo contro avversari modesti: Bulgaria, Bosnia, Polonia, Estonia. Prima non vincevamo manco queste e dunque il passo avanti c’è, ma il salto di qualità è ancora da fare. In tre anni di era Mancini la vittoria di prestigio vero è una sola, l’1-0 in Nations League all’Olanda. A un certo punto però bisognerà confrontarsi anche con le big d’Europa, e chissà se per batterle basterà questo o ci vorrà qualcosa in più. La qualità che questa nazionale ha solo in parte: l’unico giocatore di fantasia è Insigne che non ha mai fatto la differenza a livello internazionale, come Immobile e Belotti, bomber da campionato domestico. Perso momentaneamente Zaniolo, non ci sono talenti nemmeno all’orizzonte, visto che l’Under 21 fatica nel suo Europeo di categoria, e non ha nessun gioiello da mettere in mostra (forse giusto Scamacca, che fa panchina al Genoa, e Tonali, bocciato al suo primo anno al Milan). Il calcio italiano oggi è un movimento che non produce realtà societarie sane da una parte, talenti e idee dall’altra. È vero che molto spesso non c’è correlazione fra l’andamento di club e nazionale, ma almeno in Italia sono due facce della stessa medaglia. Quindi godiamoci la nazionale di Mancini e speriamo negli Europei 2021. Sembra più azzurro il presente del futuro.

Twitter: @lVendemiale

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Lazio-Torino, una farsa: da ottobre a marzo il calcio italiano non ha fatto assolutamente nulla per risolvere la questione

Dicono che la storia si ripeta sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa. Vale sicuramente per il calcio italiano. Credevamo che le scene di Juventus-Napoli, il big match che non si è mai giocato (dovremo aspettare il 17 marzo), l’ammuina tra Asl e club per non partire, la buffonata bianconera delle formazioni annunciate sui social, il surreale riscaldamento prepartita allo Stadium, fosse un unicum irrepetibile nel suo genere pietoso. Invece no. La Serie A è riuscita a rifarlo.

Cinque mesi dopo siamo punto e a capo. Lazio-Torino come Juve-Napoli: un focolaio diffuso in una squadra (con tanto di variante inglese), l’intervento dell’Asl, la partita che non si può disputare, i club che litigano. Una dinamica quasi normale, se consideriamo la situazione epidemiologica, il calendario intasato e gli interessi in ballo. Assurdo invece tutto ciò che è successo, o meglio non è successo, in questi cinque mesi: da ottobre a marzo il calcio italiano non ha fatto assolutamente nulla per risolvere la questione. Ha solo nascosto la polvere sotto al tappeto, facendo finta che niente fosse cambiato, sperando che il problema non si ripresentasse più (cosa che invece puntualmente è successa, ma non ci voleva un virologo né un veggente per prevederlo). Si è fatto trovare di nuovo impreparato, ancora più colpevole di prima.

In questo caso, il Torino di Urbano Cairo, che ha un contagio importante in corso e ha già visto rinviata la partita col Sassuolo, a rigor di norma avrebbe dovuto o giocare con gli effettivi rimasti o perdere a tavolino. Peccato che la Asl avesse messo in quarantena i granata da tempo, impedendo oggettivamente la trasferta. E che intanto sia intervenuta la sentenza del Collegio di garanzia del Coni, che ha già dato ragione al Napoli e ordinato la ripetizione della gara con la Juve, sancendo il principio che le disposizioni sanitarie vengono prima di quelle calcistiche.

In teoria la Lega calcio aveva ragione ad opporsi al rinvio: è l’unica maniera per salvare il campionato e anche per garantire equità di trattamento, considerando che altre squadre coinvolte nella lotta per la retrocessione, dal Genoa al Cagliari al Parma, sono già state costrette a giocare in condizioni precarie perché nessuna Asl è intervenuta a salvarle. Nulla da dire sulla Lazio, che ha solo preteso l’applicazione del protocollo. Il punto però è che oggi quel protocollo è cartastraccia, cancellato dal precedente di Juve-Napoli e dalla sentenza Coni, ed è da stupidi far finta che non sia così.

L’errore probabilmente è a monte, aver inserito la postilla sugli “eventuali provvedimenti delle Autorità statali o locali”, che già all’epoca fece infuriare Lotito e altri patron, e che è stato poi il grimaldello con cui i giudici hanno scardinato il protocollo. Ancor più grave è stato non intervenire dopo: post Juve-Napoli i vertici della Lega calcio avrebbero dovuto far sedere tutti i presidenti al tavolo, sottoscrivere un accordo per cui chi non può giocare (ed è normale che la Asl abbia l’ultima parola su questo) semplicemente perda a tavolino, per il bene del campionato. Non è stato fatto e oggi i nodi vengono al pettine, con Lazio-Torino e poi chissà quante altre partite, col rischio concreto di sforare la data del 23 maggio, termine ultimo entro cui si deve chiudere la stagione (poi ci sono gli Europei).

Il mancato rinvio, per quanto giusto in linea di principio, a questo punto è solo inutile e controproducente. Inutile, perché tanto col precedente stabilito già si sa come finiranno gli eventuali ricorsi (cioè con la ripetizione della gara). Controproducente, perché prendendo atto subito della situazione sarebbe stato più facile riprogrammare il match, mentre ora c’è il rischio di dover aspettare tre gradi di giudizio (e almeno due mesi). Forse non andrà così, il giudice sportivo dato il precedente e la tempestività della comunicazione dell’Asl, potrebbe non dare il 3-0 e portare subito la Lega al rinvio (ammesso che non sia Lotito a quel punto a fare ricorso), risolvendo almeno questo problema. Resterà comunque un forte punto interrogativo sul finale di stagione. E il danno d’immagine, per un campionato che pretende centinaia di milioni dai diritti tv e poi si fa due volte lo stesso autogol in mondovisione.

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Gasperini, i tifosi della Lazio si passano il suo numero e lo riempiono di messaggi di insulti

Dal campo allo smartphone. La rivalità tra Atalanta e Lazio si arricchisce di un nuovo capitolo, questa volta poco piacevole, soprattutto per Gian Piero Gasperini. L’allenatore dei bergamaschi si è ritrovato il cellulare inondato di messaggi di insulti: come racconta la Gazzetta dello Sport, alcuni tifosi biancocelesti sono infatti entrati in possesso del suo numero e hanno iniziato a diffonderlo. Il tam tam ha costretto Gasperini a dover bloccare gli haters, per evitare di continuare a ricevere altri messaggi.

Uno strascico dell’ultima partita di campionato, che ha visto la Lazio trionfare per 3-1 e prendersi la rivincita dopo la sconfitta di qualche giorno prima in Coppa Italia. Anche questa volta in campo e nel post partita non sono mancate le tensioni. La rivalità ha origine dalla finale di Coppa Italia del 2019, vinta dalla Lazio tra le polemiche dei nerazzurri e di Gasperini in particolare.

Domenica, in conferenza stampa, lo stesso allenatore è tornato su quell’episodio: “C’è quella finale rimasta in sospeso un po’ per tutti”. Il Gasp ha anche aggiunto: “Loro arrivavano da qualche partita persa contro di noi. Se hanno trovato il modo di metterci in difficoltà? Non direi, prima di oggi ne avevano perse tante e finiscono quasi sempre dietro di noi in classifica”. Poco dopo ha replicato il vice di Simone Inzaghi, Massimiliano Farris: “L’acredine negli anni deve essere figlia della Coppa Italia vinta da noi nel 2019 visto che ne parlano sempre: ce la teniamo stretta a Formello dove fa bella mostra di sé perché è storia, i nerazzurri stavolta possono riprovarci avendoci eliminato prima”.

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Ti ricordi… L’ultima volta del Milan primo in classifica a dicembre? Anche allora c’era Ibra, l’unico per il quale il tempo non passa

Da Ibra a Ibra. Sì: c’era lo svedese nel 2011, unico e solo superstite di quella rosa rossonera che il 17 dicembre 2011 batteva il Siena, con gol di Nocerino e appunto, Ibra, garantendosi l’ultimo Natale in cima alla classifica. Ultimo primo di quello attuale.

Era il Milan di Massimiliano Allegri, campione d’Italia in carica, e desideroso di bissare il successo dell’anno prima. Le difficoltà della gestione Berlusconi erano già importanti e dunque non c’era stata una campagna acquisti faraonica per Max e per tenere a distanza le altre squadre. Certo la rosa era stata puntellata con elementi importanti: Philippe Mexes, svincolato, Alberto Aquilani di rientro dal Liverpool, Stephan El Sharaawy e Antonio Nocerino. Era andato via Andrea Pirlo.

Gli antagonisti? Anche in questo caso il gioco dei corsi e ricorsi storici torna di prepotenza in ballo: con Cbonte e Marotta, che all’epoca guidavano una Juve in cerca di riscossa, oggi sono nell’altra sponda di Milano. Con Conte e Marotta, era andato Pirlo, svincolato dal Milan. Oggi anche lui tra gli antagonisti, con la Juve.

I rossoneri di Max, tuttavia, anche in virtù dell’esperienza maggiore e del fatto che la Juventus pur molto forte era un cantiere aperto, sembravano favoriti per il titolo. E infatti dopo un testa a testa a pari punti, alla 23esima, dopo il pareggio della Juve col Bologna, il gol di El Sharaawy a cinque minuti dalla fine, che aveva garantito la vittoria a Udine, i rossoneri si erano trovati a guidare la classifica, e in pole position per confermarsi campioni d’Italia.

In mezzo l’ormai famoso caso del “gol di Muntari” nello scontro diretto, finito 1 a 1: partita finita tra le recriminazioni, rossonere e di Allegri in particolare, e con le due squadre appaiate in cima alla classifica a pari punti. Poi c’era stato ancora uno scatto rossonero con la vittoria per 4 a 0 sul Palermo e con il pari della Juve col Chievo che aveva portato Ibra e i suoi al primo posto in solitaria, allungato a 4 punti nella settimana successiva, con la vittoria sul Lecce e il nuovo stop della Juve fermata sullo 0 a 0 dal Genoa. Una situazione che sembrava aver chiuso la lotta scudetto.

Poi però i rossoneri avevano rimediato solo un pareggio a Catania, ad opera di Spolli dopo il vantaggio iniziale di Robinho e la settimana successiva la sconfitta interna con la Fiorentina di Delio Rossi nella giornata del ritorno in campo di Cassano dopo il malore: il vantaggio su rigore trasformato da Ibra dopo fallo di Nastasic su Maxi Lopez, il pareggio di Jovetic su buco clamoroso della difesa rossonera e e all’ultimo minuto il gol di Amauri che aveva portato una Fiorentina in piena zona retrocessione a trionfare a San Siro.

La Juve per contro non aveva fatto passi falsi a Palermo vincendo con Bonucci e Quagliarella e portandosi in testa alla classifica: posizione che i bianconeri avrebbero mantenuto fino alla fine vincendo il primo scudetto della serie.

Da lì invece, da quel 6 aprile del 2012, e dunque più di otto anni fa, il Milan non avrebbe mai più occupato la prima posizione. Fino ad oggi, con tutti gli attori cambiati, con posizioni invertite, con i gol di Muntari che non sarebbero più possibili perché tanto è cambiato anche dal punto di vista della tecnologia e con Ibra, l’unico per cui il tempo pare non passare.

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Ti ricordi… Miura, la “macchietta applicata” del Genoa che oggi a 53 anni gioca ancora

Tomáš Skhuravy di testa le prende tutte, proprio tutte: facendo sembrare improbabili campanili cross al bacio, proprio come quello di Antonio Manicone, mediano che più mediano non si può, in quel derby di ventisei anni fa. Lo slovacco con la sua aria da dio vichingo va in cielo e ovviamente quel pallone buttato lì lo prende lui, mandandolo in area: se Skhuravy domina normalmente il cielo di Marassi, assai meno consueto è vedere Kazuyoshi Naiya, ribattezzato Miura, anticipare Daniele Mannini e Pietro Vierchowod e mettere il pallone alle spalle di Walter Zenga, portando in vantaggio il Genoa.

Quella partita finirà 3-2 per la Sampdoria, e quello del 4 dicembre 1994 sarà l’unico gol di “Kazu” in Italia. Primo giapponese in Serie A, preso per una questione prettamente di marketing dal presidente Aldo Spinelli, senza esborsi e con un buon ritorno in termini di sponsorizzazioni, osteggiato da Franco Scoglio che lo chiamerà “macchietta applicata” nella sua adorabile e forbita antipatia maltrattando pure lo stuolo di giornalisti e traduttori che l’attaccante si portava dietro, l’avventura di Miura in Italia non sarà positiva. Fine dunque: un classico cliché della meteora straniera ricordata con affetto e simpatia per un gol e poco altro e con la meteora stessa che ha quel gol come storia prediletta da raccontare ai nipotini?

No, proprio no: nella storia di Kazu, e nei racconti da fare ai nipotini quel gol, seppur sia forse il picco più alto toccato nella carriera calcistica è forse l’ultima cosa da tirar fuori. A parte che se avesse nipotini (non risulta che i figli di Kazu, Ryota e Kota, entrambi giovani attori, lo abbiano reso nonno) Kazu potrebbe portarli alle sue partite, visto che gioca ancora, a 53 anni nel massimo campionato giapponese, con gli Yokohama Fc, ma potrebbe raccontare una vita decisamente da romanzo.

A partire da quel cognome, Miura, che è della mamma. Kazu nasce Naiya, ma il papà Nobu è vicino alla yakuza. Troppo vicino, e a Kazu quel mondo lì non piace: a lui e al fratello Yasutoshi interessa il pallone, e forse quel cognome è troppo ingombrante per metterlo su una maglietta. Perciò scelgono “Miura” di mamma Yoshiko, mostrando la volontà di non ereditare legami e appartenenze. Entrambi sono bravini, almeno per il livello giapponese degli anni Ottanta, quando il calcio era snobbato quasi tout court nel paese del Sol Levante. Kazu, che è più forte di Yasutoshi, sente di non poter crescere molto lì in patria: a 15 anni, decide di imbarcarsi, solo con suo fratello, per andare a imparare il gioco del pallone in Brasile.

Due ragazzini giapponesi, soli, in un mondo completamente sconosciuto senza sapere una parola di portoghese e ovviamente “indietro”, fisicamente ma soprattutto tatticamente e tecnicamente rispetto ai pari età dove si vive di calcio. È il preludio per un’altra storia comune: ragazzini con mille sogni in testa che si scontrano con le difficoltà spesso insormontabili che li separano da quei sogni e desistono, tornando a casa. Ma no, anche in questo caso Kazu strappa i cliché: resiste ai tanti momenti bui, impara, tiene duro e dopo i campionati giovanili con la Juve di San Paolo passa al Santos, poi al Palmeiras dove segna i suoi primi gol, poi al Coritiba e di nuovo al Santos, incontrando campioni, ricevendone i complimenti. Ce l’ha fatta, insomma Kazu. E nel 1990, dopo anni in Brasile in cui apprezza tutto, Kazu torna in Giappone, ma da re: ai Verdy Kavasaki è una star, con la maglia della nazionale segna a raffica e quasi porta i nipponici al Mondiale 1994, fino alla beffa di Doha contro l’Iraq, all’ultimo minuto.

Lì arriva la chiamata di Spinelli: pronto a scommettere sul calciatore più noto in Giappone: da un sondaggio risultava che Kazu era conosciuto dal 98% dei nipponici, secondo per popolarità nel 1994 solo all’imperatore, in un Paese tutt’altro che calciofilo. Ma tra Scoglio che detesta il suo traduttore più che Kazu (“Io parlo e spiego per due minuti, questo che traduce gli parla per 10 secondi: ma cosa può imparare Miura così?”), Franco Baresi che involontariamente in un contrasto gli rompe il setto nasale e gli provoca una commozione cerebrale e partite non proprio eccellenti, questa volta l’attaccante deve alzare bandiera bianca. Tornerà in Giappone, portando la nazionale fino ai Mondiali del 1998, tagliato fuori incredibilmente dall’allenatore al momento di scegliere la rosa che andrà in Francia. Tenterà ancora l’avventura in Europa alla Dinamo Zagabria ma ancora senza successo, fino all’incredibile serie di “eterni ritorni” con lo Yokohama Fc, dove gioca ancora, a 53 anni suonati, facendo segnare record su record. No, quel gol nel derby di 26 anni fa non è il minuto di celebrità di una meteora: Kazuyoshi Miura ha un’altra storia, Kazu è un’altra storia.

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Riaprono gli stadi in Serie A: limite a mille persone dopo il summit Governo-Regioni. Spadafora: “Vogliamo allargare a tutti”

La Serie A riapre gli stadi a mille persone da domenica. Il campionato 2020/21 riparte (quasi) da subito con una piccola percentuale di spettatori. Lo hanno deciso Governo e Regioni durante il summit convocato dal ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, dopo che in giornata anche il Veneto, seguendo il governatore emiliano Stefano Bonaccini che ha deciso di riaprire gli stadi a mille tifosi, ha aperto le porte ai tifosi locali. Lo si leggeva in un’ordinanza del governatore Luca Zaia valida fino al 3 ottobre, con cui ha deciso di aprire a mille spettatori gli stadi della propria regione e a 700 gli impianti al chiuso, come i palazzetti dello sport. Il ministro Spadafora esulta e annuncia che l’obiettivo è quello di allargare il provvedimento a tutte le categorie e a tutti gli sport. Mentre il presidente della Figc Gravina si dice perplesso proprio per la scelta di riaprire solo nella massima serie calcistica. E il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, dice che “è auspicabile un atteggiamento prudenziale e una omogeneità di approccio su tutto il territorio nazionale”.

“Il mio obiettivo è quello di consentire la partecipazione del pubblico per tutti gli sport e per tutte le categorie, arrivando a definire un protocollo unico che preveda una percentuale di spettatori in base alla capienza reale degli impianti – ha commentato il ministro Spadafora – L’impegno che ci siamo presi durante l’incontro è quello di metterci subito al lavoro su questo. Occorre mantenere cautela, rigore e attenzione per riaprire bene, gradualmente, e non essere costretti a chiudere di nuovo. Il quadro epidemiologico a livello europeo non è incoraggiante, noi dobbiamo stare attenti ed evitare precipitose fughe in avanti”.

Perplesso, invece, il presidente della Figc, Gabriele Gravina: “L’apertura degli stadi al pubblico è una bella notizia, ma il fatto che il via libera sia arrivato solo per la Serie A e non per gli altri campionati professionistici mi lascia perplesso. L’applicazione dei protocolli di sicurezza sono i medesimi in tutte e tre le serie professionistiche, così come lo devono essere le regole per il distanziamento, quindi anche su questo tema ci deve essere lo stesso trattamento. Nei mesi difficili del Covid, il calcio tutto ha dimostrato grande responsabilità. Sono convinto che verrà preso il medesimo provvedimento prima dell’avvio ufficiale dell’attività della B e della C, previsto per il prossimo fine settimana”.

Dopo il passo in avanti di Zaia, Dal Pino aveva chiesto maggiore comunicazione con l’esecutivo, in particolare col ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora: “A luglio abbiamo fatto con i migliori consulenti in circolazione uno studio di 300 pagine su come riaprire gli stadi in totale sicurezza, nessuno ci ha mai chiamato nemmeno per affrontare questo discorso – prosegue – Il comitato tecnico scientifico fa enormi sforzi per occuparsi del Paese, siamo grati a loro per quello che stanno facendo. Ma rispetto al nostro ministero dello Sport il dialogo non è quello che dovrebbe essere. Il calcio rappresenta una delle più grandi industrie italiane, con un grande gettito tributario e previdenziale, dà lavoro a 300mila persone fra diretto e indiretto e rappresenta un fenomeno sociale importante. Mi spiace dirlo, ma devo dirlo a voce alta, c’ è bisogno di rispetto. Da parte nostra c’è un movimento che ha poco ascolto”, ha detto spiegando che anche per quanto riguarda la riforma dello Sport in discussione non c’è stato uno scambio di idee con il ministero.

Concludendo la sua invettiva, il capo della Lega di A sottolinea che all’industria calcio non è stato riservato lo stesso trattamento degli altri settori produttivi, scolastici e del trasporto pubblico. “Il Paese sta cercando di ripartire, le scuole sono aperte, nei viaggi si muove qualcosa, le aziende lavorano normalmente. L’ho detto anche all’ultima assemblea, perché in metro si fa la coda per entrare, e così a scuola, negli autobus, nelle aziende e perché invece allo stadio non ci può essere una persona seduta con cinque posti vuoti intorno? Perché? Qual è il problema in uno stadio di 40, 50, 70mila persone? Bisogna solo sedersi e pianificare. Speriamo che il Cts abbia attenzione a questo tema, perché questa è un’industria che se non ha attenzione da parte del ministero che dovrebbe governarla, rischia di andare in grandissima difficoltà e mettere in pericolo molti posti di lavoro”.

Pronta la replica del ministro Spadafora che si è detto “sorpreso” dalle dichiarazioni di Dal Pino: “Ho letto con stupore le dichiarazioni di Dal Pino sulla mancanza di dialogo tra il governo e il mondo del calcio – ha dichiarato – L’attenzione è stata costante, le soluzioni trovate per portare a termine lo scorso campionato e iniziare nei tempi quello che comincia oggi sono state condivise. Abbiamo assicurato una attività continua e giornaliera di supporto. Solo per citare alcune delle cose, l’audizione di lunedì scorso al Comitato tecnico scientifico, richiesta da me a seguito della bocciatura del protocollo per la riapertura degli stadi, che non è affatto stato ignorato come sostiene Dal Pino, ha avuto come oggetto anche i protocolli per l’alleggerimento della frequenza dei tamponi, su cui ha discusso nuovamente il Cts ieri e su cui stiamo attendendo le decisioni. Pochi giorni fa il presidente della Figc è stato ricevuto dal presidente del Consiglio e a seguito dell’incontro a Palazzo Chigi si è confermata la volontà comune di riaprire gradualmente gli stadi a partire da ottobre, in attesa dell’analisi delle curve dopo la riapertura delle scuole”.

E ha poi fatto chiarezza sulle decisioni prese dai governatori di Emilia-Romagna e Veneto: “Il dpcm in vigore dai primi di agosto e rinnovato a settembre consente dei margini di intervento ai presidenti delle Regioni ed alcuni hanno deciso di aprire gli stadi nei loro territori, seguendo le norme previste – ha spiegato – Riceverò con piacere il presidente Dal Pino nei prossimi giorni, la ripresa del campionato è una buona notizia per tutti gli appassionati e gli sportivi, tra cui il sottoscritto. Spero in una stagione di sport entusiasmante e faccio il mio in bocca al lupo a tutte le squadre coinvolte”.

L’articolo Riaprono gli stadi in Serie A: limite a mille persone dopo il summit Governo-Regioni. Spadafora: “Vogliamo allargare a tutti” proviene da Il Fatto Quotidiano.

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